N on sembrerebbe ma The Social Network è uscito meno di dieci anni fa, nel 2010. Diretto da David Fincher su sceneggiatura di Aaron Sorkin, il film racconta la storia di Facebook, del suo fondatore Mark Zuckerberg e delle grane legali che ne caratterizzarono l’ascesa: era l’inizio di una rivoluzione in corso, anzi appena iniziata. Oggi che la “leggenda del biondino con Asperger che divenne miliardario tutt’al più rubando qualche idea” si è trasformata nella storia ben più tragica del “trentenne che detiene i mezzi di comunicazione di miliardi di persone e incontra il Presidente degli Stati Uniti quasi in segreto”, rivedere la pellicola offre strani brividi freddi. L’impressione è di essere inciampati in un wormhole, sbucando in una dimensione parallela.
Cos’è successo in questi anni? Nel torrente in piena che sarebbe la risposta a questa domanda, possiamo individuare un punto fermo: i social media hanno cambiato tutto, dalla vita quotidiana alla geopolitica. A causa di questo stravolgimento, il sito Facebook.com – che si visitava usando un computer, magari anche al lavoro – è diventato quello che oggi chiamiamo Facebook: un colosso che controlla molte delle app per smartphone più utilizzate al mondo e assorbe dati e informazioni su di noi anche quando non viene utilizzato. Così il fondatore Zuckerberg è uscito dalla confortevole narrazione sorkiniana del genio riottoso e ribelle diventando ciò che è oggi: un miliardario il cui potere è “senza precedenti”, per dirla con l’Atlantic; l’apoteosi di una nuova classe di billionaire digitali, che alle miniere e alle piattaforme estrattive hanno sostituito la nostra attenzione e vita personale; il simbolo di un nuovo ordine mondiale – e non nel senso degli Illuminati o dei Rettiliani – in grado di condizionare il nostro futuro.
Gli ultimi due anni sono stati infernali per l’azienda, assediata da cause legali, accuse di gestione arbitraria dei dati degli utenti, sospetti nati dal giorno dopo il referendum su Brexit, intensificatisi con l’elezione di Donald Trump e diventati etere bollente nel 2018 con lo scandalo Cambridge Analytica, che ha dimostrato che decine di milioni di dati personali di utenti di Facebook erano stati utilizzati in maniera quantomeno poco trasparente per inviare annunci politici mirati. Negli ultimi mesi Mark Zuckerberg è rimasto al centro dell’attenzione dei media: nell’arco dello stesso mese in cui abbiamo scoperto del suo incontro segreto con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha attaccato piuttosto direttamente una delle principali candidate democratiche alle prossime Presidenziali, Elizabeth Warren, che ha proposto di dividere aziende come Facebook per limitarne lo strapotere. Il primo ottobre scorso, poi, Casey Newton, reporter della Silicon Valley per il sito The Verge, ha pubblicato dei brani da una recente riunione tra il CEO e alcuni suoi dipendenti. Nei leak Zuckerberg parla a ruota libera del suo rapporto con il Congresso e spiega che “rompere” Facebook, Google e Amazon non è “la risposta”, per poi tornare su Warren: “Se viene eletta presidente allora avremo problemi legali, e sono certo che vinceremo noi”.
Tensioni che hanno portato allo scontro finale, avvenuto lo scorso 24 ottobre, tra il CEO e la deputata newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, durante una riunione del Comitato House Financial Services durante il quale Zuckerberg avrebbe dovuto rassicurare il congresso sui tanti dubbi che circolano attorno a Libra, il sistema di criptovalute di Facebook. Ocasio-Cortez ne ha approfittato per metterlo davanti alle considerevoli contraddizioni della policy del social network, aggrovigliate in un gomitolo di problemi che riguarda tutta l’informazione e la propaganda, ma che sui social è più mai visibile: Facebook aveva infatti da poco annunciato che avrebbe permesso alle pagine di politici e di partiti politici di produrre inserzioni pubblicitari senza alcun fact-checking, nel nome della libertà d’espressione. Ocasio-Cortez ha inanellato domande sempre più incalzanti e il potente fondatore si è trovato a balbettare frasi come: “Well, Congresswoman, I think lying is bad”.
Le risposte secche di Facebook alla Warren e l’imbarazzo di Zuckerberg davanti a Ocasio-Cortez sono due momenti politicamente importanti, avvenuti nel corso di poche settimane. L’immagine pubblica, politica, della piattaforma è cambiata profondamente. Se è Trump – o i Repubblicani – ad attaccare i social media, le repliche di Facebook sono spesso cortesi e deferenti; quando è una parte del Partito Democratico statunitense a farlo (e nelle ultime settimane anche Hillary Clinton si è aggiunta al coro, con un intervento piuttosto critico durante la presentazione di The Big Hack, documentario su Cambridge Analytica), le risposte sono schiette e brusche.
Tale double standard sembra giustificato in parte dalla presunzione della radice “liberal” della Valley, per cui i suoi CEO, storicamente più vicini alle posizioni progressiste del classico imprenditore milionario, subiscono il potente scetticismo della destra e si possono “permettere” di infliggere colpi più forti a sinistra. (Quanto Zuckerberg sia effettivamente liberal o trumpiano è una discussione che lasciamo ad altri, anche se sono da segnalare i rapporti e l’influenza ormai decennale che Peter Thiel può contare sul nostro Fondatore: Thiel è un investitore turbo-libertario, co-fondatore di PayPal insieme a Elon Musk e tra i pochissimi sostenitori “pubblici” di Trump nella Valley.)
Tutto questo ha reso gli eventi dello scorso mese ancora più incendiari e decisivi, portando a un rendez-vous tra Zuckerberg e Warren: prima Facebook ha risposto su Twitter alle accuse di Warren, accusandola di strumentalizzare le nuove normative di Facebook riguardo i politici, a cui viene di fatto permesso di mentire. Così la candidata democratica aveva deciso di pubblicare – e sponsorizzare – post volutamente falsi su Facebook e Zuckerberg, in modo da portare a galla i difetti della policy.
We intentionally made a Facebook ad with false claims and submitted it to Facebook’s ad platform to see if it’d be approved. It got approved quickly and the ad is now running on Facebook. Take a look: pic.twitter.com/7NQyThWHgO
— Elizabeth Warren (@ewarren) October 12, 2019
Facebook ha risposto direttamente al tweet della candidata, innescando un botta e risposta piuttosto vivace, dal quale si evincono i contorni di quello che sembra sempre più un patto faustiano siglato da Facebook con la disinformazione: se da un lato le fake news sensazionalistiche creano enorme engagement e suscitano forti emozioni, necessarie per mantenere attivi gli utenti di un social network che accusa i primi acciacchi, dall’altro le responsabilità politiche – e civiche – di questa pratica si fanno sempre più pesanti. “Se Facebook accetta che i politici pubblichino bugie nelle pubblicità sul sito,” ha scritto Casey Newton qualche giorno dopo il suo scoop, “allora l’azienda deve anche accettare di essere complice della diffusione di disinformazione”.
@ewarren looks like broadcast stations across the country have aired this ad nearly 1,000 times, as required by law. FCC doesn’t want broadcast companies censoring candidates’ speech. We agree it’s better to let voters—not companies—decide. #FCC #candidateuse https://t.co/WlWePjh1vZ
— Facebook Newsroom (@fbnewsroom) October 12, 2019
Roger McNamee è un vecchio arnese della Silicon Valley, un aspirante reporter che a San Francisco si diede agli investimenti in borsa, diventando uno di quei VC che puntano su startup emergenti. Nel 2006 ricevette una mail che sembra uscita da The Social Network: il fondatore di Facebook, all’epoca cavallo rampante della scena digitale, era “in crisi esistenziale” e aveva bisogno d’aiuto. “L’incontro più strano di sempre”, come lo ha definito McNamee, ebbe luogo nei suoi uffici, con un giovane Zuckerberg stravolto, alle prese con investitori e soci che volevano vendere l’azienda, cedendo alle avances miliardarie di Yahoo e altri giganti dell’epoca. Il senior era incuriosito da questo giovane dropout di Harvard. Gli consigliò di non mollare e non vendere, cosa che colpì Zuckerberg abbastanza da ammutolirlo per cinque minuti. Così iniziò la loro collaborazione: McNamee fu invitato ad acquistare azioni della società e per qualche anno consigliò il Fondatore, per esempio suggerendo Sheryl Sandberg per il ruolo di Chief Operating Officer.
Le cose sono cambiate per tutti, dicevamo – anche per McNamee, che è uscito dall’azienda e nel libro Zucked. Come aprire gli occhi sulla catastrofe di Facebook racconta cosa lo ha spinto a passare da socio ad accanito detrattore della piattaforma. Da tempo, racconta, aveva forti critiche sul funzionamento degli algoritmi di Facebook, che invano cercava di far arrivare ai piani alti. Fu solo nel 2017, con la visione di un servizio di 60 minutes, programma statunitense di inchieste giornalistiche, che entrò in contatto con il concetto di “brain hacking” e il lavoro di Tristan Harris.
Harris è un giovane designer che ha lasciato il suo posto presso Google per combattere pubblicamente i mezzi di persuasione usati dai giganti digitali per controllare e manipolare la nostra attenzione. Per “hackeraggio di cervello” si intende quella serie di pratiche con cui un utente viene ricompensato e stimolato dai siti e le applicazioni: i video con l’autoplay, le notifiche sempre accese, le chat che si aprono automaticamente, i commenti e i like che fanno sentire importanti. Sono trovate che si rivelano potentissimi strumenti persuasivi, secondo i precetti del professore B.J. Fogg, autore di Tecnologia della persuasione, che per primo studiò il rapporto tra tecnologia e psicologia con riferimento alla propaganda politica.
Nel 2014 Facebook pubblicò i risultati di una “prova sperimentale di contagio emotivo di massa attraverso i social network”, con cui dimostrava che le notizie e i post apparsi sul feed degli utenti avevano un impatto nel loro umore – di cui Facebook aveva pieno controllo. Se il giovane Zuck di The Social Network si sentiva estraneo al mondo e alle sue misteriose relazioni interpersonali, la sua creatura, già nel 2014, finiva per giocherellare con le nostre emozioni a fini di convincere brand e aziende delle potenzialità pubblicitarie del prodotto.
Per capire la preoccupazione di McNamee, Harris e gli altri “pentiti” della Valley, proviamo a mettere in fila alcune delle informazioni a nostra disposizione: Trump conta sempre di più sui social per la sua campagna elettorale; Facebook è al centro di accuse fondate sulla disinformazione destabilizzatrice prodotta dalla Russia e altri Paesi; il sito ha un enorme potere persuasorio che non esita a mettere in vetrina, quando si tratta di vendere pubblicità; Zuckerberg, come rivelato da Politico il 14 ottobre, ha incontrato segretamente personalità vicine ai repubblicani e Trump; la senatrice Warren è in corsa per la Casa Bianca e viene ritenuta dal CEO un “rischio esistenziale”.
A tutto questo va aggiunto quanto sottolineato da Charlie Warzel, responsabile del “Privacy Project” del New York Times, sulla natura intrinsecamente “trumpiana” – o meglio: populista – di Facebook.
Sia Trump che Duterte [presidente delle Filippine, Ndr] hanno usato le controversie per manovrare la viralità. In una piattaforma come Facebook, progettata per promuovere l’engagement, il loro comportamento genera un circolo vizioso: contenuti incendiari portano a un pubblico più largo, che porta a campagne pubblicitarie più d’effetto. […] Un candidato naturale per Facebook domina il ciclo delle notizie e incendia le emozioni – cose che a loro volta aumentano la loro capacità di raccogliere donazioni. Una volta che i candidati capiscono che la retorica divisiva paga, cresce lo stimolo ad aumentare le pubblicità di parte e la disinformazione.
Anche per questo guardare The Social Network oggi fa un effetto così strano: all’epoca del film la Valley poteva ancora presentarsi al mondo come un’icona liberal e progressista, il nido di migliaia di aziende il cui motto includeva le parole “un mondo migliore”, guidate da imprenditori che seguivano la strada indicata da Steve Jobs, vestendosi casual e presentandosi come la faccia buona del capitalismo. Il confronto con la cronaca odierna è stravolgente, ma forse potevamo leggerne l’arrivo guardando al giorno in cui Zuckerberg aveva da poco fondato Facebook e si ritrovava con i dati di mezza Harvard; a quando scriveva a un amico in chat: “yea se hai bisogno di info su qualsiasi persona ad Harvard / chiedimi pure” e dava ai suoi primi utenti dei “dumb fucks”, che anche a chi non conosce l’inglese, a questo punto, non potrà sembrare un complimento.