A Ferragosto a Zervò c’è traffico di uomini, donne e mezzi di vario tipo. Migliaia di persone affollano la Strada Comunale Santa Cristina d’Aspromonte, una delle (poche) strade che taglia la catena montuosa più a sud dell’Italia continentale. Arrivano dai comuni circostanti, Platì, San Luca, Scido, Oppido Mamertina, ma anche da più lontano, da Reggio Calabria e Bovalino. I paesi più vicini distano venti minuti, mezz’ora di macchina, e bisogna conoscerle queste strade dell’Aspromonte per andare veloci. Qui sorge un gigantesco sanatorio, costruito negli anni Venti del novecento per i tubercolotici militari reduci della Prima guerra mondiale, poi abbandonato, diventato luogo di incontro e di scampagnate, e poi tante altre cose, inclusa una comunità di recupero di Don Gelmini e un ristorante.
A Ferragosto a Zervò c’è traffico di uomini, donne e mezzi di vario tipo, ma passando da questo ex sanatorio anche solo il 14 o il 16 agosto il silenzio regna sovrano. E il silenzio, da queste parti, è stato il protagonista nell’ultimo secolo. Ma è un silenzio che racconta mille storie.
La storia d’Italia
Sull’Aspromonte sono passati diversi momenti della Storia d’Italia. Proprio su queste montagne “fu ferito a una gamba”, secondo la celebre canzoncina popolare, e anche secondo il triste e semiabbandonato “Mausoleo Garibaldi”, a qualche chilometro da Zervò, nel comune di Santo Stefano d’Aspromonte. Da queste parti sembrano abbondare più i riferimenti ai Borboni e ai briganti, che quelli a Giuseppe Garibaldi. La patria, tuttavia, ricorda riconoscente, e le targhe si sprecano. Qualche ora di passeggiata e si arriva al Santuario della Madonna di Polsi, luogo simbolo dell’‘Ndrangheta. Basta chiedere a qualunque over 30 italiana/o a cosa associano la parola Aspromonte e probabilmente risponderebbero: “sequestri”, che per una quarantina d’anni hanno imperversato da queste parti. Prima, proprio qui ha avuto luogo uno degli ultimi scontri tra italiani e angloamericani (canadesi, per la precisione), l’8 settembre 1943, suscitando l’ammirazione ed il rispetto delle preponderanti forze anglo-canadesi, i quattrocento paracadutisti dell’VIII BTG del 185° RGT della div. NEMBO, combattendo per l’onore della Patria, si coprirono di gloria
ricorda il monumento. Cippi, targhe, edicole, croci, l’Aspromonte ne è pieno, memoria laica e religiosa, pezzi di storia che si sono incastonati in questa montagna aspra e bianca – le due etimologie di Aspromonte, la prima evidente, la seconda dal grecanico “aspro”, che significa bianco. Ma il lascito materiale più imponente della storia passata è l’ex sanatorio di Zervò, a oltre 1100 metri di altezza, completamente immerso nel verde, 56mila metri cubi di muratura più 400 ettari di terreni, un complesso immenso e perturbante.
Un sanatorio
Non solo a Ferragosto, anche il 28 ottobre 1929 a Zervò c’è grande festa. Si inaugura il sanatorio militare dell’Aspromonte. C’è Adalberto di Savoia, Duca di Bergamo (in rappresentanza del re), il sottosegretario alla guerra onorevole Manaresi, il senatore Alessandro Lustig, presidente della benemerita Opera fondatrice del sanatorio, che è il principale artefice di quest’opera mastodontica, nove padiglioni, “180 posti letti… gabinetti medici attrezzati con i sistemi più moderni”, scriveva il Corriere della sera il giorno dopo.
Qui sorge un gigantesco sanatorio, costruito negli anni Venti del Novecento per i tubercolotici militari reduci della Prima guerra mondiale.
C’è anche una troupe dell’Istituto Luce, che mostra quelle stesse stanze e padiglioni dove ora si può gustare formaggio tipico della zona. Il sanatorio nasce con un iter complesso: costruito in un paio d’anni ma con una preparazione che parte dal 1923, è finanziato da vari enti e associazioni, incluse quelle che rappresentano gli italiani in Argentina – l’emigrazione è un fenomeno che tra fine Ottocento e inizio Novecento ha già portato migliaia di calabresi (e italiani in generale) oltreoceano, mantenendo però saldi i rapporti con la madrepatria. È una spesa enorme, servono molti contribuiti. A costruirlo è l’Opera Nazionale Invalidi di Guerra, e infatti era destinato ai turbercolotici reduci della Prima guerra mondiale. I 400 ettari appartengono a ben cinque comuni della zona (Oppido Mamertina, Santa Cristina d’Aspromonte, Varapodio, Scido e Platì), che cedono parte del loro territorio vincolando questa operazione a destinazione sanitaria. Così il Comune di Scido riesce, nel dopoguerra, a rivendicare la proprietà del gigantesco immobile, nel frattempo passato all’INPS: se non viene usato per scopi sanitari, torna al Comune. Già, perché come sanatorio Zervò dura poco, anche se nel luglio 1930 il Comitato esecutivo dell’ONIG prendeva atto
dello sviluppo magnifico che in pochi mesi ha raggiunto il sanatorio meridionale di alta montagna ‘Vittorio Emanuele III’ [questo il nome ufficiale] sull’Aspromonte. Ed ha deliberato la conferma in carica del direttore e medico e un elogio a tutto il personale che con vera abnegazione attende alla sua filantropica missione. Si sono inoltre adottati provvedimenti intesi a portare il sanatorio alla massima efficienza”
(Corriere della sera, 1 agosto 1930).
In realtà già nel 1932 diminuisce la portata di pazienti (che pagano peraltro tantissimo) e già nel 1934 è chiuso. Enzo Lacaria, nel volumetto Zervò, una speranza fino a ieri una realtà oggi, stampato dal Comune di Scido nel 1998, scrive: nei primi due anni, spinti dalla propaganda di regime e dalle false notizie sulla salubrità dei luoghi per l’intero periodo dell’anno, i ricoverati furono diverse migliaia: entro il dicembre del 1931 i dimessi, furono 676. Di essi solo 174 furono dichiarati guariti e 522 furono dimessi senza aver registrato sensibili miglioramenti alla loro salute.
Lacaria individua tre problemi: il freddo, i problemi logistici, e la mancanza di medici in loco. Insomma, le condizioni non sono ideali, e forse questo lo si sapeva già prima di costruirlo, ma si è deciso comunque di imbarcarsi in un’opera costosa ma anche conveniente per chi l’ha costruita. Una volta chiuso, grazie ad una grande speculazione, viene venduto all’antesignano fascista dell’INPS: è “la prima grande truffa di Stato verso la Calabria”, ancora secondo Lacaria. Sicuramente, e purtroppo, a queste latitudini rimane l’abitudine a spendere un sacco di soldi pubblici per opere che rimangono aperte pochissimo tempo, basta andare a rivedersi la storia della Liquichimica Biosintesi, a Saline Joniche (vicino Reggio Calabria, un centinaio di chilometri da Zervò), rimasta aperta pochi mesi, dopo investimenti milionari.
A queste latitudini rimane l’abitudine a spendere un sacco di soldi pubblici per opere che rimangono aperte pochissimo tempo.
Chiunque abbia visitato un sanatorio, ma anche un manicomio o un qualche ospedale per malattie infettive, sa quali sono le caratteristiche ricorrenti di questi posti. Siti spesso in zone isolate, come appunto alta montagna ma anche isole (quelle di New York, per dire, ne sono pieni), erano mondi a sé, con cinema, teatro, lavanderia, biblioteca, dovevano funzionare il più possibile autonomamente. Non deve stupire quindi che il sanatorio sorga in posizione isolata, ma in questo caso si tratta di una situazione particolarmente impervia. Del resto, se non è facilissimo adesso raggiungere Zervò, figuriamoci negli anni Venti o Trenta. E il freddo, naturalmente, ancora oggi si fa fatica a riscaldare tutta la struttura (o meglio, le strutture). Tutti fattori che hanno contribuito a far chiudere il sanatorio che funzionava come sanatorio, o meglio a far chiedere il primo capitolo della storia di questo posto.
Il silenzio
Non è un’usanza recente, quella di salire da queste parti per Ferragosto o altre feste comandate. “Il Sanatorio è divenuto rifugio per gli animali al pascolo nei dintorni o punto d’appoggio per cacciatori” ma anche per campeggiatori e turisti che in alcuni giorni festivi arriva a toccare le decine di migliaia di unità, racconta un altro volumetto, S.O.S. Zervò per il riuso dell’ex sanatorio e la valorizzazione agro-turistica di 400 ettari di bosco, pubblicato nel 1982 sempre dal Comune di Scido. Intanto si susseguono ipotesi: scuola, istituti religiosi, e temporaneamente si installano qui militari e si fanno campi scout. Ma per il resto, è il silenzio a dominare dalla chiusura del sanatorio.
Un silenzio che viene interrotto da elicotteri, blindati, vociare di giovani in uniforme mandati quaggiù da chissà dove, come tanti altri prima di loro nella storia d’Italia. “L’elicottero volteggia sopra il Cristo dei sequestrati e il poliziotto scruta giù, verso il bosco fitto di Zervò. Il silenzio della montagna viene nuovamente violato alla ricerca di un prigioniero dell’Anonima”, racconta Pantaleone Sergi, che per Repubblica ha raccontato i sequestri aspromontani. È il 1998, il rapimento di Alessandra Sgarella è il canto del cigno della stagione dei sequestri, che in larga parte si è conclusa a inizio decennio quando, scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso (in Storia segreta della ‘Ngrangheta), il blocco dei beni famigliari del rapito diventa un ostacolo difficile da superare per i sequestratori, che devono affrontare anche “la pressione sempre più massiccia delle forze dell’ordine”. Bisogna andare a ritroso, l’emergenza sequestri era cominciata molto prima, con l’apice negli anni Settanta e Ottanta: per importanza e per eco mediatica ha un ruolo fondamentale il rapimento di Paul Getty III (1973), e poi tanti altri, da Cesare Casella a Carlo Celadon.
Zervò è un luogo chiave di quella stagione, ed è vicinissimo al luogo più simbolico per l’‘Ndrangheta, il Santuario di Polsi, dove tra fine agosto e inizio settembre, in occasione della Festa della Madonna della Montagna, si tenevano/tengono le annuali riunioni dei vertici: “la nostra società è nata in queste zone e qui deve rimanere. I nostri antenati si sono sempre riuniti nei pressi del santuario della Madonna della Montagna. Possiamo spostare le riunioni, ma l’epicentro deve rimanere a Polsi” avrebbe detto a ottobre 1969 il boss Giuseppe Zappia, arrestato proprio in occasione di una di queste riunioni (riportano le sue parole ancora Gratteri e Nicaso). Al leggendario brigante Musolino, quando lo arrestano nel 1901, trovano in tasca proprio un’immagine nel santuario. Nel 2009, i ROS dei carabinieri riescono addirittura a documentare con microcamere e microfoni “per la prima volta strette di mano tra gli uomini del Crimine [il livello più alto dell’‘Ngrangheta] che sancivano i nuovi vertici dell’organizzazione” (così Antonio Talia, Statale 106. Viaggio sulle strade segrete dell’Ndrangheta).
Zervò è un luogo chiave della stagione dei sequestri, ed è vicinissimo al luogo più simbolico per l’‘Ndrangheta, il Santuario di Polsi.
Sono molti i sequestrati rilasciati a Zervò o nei dintorni. Per esempio, a maggio 1984, viene rilasciato Vincenzo Granieri, grossista di carni, romano, recluso per 370 giorni. Lo trovano, “stanco e distrutto”, i carabinieri di Santa Cristina, “aveva la barba e i capelli lunghi e incolti, gli abiti sporchi e stracciati; indossava gli stessi panni che aveva quando è stato rapito, la mattina del 24 maggio dell’anno scorso”, secondo la prosa di Cesare De Simone sul Corriere della sera. Nel 1990, il 18 dicembre, “davanti a un ex sanatorio, a 4-500 metri dal famosissimo Cristo di Zillastro” (ancora il quotidiano di Via Solferino), viene rilasciato Rocco Surace. Chi combatte i rapitori comincia a frequentare l’ex sanatorio, che in questi anni diventa infatti anche il quartier generale dei nuclei di Carabinieri: L’operazione mira a riaffermare la presenza dello Stato in una zona definita da sempre il regno impenetrabile della mafia, percorsa da sentieri che formano labirinti entro i quali solo i mafiosi riescono a districarsi e costellata da migliaia di grotte che sono, da sempre, comodo rifugio per i grandi latitanti dell’ndrangheta(Corriere della Sera, 30 ottobre 1984)
Nell’ex sanatorio “sono sistemati i reparti dei carabinieri e un nucleo dei ‘Gis’ (gruppi interventi speciali)” quando il ministro Antonio Gava visita l’Aspromonte, nel pieno dell’emergenza sequestri, nel 1989. Lo stesso anno si arrampica su queste montagne anche un inviato speciale del giornale di Via Solferino che risponde al nome di Vittorio Feltri, che non si è ancora messo in proprio fondando altri giornali. Critica le operazioni di polizia, giudicate inutili, e collega esplicitamente passato e presente di Zervò:
eppure, anche su questi monti che non finiscono mai, le istituzioni hanno lasciato un segno: un sanatorio vuoto che si sbriciola. Fu costruito dalla sanità fascista e praticamente mai usato, perché il clima umido non guarisce i polmoni, li avvizzisce. Soldi sprecati, ieri come oggi. Ieri in monumenti inutili, oggi in perlustrazioni fantasma.
Il primo luglio del 1990, nel momento ormai discendente dell’industria dei rapimenti, proprio a Zervò si danno appuntamenti famigliari e amici dei sequestrati. In quel momento, erano almeno cinque, nascosti in quelle montagne o forse altrove, e la marcia era guidata da madre coraggio (Angela Casella, il cui figlio era stato liberato solo sei mesi prima dopo due anni di prigionia) e Carlo Celadon, che aveva passato 831 giorni nelle mani dell’Anonima. Zervò è insomma è “passaggio obbligato per molti sequestrati”.
Comunità Incontro
Il giorno della festa, Ferragosto, Don Pierino, era solito trascorrerlo proprio a Zervò. La festa, di nuovo, il giorno in cui queste valli si riempiono di gente. Si è rinnovato anche quest’anno a Zervò, in Aspromonte, l’appuntamento di Ferragosto alla comunità Incontro di don Gelmini. In migliaia hanno preso parte alla messa nella “cattedrale del cielo” e alla festa nell’agorà. Presente anche il presidente della Regione Giuseppe Scopelliti. “Non sto molto bene – ha detto don Gelmini – ma ho voluto comunque essere qui. Non potevo non esserci. Non pregate la mia salute ma per il futuro della comunità’”
riporta l’ANSA; siamo nel 2012, le autorità civili presenziano a questa festa religiosa. Non mancano mai, quelle locali, ma anche quelle nazionali: in un video del Ferragosto 2008 si vede, per esempio, Gelmini che saluta calorosamente il senatore Maurizio Gasparri, un habitué di queste e altre celebrazioni della Comunità Incontro.
Nel 1996 infatti si era aperto un altro capitolo della storia di Zervò, intrecciando di nuovo, la storia d’Italia: l’ex sanatorio diventa una comunità di recupero.
Nel 1996 infatti si era aperto un altro capitolo della storia di Zervò, intrecciando di nuovo, la storia d’Italia: l’ex sanatorio diventa una comunità di recupero. Dopo che grazie a una serie di finanziamenti pubblici il Comune di Scido era riuscito a restaurare la struttura, viene affidata alla Comunità Incontro di Don Piero Gelmini. A luglio, riportano le cronache del tempo, visita la zona e se ne innamora, a settembre, Don Gelmini bacia la terra d’Aspromonte – c’è una foto a testimoniarlo. All’apice del successo e sviluppo, Gelmini controlla circa 200 comunità di recupero per tossicodipendenti in Italia e all’estero. È un prete controverso, coccolato dalla politica (specie destra e centrodestra), con i procedimenti giudiziari che lo inseguono fin dagli anni Settanta; ma per ricostruire la vita e carriera di Don Pierino Gelmini servirebbe un altro articolo.
Chissà cosa hanno pensato i primi 25 giovani che il primo dicembre 1996 vanno a vivere sull’Aspromonte, neve e nebbia li attendono, assieme ai loro ospiti a Zervò. Li riscalderà, a sera, la legna che arde scoppiettando, il ‘sermone’ di don Gemini, la loro volontà di mostrare, per primi a
sé stessi, di voler superare ogni difficoltà, di essere i pionieri del futuro di Zervòscrive sempre Lacaria nel volumetto del 1998. Una foto li ritrae con vestiti invernali, sembrano spaesati. Da queste parti, in inverno, la temperatura arriva sotto gli zero gradi. Fa freddo, come lo faceva settanta anni prima del resto. Per quasi vent’anni, fino al 2014 quando Gelmini muore, arrivano giovani, ci sono attività di vario tipo, incluso un piccolo zoo e una fattoria didattica. Sempre grazie anche a finanziamenti pubblici. Ogni Ferragosto, si sale da queste parti, e arriva Don Gelmini che manterrà un rapporto speciale con Zervò. Nel 2013, l’ultimo anno della sua vita e della comunità che ha fondato, “dopo la cerimonia religiosa c’è stato il pranzo ed il posto che generalmente occupava tutti gli anni don Gelmini è stato preparato normalmente come se lui fosse presente”.
Nel 2014 il gigantesco complesso edilizio torna al Comune di Scido che lo affida, attraverso bando, alla Cooperativa Sociale “Il Segno” di Oppido Mamertina. Comincia l’ennesimo capitolo della storia di questo anfratto di storia d’Italia in Aspromonte, dove continua a dominare spesso il silenzio.
Per ricostruire la storia di Zervò ho usato i due volumetti stampati dal Comune di Scido e i molti articoli di giornale citati nel testo. Fondamentale è stata una lunga conversazione con Franco nei locali dell’ex sanatorio. Il libro Statale 106 di Francesco Talia è stato utile per provare a capire come raccontare questa storia. Gli scambi con Luigi Colucci e Ida Dominijanni hanno puntellato quello che sapevo e non sapevo, e grazie a Francesca e Vito, pedalando.