N on è la prima volta che crittoanalisti ed entusiasti delle tecnologie peer-to-peer annunciano una rivoluzione: dopo le criptovalute come Bitcoin, ad esempio, che avrebbero dovuto modificare radicalmente gli assetti della finanza mondiale, dopo il ritorno della tecnologia blockchain sotto i riflettori, almeno in alcune nicchie di internet, gli esperti oggi evocano l’inizio di una nuova era, quella del web 3.0, o Web3.
Il web 2.0 era quello della rete come piattaforma, dei social network e dello user-generated content. La versione precedente, il web 1.0, era la rete degli inizi, fatta di piccoli blog personali o siti di informazione, aziende e esercizi commerciali, con pagine statiche e solo un limitato numero di persone che creavano contenuti, rispetto a coloro che li consumavano. Le piattaforme hanno non solo trasformato il modo in cui noi utenti fruiamo della rete, ma anche la struttura economica e i modelli di ricavo che la alimentano.
Se il web 1.0 era fondato sull’idea del libero accesso alla conoscenza e sulla relazione diretta tra utenti, la rete delle piattaforme è il regno dei colossi privati del social web e dell’e-commerce. Il paradigma 2.0 presenta i lati oscuri con cui abbiamo ormai familiarità: monopolio dei dati, controllo centralizzato dei ricavi, sorveglianza, mancanza di trasparenza e difficoltà nella regolazione, oltre che interferenza con i processi democratici.
Il termine Web3, il nuovo corso che dovrebbe rompere il monopolio delle piattaforme, è opera di Gavin Wood, fondatore di Ethereum (una delle principali criptovalute insieme a Bitcoin) nel 2014. Nella nuova iterazione della rete internet, il possesso e il controllo dei servizi apparterrebbero a una molteplicità di soggetti privati, che lo eserciterebbero con l’uso dei token. I token sono essenzialmente asset che si possiedono in rete: criptovalute come Bitcoin o Ethereum, riproduzioni di asset assicurativi o prestiti che rispecchiano le funzioni del sistema finanziario tradizionale, diritti di proprietà su opere virtuali.
Nel Web3, il possesso e il controllo dei servizi apparterrebbero a una molteplicità di soggetti privati, che lo eserciterebbero grazie a dei token.
La blockchain è alla base anche dei cosiddetti NFT, non fungible token, che hanno attirato l’interesse degli analisti a cavallo tra il 2020 e il 2021 e sono utilizzati per vendere e acquistare creazioni artistiche protette da copyright. Ma l’onda del Web3 è andata oltre. Un gruppo di fanatici della blockchain ha cercato di acquistare una copia della Costituzione Americana costituendo una DAO, un’associazione autonoma decentralizzata basata su smart contract e token di governance. Gli smart contract sono degli accordi tra individui fondati sui protocolli blockchain. I governance token sono l’equivalente delle azioni corrispondenti a quote di voto in un consiglio di amministrazione. Il crowdfunding per l’acquisto ha raggiunto i 40 milioni di dollari in Ethereum. Anche se non è andato a buon fine, e la copia della Costituzione è finita in mano al miliardario Ken Griffin, questa storia è un esempio di come dovrebbe funzionare l’internet del futuro secondo i guru del Web3: attraverso individui che possiedono parti del web, che lo possono controllare e possono operare attraverso diversi asset con funzioni specifiche.
Il paradigma del Web3 decentralizzerebbe quindi la proprietà dei servizi internet, democratizzandone l’accesso e aumentandone la privacy, sottraendo il controllo dei dati degli utenti alle grandi piattaforme.
Le ragioni dell’entusiasmo
GameStop – che quasi un anno fa era stata protagonista di una spettacolare crescita del valore delle proprie azioni grazie a Reddit – sta a quanto pare sviluppando un progetto di gaming basato su alcuni dei protocolli del Web3. La compagnia ha postato su LinkedIn degli annunci di lavoro per ruoli come “NTF software engineer” e “Head of Web3 gaming”. Ci sono state delle azioni di lobbying da parte di investitori californiani, in particolare del fondo di investimento a16z, recatisi a Washington per discutere del futuro delle tecnologie blockchain. Pare che proprio a16z, che in passato ha investito in aziende come Facebook e Airbnb, abbia annunciato lo stanziamento di tre fondi dedicati alle tecnologie decentralizzate, per un totale di oltre tre miliardi di dollari. Secondo Fortune, l’ammontare degli investimenti di venture capital sul Web3 arriva a ventisette miliardi di dollari.
Nonostante il Web3 si caratterizzi nominalmente come una rivoluzione nella gestione delle infrastrutture partita dal basso e radicata in piccole comunità di cripto-entusiasti, ha già suscitato il fervore dei grandi investitori. Una delle ragioni dell’hype è proprio questa: intorno alla nuova parola d’ordine del mondo tech girano i soldi. Come tutte le bolle, e in particolare quelle tecnologiche, l’esaltazione è un asset: più si crea rumore intorno a una particolare tecnologia, più questa sale di valore, più l’entusiasmo verso la stessa porta ad alti investimenti e lauti guadagni. Almeno finché la bolla non scoppia. “C’è tanta gente che ha tanti soldi da investire” ha dichiarato James Grimmelmanld, un professore della Cornell University che si occupa di diritto e tecnologia, in un’intervista a NPR. “E ha bisogno di qualche grande visione in cui lanciarli”.
Il Web3 decentralizzerebbe la proprietà dei servizi internet, democratizzandone l’accesso e aumentandone la privacy.
Un’altra ragione dell’entusiasmo è la fretta di mettere sotto il tappeto le enormi contraddizioni del cosiddetto web 2.0: annunciando a gran voce di star costruendo un nuovo internet decentralizzato, si spera di spazzare via le domande difficili che lo strapotere delle piattaforme pone alla società, in termini di etica o di questioni regolatorie. C’è chi lo ha capito molto bene.
Gli slogan del Metaverso
“Il Metaverso non sarà creato da una sola compagnia” ha annunciato Mark Zuckerberg in una lettera aperta dello scorso ottobre. “Sarà costruito da creatori e sviluppatori che progetteranno nuove esperienze e item digitali interoperabili, sbloccando il potenziale di un’economia creativa immensamente più grande di quella di oggi, costretta nei confini delle piattaforme e delle loro policy”.
L’idea di creazione di valore decentralizzata si inserisce, secondo le parole di Zuckerberg, all’interno della visione del Metaverso: la piattaforma di web immersivo ed esperienziale su cui la compagnia (che ha da pochi mesi adottato il nome di Meta), punta per il suo sviluppo futuro. Nonostante si proclami un superamento della logica delle piattaforme private, lo spazio di movimento della nuova economia del Web3 sarà alimentato, sempre secondo Zuckerberg, da “tecnologie fondamentali, social platforms e strumenti creativi” intessuti nell’infrastruttura e nelle app di Meta.
Eshter Crawford, una senior project manager di Twitter, ha dichiarato in un’intervista a NPR che anche la piattaforma fondata da Jack Dorsey incorporerà i concetti di Web3 nel suo modello di social network, ad esempio associando gli account Twitter con delle criptovalute. È lecito chiedersi se il potere delle piattaforme sarà davvero abbattuto dai nuovi paradigmi, oppure farà semplicemente un passo indietro, nascondendosi meglio dietro gli slogan della decentralizzazione e dell’economia creativa.
L’educazione politica della Silicon Valley
A un’analisi attenta, non sorprende che un modello di governance della rete come quello promosso dalle comunità crypto-entusiaste del Web3 attecchisca così facilmente nei palazzi del potere della Silicon Valley. La matrice politica dietro la creazione delle startup come Facebook, Twitter o Airbnb è quella del tecno-libertarismo, una filosofia politica con radici nel cypherpunk e nella cultura hacker degli anni Novanta, profondamente contraria a qualsiasi tipo di regolamentazione o interferenza governativa con il mercato. È l’ideologia politica secondo cui il progresso tecnologico, se lasciato a sé e non regolamentato, può essere il trampolino di lancio per una nuova umanità. È anche la medesima ideologia che predica la meritocrazia selvaggia e che giustifica le diseguaglianze globali.
È lecito chiedersi se il potere delle piattaforme sarà davvero abbattuto dai nuovi paradigmi.
“Quando coloro che si trovano lontano dalla creazione di ricchezza (studenti, giornalisti, politici) sentono dire che il 5% delle persone possiede metà della ricchezza globale, di solito gridano all’ingiustizia. Un programmatore esperto penserebbe piuttosto: soltanto? Il 5% dei migliori programmatori scrive probabilmente il 99% dei software!” scriveva nel 2004 Paul Graham, il fondatore dell’acceleratore di startup YCombinator, forse uno dei personaggi che meglio incarna l’inquietante mix di anarco-capitalismo e culto della tecnologia, diffuso nella Silicon Valley dei primi anni Duemila.
Il risultato dell’ideologia californiana combinata con gli enormi investimenti e profitti delle piattaforme è sotto i nostri occhi ogni giorno. Non viviamo in un’utopia libertaria, ma in un mondo più vicino a una distopia sulla sorveglianza, dove lo spazio per la creatività, la connessione umana e l’espressione di sé sono limitati dall’alto da algoritmi chiusi e frenati dal processo di accumulazione di dati e profitti. Il Web3, il Metaverso, il trading di NFT sembrano tasselli di un mosaico vecchio, lo stesso immaginato dal tecno-libertarismo che è stato alla base del web 2.0. Un modello che ha trasformato la rete in un’arena neofeudale, dominata da pochi attori, piuttosto che in uno spazio autenticamente libero da interferenze. Le promesse della prossima rivoluzione digitale sono già state fagocitate da chi tiene ben stretti potere e capitale, e non ha certamente intenzione di lasciarli andare sull’onda della prossima parola d’ordine di tendenza.