F ortnite è uno sparatutto multiplayer online, uscito nel 2017, che ha ottenuto un vasto e rapido successo: un quarto di miliardo di giocatori si sono affrontati nel corso dei due anni sui suoi campi di battaglia virtuali. Di recente una serie di articoli e servizi allarmati ha mosso al videogioco accuse pesanti, legate alla sua presunta capacità di indurre dipendenza nei giocatori, specie quelli più giovani, e a episodi di bullismo virtuale tra gli stessi. Se è vero che episodi di questo tipo sono stati oggettivamente riscontrati, l’approccio con cui sono stati affrontati dalla stampa è più vicino al panico morale che al metodo scientifico. I videogiochi infatti sono ancora oggi spesso trattati dall’informazione generalista con una certa inclinazione al sensazionalismo. La relazione tra comportamenti umani e realtà virtuali meriterebbe invece di essere studiata con un altro tipo di sguardo, trattandosi di un tema complesso e che pone una domanda urgente: quanto le esperienze digitali modificano i nostri meccanismi decisionali, e quanto invece li riflettono?
L’industria videoludica globale è ormai una realtà la cui rilevanza non può essere ignorata: il mercato ha raggiunto nel 2018 un valore di 134,8 miliardi di dollari, di cui il 51% generato dal segmento mobile, in crescita esponenziale, e il restante 49% diviso equamente tra pc e console. I giocatori stimati sul globo sono oltre 2,3 miliardi, di cui 211 milioni negli Stati Uniti, pari al 67% della popolazione statunitense totale. Ma c’è un dato demografico che rivela come questo bacino di utenza si allontani molto dallo stereotipo del giovane giocatore maschio: il 43% ha più di trentasei anni; il 45% sono giocatrici. L’immensa mole di utenti e la complessità delle realtà simulate nei prodotti videoludici, sempre in crescita grazie al continuo sviluppo tecnologico e teorico del settore, è alla base del numero crescente di episodi che possono costituire validi casi di studio per alimentare il dibattito e far progredire la ricerca nel campo del comportamento umano.
Lo spiegò già più di un decennio fa in un’intervista Eyjolfur Eyjo Gudmundsson, Chief Economist della casa di produzione di videogiochi islandese CCP, a proposito del prodotto di punta dell’azienda, EVE Online. Si tratta di un gioco di simulazione spaziale in cui gli utenti, a bordo delle proprie astronavi, si affrontano e si alleano per sfruttare le risorse disponibili, costituire società, muovere guerra ai rivali e aumentare il proprio potere. Le peculiarità di EVE Online sono una ripida curva di apprendimento, una comunità di giocatori dedita e fedele nel tempo e le complesse dinamiche economiche del gioco, che costituiscono, ancora oggi, il peculiare campo di studi di Gudmundsson: “Possiamo apprendere dall’osservazione del comportamento del mercato in un mondo chiuso come EVE Online e capire come, per esempio, si formano le bolle speculative e da cosa sono causate […] Possiamo anche osservare le interazioni sociali, come le persone si uniscono in gruppi e cosa le spinge a mettersi insieme…” raccontava in un’intervista a Business Week nel 2008.
L’immensa mole di utenti e la complessità delle realtà simulate generano episodi che possono costituire validi casi di studio per alimentare la ricerca nel campo del comportamento umano.
In almeno un caso gli avvenimenti virtuali di un videogioco sono stati già trattati da accademici su pubblicazioni specialistiche, in occasione del famigerato “incidente del Corrupted Blood”. Quattordici anni fa, all’interno di World Of Warcraft, famosissimo gioco di ruolo online ad ambientazione fantasy, che per anni ha dominato il segmento dei multiplayer online con milioni di iscritti, un errore di programmazione determinò l’espandersi incontrollato di un effetto simile a una virulenta pestilenza, causando un’epidemia che imperversò nel mondo virtuale per alcuni giorni, prima di essere risolta dalla riprogrammazione.
Gli epidemiologi Ran Balicer, Eric Lofgren e Nina Fefferman hanno studiato il comportamento tenuto dai giocatori nel corso dell’evento in relazione con quello tenuto da popolazioni colpite da pandemie nel mondo reale, riscontrando similitudini evidenti. I giocatori ad esempio abbandonarono le città per sfuggire al contagio, rifugiandosi in luoghi impervi e isolati così come avvenne durante la Peste Nera del quattordicesimo secolo. Balicer notò che gli sforzi di quarantena messi in atto dalla comunità dei giocatori contro il Corrupted Blood fallirono per gli stessi motivi per i quali era fallito il contenimento della pandemia di influenza aviaria nel mondo reale l’anno prima, tra cui l’incapacità di controllare i sistemi di trasporto e il rifiuto di molte persone di attenersi alle disposizioni delle autorità.
Fefferman e Lofgren invece misero in evidenza la variabile dell’irrazionalità: molti giocatori si recavano in posti affollati anche se contaminati pur di svolgere transazioni commerciali o commissioni, come chi nella realtà si reca al lavoro malato per necessità di soldi, o si contagiavano recandosi nei luoghi più infettivi, spinti dalla curiosità. Altri ancora si divertirono a interpretare il ruolo di untori, diffondendo volontariamente il contagio il più possibile, come potrebbero fare dei terroristi in caso di attacco batteriologico.
Anche videogiochi single-player, dove l’uomo compete contro l’intelligenza artificiale, offrono interessanti spunti di paragone sul comportamento umano, a partire da quelli di tipologia gestionale. Una serie di titoli storica e di grande successo in questa categoria è SimCity, dove il giocatore gestisce, su una mappa delimitata, lo sviluppo di una città, gestendone ogni aspetto dall’erogazione dei servizi pubblici alla gestione dei fondi all’assegnazione dell’utilizzo dei terreni. Nel 2010 un giocatore di nome Vincent Ocasla rivendicò di aver “battuto” SimCity3000 raggiungendo con la sua città di Magnasanti la massima popolazione teoricamente possibile (sei milioni di abitanti) mantenendola stabile.
In un momento storico in cui le società avanzate sono immerse in dimensioni ibride parallele tra i piani reale e digitale, i videogiochi possono dare un punto di vista sul dilemma tra efficienza e empatia.
L’impresa di Ocasa fu frutto di un’accurata preparazione a base di calcoli matematici e progettazione planimetrica, che tuttavia trascendeva deliberatamente l’empatia umana che ci si auspica in chi detiene il potere nel mondo reale: “Ci sono molti problemi nascosti in città sotto l’illusione dell’ordine e della magnificenza – inquinamento soffocante dell’aria, alto tasso di disoccupazione, nessuna scuola, ospedale o caserma dei pompieri, stile di vita irreggimentato. Questo è il prezzo che gli abitanti pagano per vivere nella città con la massima popolazione possibile. È un obiettivo malato e perverso da raggiungere”, spiegò Ocasa alla rivista Vice. “La cosa ironica è che gli abitanti di Magnasanti lo tollerano. Non si ribellano, né promuovono rivoluzioni o disordine sociale. Nessuno immagina di sfidare il sistema fisicamente dato che uno stato di polizia super-efficiente li tiene in riga. Sono stati instupiditi con successo, debilitati per la mancanza di cure, schiavizzati e controllati mentalmente in modo da mantenere il sistema funzionante per migliaia di anni. 50.000 per l’esattezza. Sono imprigionati nello spazio e nel tempo”.
Lo stesso dilemma tra efficienza ed empatia, ugualmente risolto a favore della prima, si ripresenta in un altro caso che fece notizia: la “guerra eterna” di Civilization II, secondo capitolo di una popolare serie in cui il giocatore deve guidare una civiltà dalla preistoria fino ai giorni nostri, contendendosi la supremazia della mappa del mondo con altre civiltà guidate dal computer. Un utente, dal nickname Lycerius, aveva continuato a giocare la propria partita ben oltre l’ultimo anno utile in gioco per conseguire la vittoria, il 2020, arrivando fino al 3991. In quella data, il mondo virtuale di Lycerius era un incubo apocalittico, ricco di inquietanti parallelismi con l’ambientazione del classico della distopia orwelliano 1984: allagato dallo scioglimento dei poli e contaminato dalle guerre nucleari, era abitato da tre sole nazioni rimanenti, bloccate in un conflitto perpetuo e millenario.
Dalla descrizione emergevano, inaspettate, anche due interessanti considerazioni morali: “Le città sono costantemente attaccate da spie che piazzano bombe nucleari fatte poi detonare (…). Lo svantaggio di solito è che tutte le nazioni ti dichiarano guerra. Ma essendo questo già il caso non è più un deterrente per nessuno. Nemmeno per me.” E ancora: “Mi sono dovuto sbarazzare della democrazia circa un millennio fa, perché metteva a repentaglio il mio impero. Ma naturalmente la popolazione ora mi odia e da allora ogni pochi anni ci sono massicce insurrezioni di ribelli nel cuore del mio impero con cui devo fare i conti, sottraendo risorse allo sforzo bellico”.
In un momento storico in cui le società avanzate sono sempre più immerse in dimensioni ibride parallele tra i piani reale e digitale, a cominciare dai social network – su cui è ormai presente quasi metà della popolazione mondiale – il dibattito già in corso sull’interazione tra i comportamenti umani e le realtà virtuali deve proseguire e poggiare sempre di più sulla ricerca scientifica. I videogiochi possono e potranno fornire un valido contributo, continuando a fornire casi di studio rivelatori.