I n tibetano la parola usata per identificare “l’essere umano” è a-Go ba, espressione che può essere tradotta come “viandante”, colui che migra. Noi animali umani ci siamo sempre spostati, e questa è una caratteristica che ci accomuna con gli animali migratori. A pensarci bene, possiamo definirci dichiaratamente così: animali migratori. Attraverso il viaggio – fisico e oggi anche virtuale – le culture umane si incontrano, si conoscono e si giudicano nella loro incredibile varietà. Come ci ricorda lo scrittore e antropologo Giulio Angioni, questo mescolamento e questo sincretismo per contatto, così strettamente legati alla mobilità e alla migrazione, sono forse la sola “regola” di sterminati millenni di modi umani di vita, dai grandi imperi del passato al colonialismo moderno, fino all’attuale globalizzazione.
Perché partire
Il viaggio, parte fondante del processo di ominazione, cioè il farsi uomini nel tempo e nello spazio, attraverso una mutazione per contatto, è anche l’esperienza fondamentale sulla quale si costruisce il sapere antropologico. In questi anni di ricerca etnografica, ho capito che c’è un importante aspetto che distingue l’intervista dalla conversazione, e che l’interazione tra intervistato e intervistatore presenta una struttura asimmetrica, nel senso che i ruoli dei due interlocutori sono predefiniti in modo più o meno rigido e senza possibilità che diventino intercambiabili. Io alla fine dell’intervista torno nella mia casa, vado al parco con il mio cane o a cena con gli amici, l’intervistato rimane nel suo contesto sociale e di classe completamente diverso dal mio, quindi sarebbe ingenuo posizionarsi nello stesso habitus dell’intervistato. Il mio ruolo all’interno dell’interazione spesso differisce da quello del mio interlocutore, sono io quello che la maggior parte delle volte fa le domande, lui ha il ruolo di fornire delle risposte.
Tuttavia, analizzate le ovvie contraddizioni della ricerca, il metodo qualitativo attribuisce all’intervistatore un ruolo più partecipativo che nella ricerca quantitativa, un ruolo percettivo ed ermeneutico-interpretativo. Sul campo con le donne e gli uomini migranti che vivono in Italia la prima cosa che ho cercato di fare è stato di creare un clima di fiducia e di ascolto attivo. Ho chiarito gli intenti della ricerca con i miei interlocutori, non mi sono finto per quello che non sono. Durante questi incontri con molte donne e uomini che sono arrivati in Europa in cerca di possibilità di emancipazione sono molti i racconti e le storie di vita che ho raccolto sulle motivazioni che spingono ad allontanarsi dalla propria casa. Una sera di qualche anno fa Nma mi disse:
Siamo arrivati in Italia nel 2009, ma siamo partiti per arrivarci nel 2005. Siamo tre fratelli la nostra famiglia è molto numerosa: in totale siamo otto, quattro uomini e due donne più nostra madre e nostro padre. Dopo lunghe discussioni in famiglia si era scelto che eravamo noi a dover partire perché avevamo l’eta di mezzo, né troppo giovani né troppo vecchi. Io ho 29 anni, mio fratello Iyabo ne ha 31 e Jimmy ne ha 26, è il più giovane e quando siamo partiti aveva solo 18 anni – devo dire che è stato il più forte che nei momenti più duri di disperazione riusciva sempre a tirarci su di morale. Il nostro viaggio è iniziato vendendo tutto quello che avevamo per poterci pagare tutto quello che ci serviva. Per la nostra famiglia mandare tre figli in Italia era una specie di investimento sul futuro, la possibilità di migliorare la nostra famiglia, aiutare le nostre sorelle e nostro fratello, farli studiare e non costringerli come per noi a dover scappare dal nostro paese. Durante il viaggio ci è successo di tutto, abbiamo subito i peggiori soprusi e scoperto cose che non avremmo mai immaginato, forse a saperle non saremmo partiti. Ma una volta in viaggio è impossibile tornare indietro, sia perché non hai soldi e mezzi per farlo sia perché ti vergogni con la tua famiglia, ti senti uno sconfitto. (Nma-Nigeria)
Questo è solo un esempio, perché i motivi che spingono i migranti ad allontanarsi dal proprio paese sono tanti e diversi tra loro, ma credo fermamente che sia scorretta la separazione netta che solitamente viene operata fra migranti economici e rifugiati politici in cerca di protezione internazionale. Dobbiamo considerare che non sono solo le guerre a costringere gli esseri umani alla fuga, ma anche i cambiamenti climatici e la siccità, oppure lo sfruttamento del territorio da parte di multinazionali, che rende impossibile la vita nel proprio paese di origine dove cibo e acqua, beni indispensabili alla sopravvivenza umana, diventano difficilmente reperibili. Persiste ancora oggi un colonialismo economico occidentale (ora anche cinese) che non cessa di agire, e chi si sposta per fuggire da situazioni di crisi economica, povertà e guerre vede spesso impoverite le sue libertà e capacità di azione.
Io arrivo dall’Armenia da Armavir, a casa mia non è possibile trovare lavoro per questo sono partito. Il mio viaggio è stato duro, mi sono nascosto in un camion per passare la frontiera in Grecia, mi hanno legato sotto il cassone: ho avuto paura. Ma ora sono qui, voglio lavorare e cambiare la mia vita. (Arek-Armenia)
Se è vero che l’uomo si è sempre spostato da una parte all’altra del globo, è ugualmente innegabile che negli ultimi vent’anni questo processo si sia amplificato notevolmente. Il fattore che accomuna tutti i migranti è la ricerca di migliori condizioni di vita. Fortunatamente, non tutti hanno storie tragiche che li spingono a lasciare la propria casa e c’è anche chi migra per motivi affettivi, per esempio per riunirsi alla sua famiglia che vive in un altro paese diverso da quello natio. Disgraziatamente però sono troppe le ragioni perverse relazionate con gli investimenti delle multinazionali nei paesi del secondo e terzo mondo che spingono migliaia di persone a lasciare la propria casa.
“Invasioni”
Secondo quello che ci raccontano i mass-media, sembrerebbe che la meta dei migranti del nuovo millennio (rifugiati politici in primis) sia esclusivamente l’Europa, ma questa è una grande falsità. Vale la pena di ricordare che accanto ai viaggi che portano molti uomini e donne in Europa, la maggioranza delle migrazioni contemporanee si svolge all’interno dei singoli continenti. La maggior parte dei flussi migratori umani riguarda piuttosto lo spopolamento delle zone rurali e la sovrappopolazione delle aree urbane.
È vero che in questo momento storico viviamo un’evidente accelerazione degli spostamenti umani, ma troppo spesso questi flussi migratori sono analizzati sulla base di dati falsi, parziali o non aggiornati. Difficilmente sentiamo i media parlare del fenomeno migratorio con un approccio globale e documentato. Quando si tratta questo argomento, l’atteggiamento è semmai allarmista e riguarda solamente i numeri dei migranti in arrivo in Europa, qualificando il fenomeno come una “invasione” del continente europeo da parte dell’esterno e invitando alla difesa delle “nostre” frontiere.
Con uno sguardo più approfondito, possiamo invece notare che le migrazioni contemporanee chiamano in causa molti temi classici dell’antropologia: identità etniche e di genere, legami di parentela, economie locali, relazioni di potere e di scambio, costruzione di reti formali e informali, ruolo delle istituzioni nella società, rapporti fra il locale e il globale, legami di mutuo appoggio e gerarchie. L’elenco delle tematiche smosse dalle migrazioni umane potrebbe continuare quasi all’infinito. Non è possibile ridurre il fenomeno soltanto a una questione di numeri di persone in ingresso in Europa: per essere correttamente analizzate e comprese, le migrazioni devono essere immerse in un’analisi di respiro globale.
Mete molto battute dalle migrazioni interne nel continente africano sono il Sudafrica e i Paesi del Maghreb, in particolare la Libia, che conta da sola circa due milioni di migranti. Non dobbiamo trascurare anche l’elevato numero di rifugiati e sfollati interni, oltre due milioni, secondo i dati Onu, due milioni di esseri umani ai quali nella maggior parte dei casi vengono negati tutti i diritti di cui un rifugiato dovrebbe godere. La maggior parte dei rifugiati sono i profughi della regione dei grandi laghi e del corno d’Africa. Vivono nei campi profughi in Congo, Sudan, Uganda, Somalia, e in Costa d’Avorio, Ciad, Kenya, Etiopia e Sudafrica. Solo una piccola parte degli emigranti economici e dei richiedenti asilo politico africani ha come meta l’Europa.
Sono partito da casa mia in Liberia per andare a lavorare a Tripoli, i miei amici mi avevano detto che lì il lavoro era tanto, soprattutto nei cantieri. Ho resistito un anno ma poi ero stufo di essere trattato come uno schiavo, poi in Libia odiano i neri. (Chege-Liberia)
Sono nato vicino al mare in Sierra Leone, non c’era più nulla da fare per me lì, il campo non si riusciva più a coltivare e anche pescare era sempre più difficile, riuscivo a mangiare ma io volevo il bene dei miei figli per questo mi sono trasferito a Tanger. Il tramite è stato un mio cugino, lì ho trovato lavoro al porto e ci sono rimasto due anni, poi me ne sono andato. (Nangila-Sierra Leone)
Con un semplice dato comparativo vorrei mostrare quanto sarebbe sensato abbandonare la falsa certezza delle “invasioni barbariche”. Secondo l’unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati), dal 2008 al 2016 sono arrivati in Europa via mare più di 1,8 milioni di migranti. Da sola la cifra sembra rilevante, eppure soltanto in Libano, uno Stato molto piccolo rispetto all’unione delle nazioni europee, ad oggi vengono accolti 1,1 milioni di rifugiati. Questo dato comparativo ci pone di fronte a una grande verità: anche ammesso che le persone arrivate in Europa negli ultimi 8 anni fossero ancora tutte qui, esse rappresenterebbero solamente lo 0,36% della popolazione europea. Se poi, per assurdo, tutti gli abitanti della Siria e dell’Eritrea si trasferissero in blocco in Europa, ancora sarebbero appena il 5% della popolazione. Tralasciando quindi le speculazioni politiche, mi sembra che l’accoglienza di queste persone sia più che possibile.
C’è poi un altro dato interessante sul quale vorrei richiamare l’attenzione: stilando una lista degli Stati che ospitano più rifugiati nel mondo, nell’elenco non figurano quelli europei. Sempre secondo i dati raccolti dall’UNHCR, tra i primi 8 Paesi con il maggior numero di profughi pro-capite non compare nemmeno uno Stato europeo. Purtroppo pochi cronisti e opinionisti citano questo dato importante, che ci aiuterebbe a considerare più realisticamente la portata delle migrazioni contemporanee. Per giungere quindi al nostro territorio, l’Italia oggi accoglie circa 1 profugo ogni mille persone, collocandosi ben al di sotto della Svezia (14,7 per mille) o della Germania (3,10 per mille). Sull’altra riva del Mediterraneo, in Medio Oriente, abbiamo visto che il Libano accoglie circa 1,1 milioni di profughi, pari a 1/4 della popolazione totale del paese, mentre la Giordania ospita 664.000 profughi, vale a dire 90 persone ogni 1.000 abitanti. Alla luce di questi numeri, non sembra più credibile parlare di rifugiati che “invadono” l’Europa.
Le rotte contemporanee verso l’Europa
Le rotte dei viaggi verso l’Europa, da parte loro, vanno analizzate, perché sono in cambiamento costante. Analizzando i percorsi effettuati fino ad oggi, possiamo affermare che le vie più battute sono tre. La prima traiettoria è quella dell’Africa occidentale e viene percorsa soprattutto da donne e uomini di provenienza sub-sahariana. Costretti a un viaggio attraverso il deserto, i migranti passano per il Niger e l’Algeria, quindi raggiungono il Marocco e “concludono” la rotta approdando alle isole Canarie. Un altro percorso possibile di questa prima rotta parte direttamente da Ceuta e Melilla, due città spagnole situate all’interno del Marocco, dove da vent’anni è stata costruita una barriera di metallo per impedire il passaggio ai migranti. È un luogo di scontro perenne, di violenze aperte tra le forze dell’ordine e chi cerca di varcare il confine. I migranti che riescono a passare sfruttando alcuni “buchi nella rete” affrontano un rischioso viaggio in mare per raggiungere le coste spagnole di Malaga o di Almeria. Altra via d’ingresso in Europa dall’Africa occidentale è quella che da Tangeri e Tetouan, in Marocco, porta direttamente i pellegrini sulle coste dell’Andalusia.
La seconda rotta percorsa negli ultimi anni è quella dell’Africa settentrionale ed orientale. Questo viaggio passa attraverso la Libia, Paese che vive una guerra civile efferatissima. Le città di Shebha (nel Fezzan) e di el-Giof (in Cirenaica) sono i punti di ingresso in Libia; solitamente sono i migranti sub-sahariani ad affrontare questa tratta, insieme a quelli provenienti dal Corno d’Africa. Le città libiche di Zuwarah, Tripoli e Zilten divengono i luoghi di partenza di chi si può permettere il viaggio verso l’Europa. Gli approdi europei sono rappresentati dall’isola di Malta, da Pantelleria, da Linosa, dalla costa siciliana e da Lampedusa. Negli ultimi anni la militarizzazione massiccia del confine marittimo lungo la rotta spagnola e italiana ha spostato in modo significativo i flussi dell’emigrazione africana sulla via greca, imponendo ai migranti costi maggiori e sforzi ancora più ingenti.
La terza rotta frequentata è quella del Mediterraneo orientale ed è percorsa sia dai migranti di provenienza asiatica e mediorientale, sia dai viaggiatori del Corno d’Africa, che utilizzano come Paesi di passaggio l’Egitto, la Giordania e il Libano. I principali punti d’ingresso in Europa sono la Grecia, la Turchia e (per la sua posizione strategica nel Mediterraneo) l’isola di Cipro. Altro punto tragicamnete importante è quello di Bihać dove passa una delle due “rotte balcaniche” aperte o, meglio, attualmente percorribili dai migranti: quella che dalla Turchia passa per Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia e, quindi, Croazia (l’altra, più accidentata, attraversa la Bulgaria). E a Bihać sono oggi presenti alcune migliaia di persone (forse 6-7 mila, forse 10 mila) che attendono l’occasione buona per «andare in Europa». E intanto cercano riparo in uno dei campi allestiti intorno alla città. Questa nuova rotta è nata come diretta conseguenza della militarizzazione intensiva dei confini italiani e spagnoli. Geograficamente, la lunghezza delle coste greche e turche rende il mar Egeo più difficile da controllare: ciò che ha reso Istanbul uno dei nodi principali per il traffico criminale dei migranti senza documenti di provenienza mediorientale, asiatica e africana.
Fino a oggi, nel 2019, queste sono state le rotte obbligate che hanno lasciato donne e uomini in balia dello sfruttamento dei gruppi criminali, di chi guadagna denaro sui corpi di persone costrette alla fuga. Le migrazioni appaiono così come trasferimenti non necessariamente definitivi, come progetti di vita parziali che approfittano di aperture improvvise e si scontrano con barriere impreviste, come circolazioni di vite tra regioni e sponde diverse, ritorni sperati e permanenze sofferte, esperienze in cui gli individui portano con sé o ricreano identità complesse e plurali.
Gli affari criminali del viaggio
Ogni anno si mettono in viaggio centinaia di migliaia di persone che non hanno la possibilità di muoversi liberamente per il mondo come noi europei: sono nati “dalla parte sbagliata”. Da questo punto di vista possiamo considerare la migrazione come un atto politico, nel senso che è un tentativo di agire liberamente, un tentativo che richiama direttamente le caratteristiche dell’essere umano indicate da Max Weber e Georg Simmel all’origine dell’irrimediabile conflittualità fra a-razionale e razionale, come scrive Salvatore Palidda in Mobilità umane.
Accanto alle situazioni di guerra aperta (come quella che sta insanguinando da anni la Siria), esistono molte zone del mondo in cui il territorio è controllato da milizie locali e organizzazioni terroristiche ai danni della popolazione civile. Sappiamo che Boko Haram e Al-Shabaab sono due organizzazioni particolarmente preoccupanti e violente localizzate nel continente africano, ma esiste una galassia di altri gruppi terroristici difficilmente mappabile, che occupa ormai uno spazio che va dal Maghreb al Corno d’Africa fino alle regioni occidentali del continente, e che negli ultimi anni sta tentando infiltrazioni persino nel Congo, il quale si trova costantemente minacciato dalla guerra civile.
Secondo molte testimonianze, nelle zone controllate da queste organizzazioni terroristiche gli abusi fisici e psicologici ai danni della popolazione sono la norma. Imperversano violenze quotidiane e diffuse, ci sono uomini torturati e donne malmenate e violentate ogni giorno, bambini affamati, se non addirittura venduti come merce al prezzo di circa 300 dollari l’uno. Chiaramente, anche quando riescono a sopravvivere alle torture che vengono loro inflitte, queste persone vanno incontro a traumi permanenti. Non c’è distinzione di genere o di età: ognuno viene sfruttato per ciò che è più conveniente secondo chi li considera una sua proprietà. Ed è qui che il viaggio assume forme orribili, spaventose e difficilmente narrabili.
Quando parliamo dei numeri e dei viaggi dei migranti dobbiamo tenere presente anche gli interessi economici suscitati dall’immigrazione clandestina. Esiste un vero e proprio business criminale che gestisce la tratta, offrendo un viaggio verso l’Europa che mediamente costa al migrante sui 4.000 euro. I transiti migratori nel Mediterraneo sostengono un giro d’affari che sposta enormi quantità di denaro, centinaia di milioni di dollari ogni anno. Il prezzo dei viaggi varia da frontiera a frontiera, il pagamento viene effettuato in dollari o in euro. Il denaro non è rimborsabile nel caso in cui la traversata non si compia. Il prezzo inoltre muta da tratta a tratta e la variabile che eleva il costo corrisponde alla quantità di frontiere da eludere: maggiori sono i confini da oltrepassare, più alto il costo del viaggio. Il business unisce le organizzazioni criminali africane e quelle europee intrecciando rapporti con la malavita turca: un’economia “sommersa” che porta nelle tasche dei trafficanti circa 35 miliardi di euro all’anno. Il giro d’affari per la criminalità organizzata è inferiore solo a quello delle droghe e delle armi. La maggioranza dei guadagni è realizzata lungo l’Africa, dai Paesi della costa occidentale al Corno d’Africa passando per la Nigeria. Qui le speranze di ottenere condizioni di vita migliori di centinaia di migliaia di persone vengono raccolte da trafficanti che sempre più spesso operano in accordo con i governi locali e le mafie internazionali.
C’è anche di più: prima della partenza non sempre i migranti hanno a disposizione il denaro necessario per intraprendere la traversata. Si realizza così un vero e proprio finanziamento familiare, con molti parenti che investono economicamente sul futuro di chi ha il coraggio di migrare. Il pioniere, una volta arrivato nel mondo di “serie a”, cercherà quindi di mantenere tutta la famiglia rimasta in patria. Chiaramente, l’investimento non ha sempre esiti positivi e la famiglia può spendere il denaro senza frutto, ma questa è ancora la migliore delle ipotesi. Altre volte infatti il migrante si indebita con strozzini criminali che ricattano la sua famiglia, o si ritrova a lavorare in condizioni di neoschiavismo nelle grandi città di passaggio che incontra durante il percorso migratorio, oppure lavora in cambio di un compenso esiguo per finanziare la restante parte di viaggio. In casi come questi, un migrante può impiegare anni per completare il suo percorso.
Sono partito dalla Nigeria quattro anni fa. Non è stato semplice raggiungere l’Italia, i soldi per il viaggio non bastavano mai e le condizioni di lavoro erano disumane, ma non avevo altra scelta: non potevo tornare indietro. (Yewande-Nigeria)
Sappiamo già con certezza, ma è bene continuare a ricordarlo, che da anni le politiche europee oltre a finanziare personaggi come Erdogan o Leader della guerra Libici per internare, incarcerare, bloccare migliaia di migranti illegalmente, stanno di fatto condannando una moltitudine di persone alla miseria e alla clandestinità e che tanti, troppi sono i morti sul fondo del mare e sotto la sabbia dei deserti. Troppe le vittime di un viaggio che assume forme sempre più assurde e che costringe migliaia di donne e uomini a rischiare la propria vita. Chi riesce a trovare una via di fuga da tutto ciò che è costretto a sopportare nel Paese di origine, decide di intraprendere una traversata sperando di non dover più subire abusi e torture. Ma durante questi costosissimi viaggi non c’è alcuna certezza di giungere a destinazione.
Molto spesso i vecchi pescherecci o i gommoni esausti utilizzati per queste rotte clandestine cominciano a danneggiarsi strutturalmente dopo poche miglia dalla partenza, imbarcano acqua a causa del sovraccarico di persone, viaggiando in condizioni che rendono estremamente incerta e pericolosa la traversata. Alcuni migranti vengono buttati in mare, altri muoiono per ipotermia o di fame, altri ancora si spengono soffocati per la continua inalazione degli scarichi del motore, vecchio e mal funzionante. Potremmo arrivare a dire che questi sono ancora i fortunati, perché altri non riescono nemmeno a imbarcarsi e muoiono nel deserto; e per queste vittime non esistono cifre, sono le morti invisibili della nostra contemporaneità. Soltanto nel 2015, secondo i dati dell’UNHCR, abbiamo avuto 3.763 decessi in mare, più di 5.000 nel 2016, e 15.000 in totale nei tre anni precedenti.
Il viaggio di ogni migrante, oltre a implicare un rischio vitale e un costo enorme in termini economici, comporta ingenti investimenti emozionali: non si tratta di un’avventura turistica, ma di una sfida, di una fatica. Ogni migrante è spinto dalla speranza di vedere realizzati un sogno, un progetto di vita, uno sforzo e un vero e proprio sacrificio.
Sono partito dalla Siria perché nel mio Paese non si può più vivere, è impossibile studiare, lavorare o anche solo fare una passeggiata insieme alla propria famiglia. La decisione di partire è stata dura, ma la vera tragedia è iniziata quando mi sono messo nelle mani di chi mi doveva far arrivare in Europa. Ho visto cose difficili da raccontare e non riesco a capirne il perché. Perché devo soffrire tutto questo? Sono un umano come voi, non meritavo di vedere uomini e donne morire, essere maltrattati, subire le peggiori offese e umiliazioni. Sarà difficile riprendersi da tutto questo. (Golan- Siria)
Le interviste sono realizzate dall’autore dell’articolo durante una ricerca etnografica condotta tra il 2014 e 2019, per rispettare la privacy degli intervistati non tutti i nomi sono reali.
Foto di copertina (da destra a sinistra): 1) Golsum Ahmady (21 anni) con il figlio Zahra (11 mesi). Afganistan. | Campo di transito di Gevgelija, Macedonia. 2) Fatma, 30 anni. Quattro figli: Mohammed (9 anni), Batula (6), Rua (5), Halil (2). Siria. One Stop Centre Presevo, Serbia. 3) Giovani. Afganistan. One Stop Centre Presevo, Serbia. Tutte le foto sono state scattate fra Macedonia e Serbia nel febbraio del 2016 e fanno parte della mostra itinerante “Exodos”, dal 2017 in varie città italiane.