H o due figli, entrambi ingegneri: uno lavora come informatico a Helsinki, l’altro a Tallinn. Siamo rimasti noi a coltivare le cipolle e a vendere il pesce”. Seduta di fronte al suo garage, l’anziana signora intreccia una lunga fila di cipolle godendosi il sole estivo. Dalla sua posizione domina con lo sguardo la strada principale di Kolkja, un piccolo paese dell’Estonia orientale, cercando di attrarre le auto dei turisti. Di fronte, dall’altro lato della strada, lo sterminato Lago Peipus, il terzo per estensione dell’Unione Europea (circa 3500 chilometri quadrati), sovranità condivisa tra Estonia e Federazione Russa. Una linea dritta, invisibile sul pelo dell’acqua, segna il confine quasi a metà del bacino, impedendo ai pescatori di spingersi a più di 12 chilometri dalla riva per la loro attività quotidiana. In mezzo a quello specchio d’acqua termina l’Unione Europea.
Sulle sponde meridionali del lago sono disposti uno dopo l’altro diversi paesini, ordinati lungo la cosiddetta Via della Cipolla (in estone sibulatee) che si estende da Varnja a Kallaste, nel distretto amministrativo di Tartu, la seconda città dell’Estonia. Kolkja ne è il centro: qui si trovano ristoranti, negozi, un museo e un centro-visite, tutto in dimensione ridotta, come il paese stesso, che conta appena qualche centinaio di residenti.
Da una decina di anni l’area è interessata da un fenomeno turistico-commerciale inaspettato che ruota tutto attorno alla cipolla. Bancarelle disseminate alla buona presso gli usci di casa decorano il paesaggio, invogliando il visitatore all’acquisto di trecce di cipolle, di pesci freschi o affumicati. Il business di questo particolare bulbo ha per questa popolazione una storia piuttosto recente: risale infatti all’epoca sovietica, quando i campi sulle sponde del lago divennero i principali fornitori di cipolla di tutta Leningrado.
Con la caduta dell’URSS nel 1991 emerse un nuovo confine rigido, oltrepassabile solo con estrema difficoltà dagli agricoltori estoni, che furono allora costretti a rivolgersi solo al mercato interno e ai nuovi, timidi, turisti, sprofondando in una spirale di crisi. Solo a metà settembre di ogni anno questi villaggi isolati si rianimano, in occasione della sagra della cipolla, quando finalmente si riesce a piazzare il raccolto dell’estate. Ma a rendere speciale questa fetta d’Europa dimenticata non sono solo le cipolle.
Guardandosi attorno a Mustvee o Kolkja, è impossibile non notare un sentimento di manifesta devozione. Il numero di chiese medio-piccole presenti in questo luogo è strabiliante. Donne con il capo coperto da scialli scuri attraversano la via in sella a biciclette d’epoca, è domenica e sono appena uscite dalla messa principale. Sul lago Peipus la religione non è un fattore banale: gli abitanti di questi paesi sono per lo più “vecchi credenti”, fedeli di una chiesa ortodossa dalla storia tanto tormentata quanto poco nota.
I vecchi credenti sono una comunità religiosa scismatica della chiesa ortodossa russa. La loro comparsa è legata alle riforme del patriarca Nikon a metà Seicento. Il patriarca, sostenuto dallo zar dell’epoca, apportò una serie di modifiche ai riti ortodossi e, in particolare, si adoperò per rinnovare le traduzioni delle Sacre Scritture, ritenute ricche di errori e deformazioni rispetto dall’originale. Tra le modifiche traduttive tuttora in auge, vi è, ad esempio, il noto versetto che riporta “generato, non creato”: nella versione pre-riforma si legge “generato, MA non creato” (“roždenna, a ne sotvorenna”). O ancora il nome stesso di Gesù, che sotto Nikon passò da Isus a Iisus, con aggiunta di una “i”. Tra le modifiche liturgiche, invece, vi fu il segno della croce, da eseguire con tre dita al posto delle tradizionali due – come nel noto quadro dedicato alla Bojarynja Morozova di Vasilij Surikov del 1887, dove la donna trascinata via manifesta l’attaccamento alla fede alzando le due dita. O ancora, il rituale di genuflessioni e piccoli inchini, ridotti di molto, e l’orientamento delle processioni, da fare obbligatoriamente in senso antiorario, rientrano nel novero delle modifiche.
La nominazione aveva piena centralità nell’esperienza epistemologica: modificare il nome di Gesù voleva dire privare la natura stessa del Cristo della sua consistenza sacra.
I vecchi credenti interpretarono l’opera di Nikon come frutto dell’azione dell’Anticristo sceso sulla terra e da allora si impegnarono per mantenere il rito ortodosso il più puro e antico possibile, continuando ad esempio a utilizzare solo la croce a otto punte (con due barre orizzontali e una terza in basso obliqua) e vietando i canti liturgici che non fossero a una sola voce (monofoniche). Per quanto oggi, ad un orecchio profano, le modifiche e riforme nikoniane possano apparire come marginali, all’epoca vennero percepite come una reale corruzione del dogma ortodosso. Secondo il pensiero “mitologico” di allora, vi era isomorfismo tra il nome, l’immagine e l’oggetto rappresentato. La nominazione aveva piena centralità nell’esperienza epistemologica: modificare il nome di Gesù, in questo senso, voleva dire privare la natura stessa del Cristo della sua consistenza sacra.
Dalla fine del Seicento, gli scismatici, pur perseguitati, hanno continuato a rappresentare una realtà religiosa anomala, ribelle sia contro le autorità spirituali che contro quelle temporali. Nella storia della letteratura russa lo scisma ebbe un impatto particolarmente decisivo. Fu proprio Vita dell’arciprete Avvakum, il sermone-testimonianza del protopope Avvakum, oppositore di Nikon e glorioso martire degli scismatici, a rappresentare il primo grande capolavoro letterario russo.
Soltanto nel 1905 lo zar garantì ai vecchi credenti libertà di culto e solo nel 1971 la chiesa ortodossa ufficiale annullò l’anatema comminato alla chiesa scismatica più di tre secoli prima. Questi segnali distensivi non significarono un reale avvicinamento tra le due chiese, anzi: i vecchi credenti tutt’oggi considerano i “nuovi credenti” come dei veri e propri eretici dell’ortodossia.
In Estonia, sulle sponde del lago Peipus, i vecchi credenti si rifugiarono già alla fine del diciassettesimo secolo, per sfuggire alle prime persecuzioni perpetrate dalla chiesa ufficiale ortodossa russa, coadiuvata dall’impero zarista. Qui i seguaci dei vecchi mores ortodossi ricevettero piena libertà e riconoscimento principalmente con la formazione della prima repubblica indipendente estone, dopo la prima guerra mondiale. Il presidente dell’Unione dei vecchi credenti estoni Pavel Varunin afferma infatti che “il periodo di indipendenza estone tra il 1917 e il 1940 fu particolarmente significativo: permise infatti ai vecchi credenti estoni di conservare riti e tradizioni antichi che quelli russi già dalla Rivoluzione d’Ottobre furono costretti a dimenticare per volere del potere centrale bolscevico”. Ad esempio, “anche la cultura culinaria ha conservato tra i vecchi credenti estoni alcuni piatti tradizionali che invece in Russia sono stati dimenticati”, spiega invece Marina Kuvaitseva, studiosa di folcloristica presso il museo di Narva nonché leader dell’ensemble Suprjadki.
Marina si è occupata proprio di raccogliere e conservare la tradizione canora liturgica e laica dei vecchi credenti estoni: “Quando mi recai in spedizione lungo il lago Peipus mi stupì la ricchezza musicale di questa comunità. Sentii la necessità di raccoglierla, perché non andasse persa”, racconta. Molte melodie giungono direttamente dal dodicesimo secolo, dirette discendenti dei versi spirituali dei monaci; spesso raccontano in forma semplificata episodi biblici. “In esse si è conservato molto della cultura bizantina e del canto slavo ecclesiastico antico, tutto rigorosamente a una sola voce; la polifonia giunse solo più tardi nella tradizione ortodossa”, continua la folclorista. Marina ha recuperato anche gli spartiti relativi alle varie melodie: “in passato studiosi dell’università di Tartu avevano raccolto alcuni testi, ma da essi non era possibile risalire alla melodia”. Molte opere raccolte dalla studiosa estone sono ballate e canti contadini legati agli antichi riti delle comunità rurale, e grazie a loro si può pertanto ricostruire qualcosa della vita quotidiana dei vecchi credenti di molti secoli fa.
L’epoca d’oro della comunità scismatica in Estonia cessò drasticamente con l’invasione nazista, la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione da parte dell’Urss. Durante la dominazione sovietica, la zona del lago Peipus perse gran parte dei suoi abitanti: molti giovani vennero attirati nelle città e la fede venne ostacolata dalla propaganda anti-religiosa; i vecchi credenti venivano spesso dipinti come individui bigotti e retrogradi. Solo la coltivazione della cipolla e la vendita del pesce sui mercati di Leningrado riuscirono a tenere in piedi questi villaggi.
La rinascita del rito dei vecchi credenti fu possibile con la rinnovata indipendenza dell’Estonia alla fine dell’epoca sovietica. Nel 1995 venne riconosciuta l’Unione delle parrocchie dei vecchi credenti d’Estonia; vennero restaurate molte chiese e alcuni testi antichi di grande valore. Vennero anche aperti dei musei e nelle scuole si garantì sia l’insegnamento della lingua slavo-ecclesiastica antica che della religione. Nel 1991 il regista Peeter Simm realizzò anche un film dedicato ai vecchi credenti, Meie venelased (I nostri russi), che circolò in diversi festival.
Nel Ventunesimo secolo la comunità estone si distingue a livello mondiale: “solo qui si possono contare ben nove parrocchie di rito antico tuttora in funzione in un’area tanto ristretta”, afferma Marina Kuvaitseva. In totale, in Estonia queste parrocchie sono undici, ma sebbene le stime parlino di 15000 fedeli, secondo Pavel i fedeli praticanti si aggirano attorno ai 2500. Se è la Federazione Russa ad ospitare il numero maggiore al mondo di vecchi credenti (si parla di 2 milioni di fedeli), altre comunità sono presenti negli Stati Uniti, in Romania, Germania, Regno Unito e da qualche anno anche in Italia, a Torino, dove hanno fondato una loro associazione culturale.
Tuttavia, nell’Estonia votata all’hi-tech il mondo dei vecchi credenti pare destinato a sparire. “Oggi il problema è prettamente demografico”, spiega Pavel, “fino a vent’anni fa era completamente diverso; ora si chiudono le scuole, si fa difficoltà a insegnare la lingua slavo-ecclesiastica che permette di comprendere i testi sacri. Mancano i giovani, che vanno in Finlandia a lavorare. Inoltre, si è perso il mercato russo. Lo stato ci sostiene anche economicamente, ma non basta per fermare l’emorragia demografica”. Non a caso sul sito ufficiale dei vecchi credenti estoni si legge: “nel settembre 2003 la maggioranza dei residenti dell’area ha votato contro l’entrata dell’Estonia nell’UE”. Qui, nella provincia della provincia europea, l’integrazione ha significato una catastrofe, troncando definitivamente il tormentato rapporto con la Russia, capace di resistere a secoli di scomuniche, massacri e esodi forzati.