E siste solo un posto in cui si incrociano le tre grandi famiglie linguistiche europee (romanza, germanica e slava): la Val Canale (Kanaltal in tedesco, Kanalska dolina in sloveno e Val Cjanâl in friulano), vallata delle Alpi orientali passata di mano più volte, territorio italiano da poco più di un secolo. Oggi l’apice di questa valle dell’Alto Friuli costituisce, simbolicamente e giuridicamente, il “triplice confine”: il punto di convergenza tra Italia, Austria e Slovenia.
Il capoluogo, Tarvisio, è l’unico comunque ufficialmente quadrilingue d’Italia: a italiano, tedesco e sloveno, si aggiunge il friulano, idioma romanzo riconosciuto lingua nel 1999. L’articolo 6 dello statuto comunale recita: “Il Comune di Tarvisio riconosce la presenza sul proprio territorio di minoranze etniche di lingua tedesca e slovena (..) ne promuove (..) la diffusione l’uso e lo studio, è altresì riconosciuto nell’ambito comunale l’uso della lingua tedesca, slovena e friulana”. Il melting pot unico della “piccola Europa sulle Alpi orientali” è l’esito di processi storici stratificati.
Passeggiando per il suo giardino a Fusine Laghi (500 metri dal confine sloveno e 1 km da quello austriaco, in linea d’aria), Igor Jelen, geografo e professore presso l’Università di Trieste, la spiega così: “Qui la storia antica, meno antica e recente, e forse il destino ci hanno accomunati nello stesso luogo, tra le Alpi e l’Adriatico. Una sorta di istmo europeo tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. È il luogo che mette in contatto il sud del Mediterraneo con la Mitteleuropa”.
La caratteristica primaria della Val Canale, intrinseca alla sua collocazione geografica, è infatti quella di esser rimasta quasi sempre un crocevia, una terra di confine. Nel tempo sono cambiati i nomi, le taglie e il prestigio degli Stati che hanno stabilito qui la loro frontiera, ma questa non si è pressoché mai mossa. Quando è successo, l’ha fatto di poco, passando per esempio dalla fine all’imbocco della vallata, un arretramento di circa 25 km.
La “piccola Europa sulle Alpi orientali” è l’esito di processi storici stratificati.
Per sette secoli e mezzo (1066-1759) la valle è appartenuta al Vescovado di Bamberga, che venne poi acquistato da Maria Teresa nel 1759. Della lunga appartenenza a questo principato ecclesiastico parte del Sacro Romano Impero restano solo tracce semi-nascoste, omaggi silenziosi come via Bamberga, la strada che porta verso la stazione di Tarvisio Boscoverde, e l’abitato di Malborghetto, fondato con il nome di “Bamberghetto”. Per tutti quei secoli a sud del confine, del principato prima e dell’impero poi, si estendeva un glorioso Stato scomparso, la Serenissima Repubblica di Venezia. La prosperità della Val Canale derivò proprio dal ritrovarsi passaggio obbligato sulla direttrice commerciale Vienna-Venezia.
Con la caduta della Serenissima per mano napoleonica, sancita dal trattato di Campoformio (1797), l’Impero asburgico ottenne il Veneto, porzioni di quello che oggi è il Friuli Venezia Giulia ed ex possedimenti veneziani in Istria e Dalmazia. La Val Canale si ritrovò così completamente inglobata in territorio asburgico. Situazione immutata fino alla Terza guerra d’indipendenza italiana (1866), quando un confine internazionale ritornò a bisecare la valle, questa volta per dividere l’Impero asburgico e il neonato Regno d’Italia. Contemplando il Pontebbana, un torrente secondario affluente del pur non molto più noto Fella, stranisce pensare che degli Stati imponenti, abitati da milioni di persone, potessero ritrovarsi divisi da un corso d’acqua così modesto. Eppure, a Pontebba, sul ponte che lo attraversa, spiccano ancora i cippi che demarcavano il confine italo-asburgico; una linea su una cartina che sarebbe presto divenuta incandescente.
Arrivò la Prima guerra mondiale. Tre anni di trincea ad alta quota, la coscrizione forzata, la fucilazione dei disertori, le carneficine. Scorrendo i nomi iscritti sulle lapidi commemorative per gli eroi locali della Grande Guerra, appese nel cortile che circonda la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tarvisio, viene spontaneo chiedersi per quale patria siano davvero morti: i cognomi sloveni, tedeschi e italiani si mischiano tra le righe. La presenza di alcuni abbinamenti nome – cognome di due lingue diverse (Regensburger Riccardo, Peternell Urbano, Krčivoj Reinhold) tradisce l’abitudine alla promiscuità inter-comunitaria.
L’epilogo della Grande Guerra, con il collasso dell’Impero asburgico e la corsa ad accaparrarsene le spoglie, è la prima scossa di un terremoto che rimescolerà gli equilibri etnico-linguistici locali. Assegnando all’Italia l’intera valle, il Trattato di Saint-Germain (1919), uno dei trattati di pace della Prima guerra mondiale, fissò il confine in cima alla valle, a Coccau. Confine che però da allora diventò triplice: dalle ceneri dell’impero di Maria Teresa erano sorti l’Austria e il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (“Jugoslavia” dal 1929), cui apparteneva anche il territorio dell’attuale Slovenia, indipendente dal 1991. Con la comparsa di un’entità slavofona, a sud, e la fondazione dell’Austria, riserva della componente germanofona del defunto impero, a nord, per la prima volta nella storia le tre famiglie linguistiche con più parlanti in Europa si ritrovarono incarnate in Stati, o meglio, in maggioranze egemoniche in Stati abitati, alla fine del conflitto, da più minoranze linguistiche. Comunità che in Italia si scoprirono di colpo “allogene”, ovvero “di stirpe e lingua diverse da quelle della maggioranza”. Se infatti un secolo dopo, il confine si trova ancora nello stesso luogo, due decenni di fascismo e cinque anni di guerra mondiale hanno deviato drammaticamente la parabola storica di questa periferia, condannata suo malgrado a trovarsi sempre “in mezzo”.
Scorrendo i nomi bilingue sulle lapidi per gli eroi della Grande Guerra viene spontaneo chiedersi per quale patria siano davvero morti.
Tuttavia, girando per Tarvisio e dintorni, si ha l’impressione che questo angolo di Friuli sia uscito meno martoriato dagli sconvolgimenti violenti del Ventennio e della Seconda guerra mondiale rispetto alle regioni (ed ex regioni) di confine italiane a nazionalità mista: Trentino e Alto Adige/Südtirol; Venezia-Giulia e Istria. Il secolo breve ha certamente lasciato le sue cicatrici anche qui; deportazioni, pulizie etniche, campagne di italianizzazione e repressione delle minoranze hanno ridisegnato demografie, biografie, relazioni. Eppure, forse anche per i numeri più bassi (l’intera Val Canale non arriva ai 10 mila abitanti), confrontando Tarvisio con Bolzano o Trieste, i lasciti di quella stagione di opposti nazionalismi sembrano essere meno ingombranti, più discreti. L’assenza, nel secondo dopoguerra, di comunità minoritarie folte ed organizzate si è tradotta nell’assenza di rivendicazioni collettive. Così, la Val Canale non pare oggi scossa dai virulenti conflitti di memoria intrecciati alla “questione orientale” e alle vicende della Seconda guerra mondiale che invece ancora vibrano per Trieste e provincia, a partire dalla rediviva tematica delle foibe. Se la memoria collettiva di alcuni eventi, come l’eccidio di Malga Bala del marzo del 1944, azione di rappresaglia dei partigiani jugoslavi condotta dopo l’eccidio di Strmec/Bretto, rimane controversa, questa divisione non pare però una ferita ancora capace di avvelenare le relazioni tra le diverse comunità.
Per esempio, un capitolo doloroso come quelle delle “Opzioni” del ‘39, l’accordo tra Mussolini e Hitler che garantiva alle popolazioni germanofone residenti in Italia la cittadinanza tedesca e la possibilità di trasferirsi nel Reich, per esempio, fu vissuto dalla popolazione locale in modo meno traumatico rispetto a quello che accadde in Alto Adige. Mentre i sudtirolesi finirono sovente in angoli della Germania molto diversi dal contesto di provenienza, i tedeschi della Val Canale – compresi numerosi individui bilingui, parlanti sia sloveno che tedesco – che decisero di espatriare approdarono pochi km più in là, nella Carinzia austriaca, in un ambiente geografico e socio-economico familiare, in mezzo a persone che si esprimevano nella loro stessa parlata regionale. Così molte persone, soprattutto tra coloro che non avevano nulla di concreto da lasciarsi alle spalle (un appezzamento di terra o una bottega), scelsero di trasferirsi. Probabilmente, l’esperienza individuale per alcune di queste famiglie, cui non di rado vennero assegnate case di persone che erano state deportate dopo l’Anschluss (1938), fu anche un’esperienza di sofferenza. Tuttavia, la vicinanza con quella che era stata la propria Heimat fino al giorno prima agevolò questo trasferimento collettivo, che ridusse la componente germanofona della Val Canale, già decapitata dei funzionari asburgici alla fine della Grande guerra, a un quinto di quella originaria.
Il primo stadio dell’italianizzazione forzata di questa terra multietnica da secoli era però iniziato ben prima del 1938, colpendo non tanto i parlanti tedesco, ma un’altra comunità di “allogeni”: quella slovena. Come anche in altri ex possedimenti asburgici acquisiti dal Regno d’Italia dopo la Grande guerra, anche in Val Canale le autorità italiane, con rinnovato vigore dopo l’ascesa del fascismo, proibirono l’utilizzo della lingua slovena, e in generale qualunque riferimento pubblico all’esistenza di una comunità slavofona (associazioni culturali, giornali, attività artistiche e ricreative). La lingua sopravvisse soprattutto grazie ai preti, che continuarono a utilizzarla clandestinamente e si prodigarono per trasmetterla ai fedeli. In parallelo, mentre invogliava i tedeschi a espatriare e vessava gli sloveni, il regime fascista incentivava l’immigrazione di italiani (e quindi anche di friulani), rimasti fino a quel momento una sparuta minoranza. Il mix etnico-linguistico riscontrabile oggi è soprattutto il prodotto di questa campagna di ingegneria demografica.
Nonostante una prima metà del Novecento così travagliata, la Val Canale è riuscita a conservare la peculiarità che la rende un unicum in nel paese e nel continente, il quadrilinguismo. “Un aspetto interessante è che nella pratica quotidiana ci si capisce tutti, a prescindere da quale sia la propria lingua madre. Per alcune pratiche, come il lavoro in bosco o in orto, l’aggiustare qualcosa, il darsi una mano, si attinge spesso, anche in modo evocativo, a un ‘vocabolario transnazionale’ o ‘interetnico’. I termini della vita tradizionale sono simili tra sloveno, italiano, friulano e tedesco. Per definire il giogo del cavallo tutti diciamo komad, per indicare un fosso graben”, illustra Jelen.
La Val Canale è riuscita a conservare la peculiarità che la rende un unicum nel paese e nel continente, il quadrilinguismo.
Tuttavia, è solo dalla caduta del Muro di Berlino che le autorità locali hanno riconosciuto questa competenza come un valore. Prima dell’introduzione dell’area Schengen, e specialmente prima dell’entrata dell’Austria (1995) e della Slovenia (2004) nell’Unione Europea, la capacità di parlare più di una lingua non era vista come una risorsa. Dal secondo dopoguerra fino ai primi anni ‘90, le autorità locali non hanno agito per preservare e valorizzare il pluralismo linguistico. Una negligenza che ha penalizzato soprattutto la componente slovena, che a differenza di quella tedesca non ha potuto contare sul sostegno del sottobosco associativo di Austria e Germania, ed è stata perdipiù anche parzialmente ostracizzata a causa della diffidenza verso la confinante Jugoslavia socialista, come constata laconico Rudi Bartaloth, vice presidente del centro culturale sloveno Planika (“Stella Alpina”) di Ugovizza.
Per tutta la guerra fredda, l’assenza di amministrazioni proattive risolute a lanciare iniziative e progetti di salvaguardia, unita all’emigrazione (all’estero o in pianura) di una fetta cospicua degli autoctoni, hanno minato il capitale di biodiversità linguistica della Val Canale. La lingua delle istituzioni e della maggioranza, l’italiano, si è affermata come lingua franca. I risultati sono stati fotografati da Jelen e da altri autori in varie ricerche pubblicate negli ultimi anni. Tra Camporosso, Valbruna e Ugovizza, e Fusine, i principali insediamenti oltre a Tarvisio, vivono solo alcune decine di persone che sanno esprimersi in tutte e quattro le lingue. Includendo Tarvisio, si arriva a circa un centinaio di individui. Le minoranze tedesche e slovene autoctone si sono assottigliate, oggi rasentano l’estinzione. Negli ultimi anni, l’amministrazione di Tarvisio si è allora attivata con alcuni progetti incentrati sulle scuole per frenare questo declino. In asili, scuole elementari e medie è stato introdotto il metodo CLIL, che prevede l’insegnamento di materie in lingua (quindi non solo l’insegnamento linguistico) e la rotazione per quadrimestre. Inoltre, due anni fa all’Istituto Bachmann, una delle scuole superiori del paese, è stato introdotto in via sperimentale un curriculum in tre lingue.
Segno dei tempi, oggi il tarvisiano più celebrato è una figura poliglotta e poliedrica, un tarvisiano acquisito: Julius Kugy, scrittore e pioniere dell’alpinismo in questo quadrante dell’arco alpino, triestino di padre tedesco, madre slovena e cittadinanza austro-ungarica. A lui sono intitolati il centro comunale, un rifugio, il programma delle attività turistiche. Questo genere di iniziative e la ritrovata sensibilità verso la valorizzazione della diversità visibile a livello locale recepiscono anche il nuovo approccio delle autorità regionali del Friuli-Venezia-Giulia, che anche grazie alle risorse garantite dallo statuto di autonomia, nel nuovo millennio hanno varato norme ad hoc per salvaguardare le comunità linguistiche. Uno degli esempi più significativi è la legge 20/2009 per la tutela della minoranza e della lingua tedesche.
Come prevedibile, inoltre, è stata questa minoranza quella che più ha beneficiato dalla smaterializzazione delle frontiere. “L’interesse per il tedesco negli ultimi anni è notevolmente aumentato. Da quando sono spariti i confini, l’economia della valle è cambiata completamente. Da un’economia che prima era concentrata quasi esclusivamente sul commercio e sulle attività collaterali alla presenza dei confini, come le case di spedizioni, adesso ci si è molto orientati sul turismo. Quindi il tedesco viene molto richiesto”, osserva Alfredo Sandrini, presidente della Kanaltaler Kulturverein, l’associazione culturale della minoranza germanofona, fondata nel 1979. Secondo Sandrini, dagli anni ‘90 si sta assistendo a un vero cambio di attitudine, che in questa zona assume anche le forme di un dialogo intergenerazionale. “Quando è caduto il confine con l’Austria, dicevo ai nostri soci più anziani: ‘Guarda che adesso se devi andare ad Arnoldstein [il primo paese oltreconfine, NdR], non devi più fermarti al confine, non ti controllano più’. E si vedeva che non riuscivano a capire subito questa situazione anomala, avevano il confine in testa”, ricorda con un sorriso. “I confini pian piano stanno sparendo. Sono spariti da un punto di vista geografico, stanno sparendo anche dalla testa delle persone. I giovani di adesso si pongono delle domande. Chiedono: ‘perché mai parlando con il nonno, mi accorgo che non sa ancora parlare perfettamente l’italiano?’. Si ritorna a quella che era la nostra origine, ma in una situazione di grande apertura”, chiosa Sandrini.
La sparizione dei confini apre nuovi scenari, ma forse ne preclude anche alcuni.
Per una terra che è stata così tanto plasmata dalla propria identità di frontiera, la sparizione dei confini apre nuovi scenari, ma forse ne preclude anche alcuni. Proprio il confine, infatti, aveva, inter alia, prodotto le condizioni per l’arrivo e l’insediamento della quinta componente linguistica di Tarvisio, misconosciuta sul piano giuridico, ma percepibile nitidamente visitando il grande padiglione che ospita il Mercato di Tarvisio. Una minoranza ufficiosa, finita anch’essa ad arricchire il crogiuolo linguistico-culturale di Tarvisio, l’ultimo capitolo di una storia di frontiera. In un articolo su La Stampa del 2006 si legge:
Gli austriaci venivano in massa a comprare. La città prosperava. Poi anche alcuni napoletani di passaggio fiutarono l’affare e presto si formò una vera e propria comunità partenopea che allestì il mercato coperto, con bancarelle di pelletterie e ‘prodotti d’Italì’, cullando i passanti sulla morbida voce di Gigi D’Alessio. Sui cinquemila abitanti di Tarvisio, i napoletani arrivano oggi a quota ottocento