P er la Somalia il sistema mi dice che dovete cambiare all’arrivo almeno 100 dollari in scellini somali”.
La ragazza al check-in dell’aeroporto di Fiumicino ha un sorriso cortese.
“Non dobbiamo andare in Somalia – le spiego – ma in Somaliland”.
Lei controlla con la stessa cortesia e replica: “Qui mi dice che siete diretti ad Hargeysa, in Somalia”.
“Hargeysa è in Somaliland – rispondo – è la capitale. Una volta era Somalia, poi c’è stata la secessione dopo la guerra civile. Guardi il visto: c’è scritto Somaliland”.
La ragazza affonda il naso nelle carte e poi esclama: “Ma con questo visto non vi faranno entrare in Somalia!”.
“Lo so, ma stiamo andando in Somaliland, non in Somalia!”
La particolarità del paese dove sto andando con la scrittrice Igiaba Scego – unici due italiani invitati all’edizione 2014 del Festival del libro di Hargeysa – si manifesta prima ancora del decollo. Cos’è il Somaliland? È uno stato che non esiste. O meglio: esiste eccome. Ha un territorio anche piuttosto vasto, un esercito e una propria valuta (lo scellino somalilandese, che nulla ha a che vedere con quello di Mogadiscio). Emette persino un passaporto, anche se a riconoscerlo come documento di viaggio, per il momento, sono solo paesi confinanti a nord, come Etiopia e Gibuti. Eppure al momento nessuno stato ha riconosciuto l’indipendenza del Somaliland e, quindi, la sua esistenza. Che “nasce” per motivi strettamente legati alla guerra civile che a Mogadiscio è ancora in corso e ha avuto origine proprio qui, in quello che una volta era il nord del paese governato dal dittatore Siad Barre. Qui cominciò la rivolta contro il regime alla fine degli anni Ottanta, per sedare la quale Barre impiegò l’aviazione in modo massiccio. Al centro di Hargeysa spicca un singolare monumento: un aereo da guerra abbattuto. Sembra fosse di fabbricazione italiana – è difficile ricostruirlo con certezza, ma i rapporti con l’Italia di Craxi all’epoca erano intensi. Dopo alcuni anni di combattimenti il Somaliland riconquista la pace, nel 1991. Il paese è semidistrutto, ma la guerra civile è finita mentre nel sud va avanti tutt’ora.
Il Somaliland è una sorta di utopia nata per mettere fine agli orrori della guerra: il paese corrisponde alla vecchia Somalia britannica.
Il Somaliland, insomma, è una sorta di utopia nata per mettere fine agli orrori della guerra. E non si tratta di un’utopia arbitraria: il paese, infatti, corrisponde alla vecchia Somalia britannica, che si unì con il territorio controllato dagli italiani solo all’indomani dell’indipendenza dai vecchi colonizzatori. Certo, non tutti i somali sono entusiasti del fatto che la vecchia repubblica abbia perso la sua integrità territoriale – anche il Puntland, più a est, si è dichiarato indipendente nel 1998, salvo poi riconoscere l’autorità del governo centrale – ma gli indubbi vantaggi dovuti alla fine delle ostilità ottenute con l’indipendenza del Somaliland sono sotto gli occhi di tutti.
Un’utopia nell’utopia è quello che ci porta in Somaliland, me come altri e ben più prestigiosi ospiti internazionali, dallo scrittore somalo Nuruddin Farah, più volte candidato al Nobel, al reporter del New Yorker Jon Lee Anderson. È l’Hargeysa International Book Fair, il festival del libro giunto alla sua settima edizione, fondato e diretto da Jama Musse Jama. Jama e sua moglie Ayan Mahamoud sono due infaticabili promotori culturali e si dividono tra l’Inghilterra, il Somaliland e l’Italia per dare voce alla cultura somala, alla scrittura, a una nuova forma di socialità basata sul dialogo e sull’arte. Questa edizione del festival è particolarmente importante, perché con la loro fondazione – la Redsea Culture Foundation – hanno inaugurato il primo centro culturale di Hargeysa, che comprende la prima biblioteca e il primo teatro del Somaliland (ma anche della Somalia). Nel resto del paese cinema, biblioteche e teatri sono purtroppo un ricordo del passato, di prima della guerra: ecco perché questa apertura è un segno di speranza importantissimo e un’opportunità per tutti gli abitanti di Hargeysa, specialmente per i più giovani. La biblioteca comprende libri in inglese, italiano e somalo – Jama ha da poco curato una traduzione in lingua somala del classico di Orwell La fattoria degli animali – e c’è anche una sezione per le riviste e una biblioteca digitale. Il teatro, invece, è una costruzione di legno, tessuto e lamiera che si trova nell’area esterna del centro culturale, realizzata seguendo i criteri con cui venivano realizzate le capanne tradizionali. Un’arte che è quasi andata perduta, che possiedono ancora alcune donne delle generazioni più anziane, e la costruzione di questo piccolo teatro è stata anche un’occasione per recuperarla.
Il Somaliland ha una vera autonomia, anche se il fatto che non sia riconosciuta gli impedisce di usufruire di aiuti internazionali.
Sono stato invitato al festival per parlare di micronazioni, minuscoli stati autoproclamati che portano avanti la propria “narrazione” fatta di bandiere, francobolli e passaporti, spesso nell’indifferenza generale. C’entra qualcosa il Somaliland? Anche se i punti di contatto sono tanti, probabilmente no. Il Somaliland ha una vera autonomia, anche se il fatto che non sia riconosciuta gli impedisce di usufruire di aiuti internazionali diretti – tanto che le Ong che operano sul posto hanno spesso la loro sede in un altro paese come il Kenya. La vicenda del Somaliland semmai ha più a che fare con anomalie geopolitiche come l’Abkhazia, la Transnistria o il Nagorno-Karabakh. Eppure qualcosa di simile all’universo micronazionale c’è e ci racconta qualcosa di questo pezzo di mondo. Per noi il Somaliland non esiste. Per parlare con la Somalia l’Occidente si rivolge a Mogadiscio, dove ha sede il governo riconosciuto e dove la comunità internazionale risiede in un compound adiacente all’aeroporto, visto che sono le uniche due zone della città che è davvero in grado di controllare. Un paradosso di cui l’Unione Europea si sta pian piano accorgendo, cominciando a ipotizzare accordi bilaterali. Chi già ci ha pensato è l’FMI: nello stesso periodo del festival all’Hotel Maansoor era in corso un convegno sulle strategie per contenere il riciclaggio di denaro, che utilizza i canali delle rimesse che i migranti spediscono a casa. Il Somaliland, infatti, è fuori dai circuiti bancari internazionali – il principale istituto di credito del paese è in realtà una società di money transfer – col risultato che quando giunge qui il denaro diventa praticamente invisibile a qualsivoglia controllo.
Già il denaro. Ovviamente lo scellino del Somaliland vale pochissimo, non è praticamente scambiabile e subisce un’inflazione feroce. Per i mercati della città, che si snodano lungo un dedalo di vie che costeggiano una delle arterie principali, ci sono dei banchi dedicati alla vendita di banconote. Un dollaro vale 8.000 scellini e quando ti cambiano i soldi in cambio di pochi dollari ricevi mazzette gonfie di banconote da cinquecento, mille e duemila scellini. Degli sciami di ragazzini puntano i rari e inconfondibili stranieri che vanno al cambio, per elemosinare le banconote. Si accalcano gridando addosso a chi decide di tirare fuori una mazzetta. Dai banchi gli uomini e le donne del mercato guardano divertiti o indifferenti. Balle intere di soldi sono lasciate sotto gli ombrelloni praticamente senza controllo. D’altronde, per portarsi via un valore di una qualche consistenza bisognerebbe rubarne un mezzo metro cubo. Anche per questo in Somaliland, più che i contanti, la gente preferisce usare un sistema di pagamento elettronico che si chiama “Zaad”, che utilizza un credito virtuale che si può gestire dal cellulare. Sembra un paradosso in una città che in molte strade non ha l’asfalto né un sistema fognario, e dove il sistema sanitario è inesistente, con qualche luminosa eccezione di origine filantropica. Eppure ovviamente, come in moltissimi altri paesi poveri e poverissimi, il cellulare è estremamente diffuso – e anzi ci racconta una particolarità di questo stato che “non esiste”: le compagnie telefoniche, nonostante la secessione, servono con lo stesso circuito sia la Somalia che il Somaliland, a prescindere da dove abbiano sede.
In Somaliland, più che i contanti, la gente utilizza un credito virtuale che si gestisce dal cellulare. Sembra un paradosso in una città senza un sistema fognario e dove quello sanitario è inesistente.
Un’idea di come il Somaliland stia costruendo con grande tenacia il suo futuro ce la fornisce il racconto di Edna Adan Ismail, ospite del festival. Edna è un personaggio chiave nella storia politica della Somalia, e dopo aver tentato di costruire un ospedale a Mogadiscio ha scelto di concentrare i suoi sforzi ad Hargeysa, dove la fine delle ostilità ha permesso la crescita di progetti importantissimi come il suo ospedale ostetrico. “Quando sono venuta qui nel 1991 – racconta – ho trovato una città fantasma. L’aeroporto era bombardato, l’ospedale per metà distrutto e l’altra metà veniva usato dagli sfollati per dormire. Non c’era acqua. Chi lavorava nella sanità era stato ucciso o aveva abbandonato la città. Nemmeno le élite potevano accedere a un’assistenza medica adeguata. Questo significa che i parti avvenivano in condizioni estremamente precarie, con un tasso di mortalità vertiginoso: 1.600 decessi ogni centomila bambini, la terza mortalità infantile più alta al mondo”. Quando rievoca gli anni della guerra Edna tradisce un’emozione particolare nella voce, e mentre racconta degli sforzi di tanta gente che hanno portato all’apertura del suo ospedale parte spontaneo un fragoroso applauso. Oggi la mortalità si è ridotta di oltre il 75% grazie a programmi che per formare delle levatrici nella popolazione locale, dai centri urbani ai villaggi. L’obiettivo, ancora lontano dalla realizzazione, sarebbe quello di formare personale specializzato – ma la formazione delle levatrici ha già dato un ottimo risultato.
Quello che colpisce noi ospiti occidentali, anche quelli più avvezzi all’Africa, sono le misure di sicurezza. Sembrano allo stesso tempo strettissime e improvvisate. Ogni luogo dove ci spostiamo è presidiato da uomini armati con kalashnikov antidiluviani e l’albergo dove alloggiamo ha l’ingresso protetto da tre blocchi sfalsati di cemento, a prima vista per evitare incursioni armate. La sicurezza è migliorata in Somaliland e gli ultimi casi di violenza nei confronti di stranieri risalgono a diversi anni fa; nonostante ciò, come in altre parti dell’Africa, il mondo si divide tra un “dentro” ricco e un “fuori” povero, che se non è necessariamente pericoloso è quantomeno misterioso. Le giornate passano così, da un luogo recintato all’altro, dall’albergo al festival, con una sensazione sotterranea di frustrazione per chi non è abituato a vivere “in custodia”. “In realtà qui si vive molto al chiuso”, mi spiega Mohamed, un architetto nato a Mogadiscio ma cresciuto negli Stati Uniti. Sua moglie è di Hargeysa e assieme a lei ha deciso di tornare per investire in quello che sente comunque il suo paese. “Le case sono tutte cinte da mura, ma non è come può sembrare solo una questione di sicurezza. Un’altra causa sta nel fatto che le case venivano costruite ispirandosi alle case coloniali degli inglesi. Erano gli inglesi ad erigere muri di cinta, per questioni di controllo e sicurezza. Somali e somalilandesi li hanno copiati perché, per loro, erano un segno di prestigio. Il significato dunque è completamente cambiato”.
Il mercato è una giostra di colori e di disegni dalle proporzioni spesso sbagliate, con un tono a metà tra la pop art e il fumetto. Si vende frutta, detersivi e il qat, le piante di droga da masticare chiamate “oro verde”.
Tra un appuntamento e l’altro del festival riusciamo a “fuggire” per un giro al mercato, invaso da merce cinese come tanti mercati del mondo. Quello che colpisce è l’utilizzo dei disegni che, pennello alla mano, qualche artigiano dipinge sui muri dei negozi e sui chioschi in lamiera che si rincorrono lungo le strade commerciali. È una giostra di colori e di disegni dalle proporzioni spesso sbagliate, che danno un tono a metà tra la pop art e il fumetto, con un tocco naif – soprattutto quando gli artigiani che realizzano queste insegne artigianali cercano di imitare i grandi marchi: Google e Microsoft per gli internet point; Bosch e Toshiba per gli accessori utili al bricolage. E così via. Fino alla frutta, ai detersivi, al money exchange dell’onnipresente “Zaad”. E – soprattutto – le rivendite di qat, le piante di droga da masticare che qualcuno chiama “l’oro verde”.
Se ne vedono a decine di persone per ogni rivendita – e i banchi sono moltissimi, tutti contrassegnati da un numero di licenza. Stanno sdraiati per terra, dentro le baracche di lamiera, bevendo qualcosa di caldo e masticando qat. Il qat è venduto in mazzetti e occorre masticarne parecchio prima che faccia effetto, da quel che racconta un ragazzo. È una droga “lenta”, certo non adatta ai ritmi frenetici dell’Occidente. Chi la mastica ha gli occhi rossi, occhiaie livide, eppure chiedendo a un uomo che effetto gli fa masticare qat quello risponde: “Ti fa sentire forte, come un dio”. Quello che è sicuro è che il qat ha un forte impatto sull’economia di Hargeysa. Molte persone lavorano nella vendita al dettaglio, soprattutto donne vedove o divorziate (anche se le donne sembra non mastichino il qat) che trovano così un’entrata economica. Ma il grosso dei soldi finisce in Etiopia, perché è lì che viene coltivato il qat, oggi una delle principali esportazioni del paese. Soldi che spesso sono frutto del lavoro di parenti all’estero, le famose rimesse dei migranti, perché il tasso di disoccupazione in Somaliland è ancora molto alto. C’è chi sostiene peraltro che le due cose, qat e disoccupazione, siano collegate. Masticare qat è sempre stata una tradizione in Somalia, ma i livelli raggiunti negli ultimi tempi non hanno paragoni. La gente non lavora e mastica qat tutto il giorno, più ne mastica e meno è in grado di lavorare, e così i soldi che arrivano dai parenti partono di nuovo, alla volta dell’Etiopia.
Nel frattempo su Hargeysa cala un tramonto bianchissimo, quasi diafano. Sono i colori del crepuscolo in una terra vicina all’Equatore. La gente va verso casa, tranne quelli che continuano a fare capannello attorno a qualche banco. Negli occhi ho ancora le danze bellissime a cui abbiamo assistito al centro culturale di Jama e Ayan, alle facce allegre e gonfie di vita, ai quadri appesi alle pareti di una sala che funziona da galleria, alle ragazze curiose e dai sorrisi bellissimi che sfogliano libri nella biblioteca. E diventa evidente oltre ogni forma di retorica che davvero una nuova possibilità passa dalla cultura e che il Somaliland delle nuove generazioni, se sarà in grado di trasformarsi in un paese migliore, sarà partito proprio da luoghi come quello.