V oglio solo una vita decente”: è con questa sentenza che si chiude il brano 7 Miliardi di Massimo Pericolo. L’asserzione mette il punto ai versi precedenti, in cui la disillusione per la politica istituzionale e, in generale, per l’istituzione opposta al godimento fa da padrona: “non voto ché tanto non serve / non mi sposo così scopo sempre”. La pretesa di una vita decente, combinata alle delusioni che rispondono a una vita pubblica e politica incapace di essere all’altezza di questa pretesa, è qualcosa di più di un capriccio, di una posa o di una lagna postadolescenziale.
Il limite della giustizia
Molte di quelle che potremmo identificare come teorie della giustizia, rappresentanti della filosofia politica più mainstream – un occhio rapido alle cattedre e alle più svariate posizioni nelle università, diciamo per comodo europee, è sufficiente –, hanno preso sul serio l’esigenza di riallacciare partecipazione politica e istituzione democratica. Basti pensare a John Rawls o a Jürgen Habermas: uno dei fini principali delle loro filosofie consiste proprio nel reclamare la politicità della sfera pubblica, contro la tendenza storica delle democrazie liberali di fare delle istituzioni una questione di gestione tecnica (dovrebbe suonare familiare) e di ridistribuzione di beni, ricchezza, funzioni sociali. La buona intenzione di entrambi, in soldoni, è quella di mostrare che le pretese di chi chiede una vita decente – siano classi subalterne o minoranze dei più svariati tipi – è la linfa vitale di una società democratica, perché ne articola la critica. Eppure in queste teorie manca qualcosa: si tratta di capire se lo scopo è all’altezza della pretesa, cioè, se la giustizia è all’altezza della vita decente. Rispondere a questa richiesta, insomma, è una questione di giustizia? E la teoria della giustizia è sufficiente a farlo?
Axel Honneth, epigono francofortese, è un pensatore che si è inserito in questo dibattito. In uno sviluppo in parte interno agli studi sulla giustizia, Honneth intende ridare a questi una coloritura marxiana, con piglio critico. Le teorie della giustizia peccherebbero di intellettualismo, sostiene, nella misura in cui ignorano che la “grammatica dei conflitti sociali” – così sottotitola il suo testo più celebre, Lotta per il riconoscimento (1992) – non è solo faccenda di buone norme più o meno universali, che si tratterebbe di negoziare in una pari condizione di partecipanti al gioco pubblico. Al contrario, l’ingiustizia e le situazioni d’ingiustizia, che Honneth classifica con acribia, non sono sempre immediatamente integrabili, discutibili nelle regole che organizzano la vita pubblica e democratica in una data società, circoscritta geograficamente e storicamente. Esse sono invece opache e le loro ragioni sono ragioni che non sorgono soltanto da norme disattese, ma da conflitti e lotte sociali per, appunto, il riconoscimento, e coinvolgono l’affettività e la corporeità. La loro lotta non è solo una lotta per l’articolazione in una sfera pubblica, ma una lotta per l’articolabilità: le posizioni d’ingiustizia subìta non pretendono solo di farsi valere in una batteria di norme, ma anche di rivedere questa batteria, che può escludere dalle regole della vita pubblica, in linea di principio, l’articolazione stessa di alcune rivendicazioni determinate.
Il paradigma concettuale di Honneth, come il concetto di riconoscimento dichiara senza margini di dubbio, attinge alla filosofia hegeliana, la cui ripresa negli ultimi anni è forse una delle cifre principali del dibattito filosofico, dopo essere stata in parte reimportata da oltreoceano. Da più o meno due secoli le filosofe dibattono su che cosa intendesse Hegel con il concetto di riconoscimento; una delle idee fondamentali del riconoscimento, però, è che l’individuo umano non sa chi e cosa è, cosa desidera fare, chi è stato, cosa farà, cosa può e deve fare, al modo dell’onfaloscopia, dell’introspezione. L’individuo umano è caratterizzato da una relazione ad altri individui umani, da cui dipende: in senso sociale e materiale. Questo accade nella misura in cui gli atti di un individuo vengono riconosciuti, nel loro valore, nelle loro pretese, da altri individui. La validità delle azioni umane non è intrinseca, ma sospesa al riconoscimento di altri individui.
Le teorie della giustizia sostengono che le pretese delle classi subalterne e delle minoranze sono la linfa vitale di una società democratica.
Il riconoscimento cosiddetto interindividuale, a sua volta, non è immediato, ma informato dalle reti concettuali, sociali, linguistiche, normative che ordinano e organizzano comunità umane determinate nel tempo storico e nello spazio geografico. Versarti dell’acqua nel bicchiere come gesto d’attenzione a un pranzo (o reverenza o educazione) non assume il suo valore solo perché è riconosciuto da un altro individuo come tale: questo riconoscimento determinato presuppone a sua volta un mondo fatto di bicchieri, riti, consuetudini, attenzioni (o reverenze o educazioni). Per dare un’idea di quanta attenzione abbia ottenuto questo concetto negli ultimi tempi, e non da un punto di vista storico ma come concetto fondamentale della comprensione filosofica della società e della politica, basti pensare alla sua ripresa in ambienti che spaziano dal femminismo queer di Judith Butler al neopragmatismo smaccatamente hegeliano di Robert Pippin, passando per quegli approcci che si vogliono più marxisti, come nel caso di Emmanuel Renault.
Una teoria dei bisogni
Tuttavia sorge il dubbio: dove va a parare il riconoscimento, come riformulazione della giustizia? Riformula a sufficienza? È a questo punto che voglio fare entrare in gioco il Marx dei Manoscritti economico-filosofici (1844). In particolare, due argomenti impattano con decisione sull’impianto teorico della giustizia e del riconoscimento, non come elementi integrabili in esso, ma come principî (alternativi) della filosofia politica.
Il primo è il paradigma che definisce il concetto di individuo umano. In continuità con Hegel, Marx sostiene che l’individuo umano è tale in quanto dipendente dalle relazioni materiali, sociali, economiche che ne ordiscono la sopravvivenza. Questa è in qualche modo l’altra faccia della medaglia del riconoscimento, cioè l’alienazione. Ma contro Hegel, Marx critica l’idea che ciò che manca a all’individuo umano alienato sarebbe la capacità di sapersi adeguatamente. L’individuo umano è cioè compreso da Hegel come un qualcosa che è prima di tutto capace di autocoscienza, di rapporto a sé. Marx non è d’accordo. Sostiene che gli individui umani sono invece principalmente “attività sensibile”.
Questo significa, certo e in parte, considerare la corporeità umana. Marx però non è interessato a quello che è forse uno dei più clamorosi luoghi comuni del discorso filosofico recente, cioè l’adagio secondo cui la filosofia ignorerebbe il corpo (questo può anche essere stato vero per alcune epoche, ma da un pezzo il concetto di corpo in filosofia è diventato ipertrofico e una sorta di panacea a tutte le domande). A Marx non interessa il corpo in generale, a Marx interessa il corpo in senso pratico: l’individuo umano è attività sensibile nel senso che è bisogno, fame, sete, necessità di riparo dalle intemperie, piacere e dolore. Non ne va, insomma, delle norme e delle regole secondo le quali gli individui umani comprendono sé stessi e la propria società, ma delle norme e delle regole che distribuiscono, rendono possibile, la soddisfazione dei bisogni o la sofferenza fisica che si manifesta quando la loro soddisfazione è negata. Questo è il termine dell’alienazione e, in un certo senso, sarebbe il termine della giustizia, se alla giustizia fosse lasciata l’ultima parola nei Manoscritti.
Però l’ultima parola, nei Manoscritti, non è lasciata alla giustizia. Questo è il secondo argomento su cui voglio insistere e che critica con forse più pervicacia quelle teorie politiche che sopra ho chiamato mainstream. È certo un argomento meno esposto, più implicito, ma è un motivo che si lascia leggere nel testo, spesso nella forma dell’invettiva, del pamphlet quasi, in cui però si esprime il movente, se posso dire così, l’interesse che muove Marx – che ha l’ardire, forse mal riposto, di applicare la questione a tutti gli individui, tanto a chi è capitalista quanto a chi vende la propria attività quotidiana come merce sotto forma di lavoro. Il punto può essere discutibile, ma è chiaro: nel sistema di produzione capitalistico si vive male, la vita è insopportabile, perché anche l’individuo capitalista, che certo l’ha più succosa di chi lavora, non vive per la propria attività sensibile, ma per l’accumulo di ricchezze e profitto.
Nel sistema di produzione capitalistico la vita è insopportabile, perché anche il capitalista non vive per la propria attività sensibile, ma per l’accumulo di ricchezze e profitto.
Ora, se questa idea costituisce il punto focale della teoria sviluppata da Marx nei Manoscritti, è importante sottolineare una differenza essenziale rispetto alla giustizia e al riconoscimento per come li ho introdotti prima. La differenza riguarda, come accennato, il principio della sua filosofia politica, o il suo paradigma. Questo non è la giustizia nel senso di un buon sistema di norme o pratiche collettive, in cui ciascuno e ciascuna può riconoscersi e realizzarsi o che può anche criticare nei termini delle regole che lo costituiscono: ne va anche di questi aspetti, certo, ma non sono questi gli aspetti decisivi. L’aspetto decisivo è la vita invivibile, intollerabile, che Marx dipinge a tinte quasi espressionistiche: le acque avvelenate, l’aria impestata cui sono costrette le case delle classi subalterne, sottomesse, una vita divisa fra posto di lavoro, polizia e obitorio. La vita cattiva è il problema fondamentale o, detto altrimenti, la vita buona è il desiderato essenziale della teoria: come se Marx partisse da Hegel e facesse tutto il giro, ritrovandosi ad Aristotele, per cui la vita buona fa parte a pieno diritto ed è il punto focale del pensiero politico e della vita pubblica. Certo la distanza da Aristotele si fa sentire: in Marx l’uomo è soprattutto bisogno, piacere e attività sensibile, mentre mi sembra che Aristotele guardi con sospetto i bisogni, ai suoi occhi ancora troppo legati alla causalità naturale degli organismi viventi, dunque non specificamente umani e liberi, ma necessitati.
Marx invece si permette di fissarsi sui bisogni e sul piacere sensibile come definitori della vita buona, sulla loro mancanza o mancata soddisfazione come cifra della vita intollerabile, perché per lui il concetto di bisogno umano è passato dal crogiolo hegeliano. Il bisogno è sociale, socializzato, ed è così sociale e socializzato che può completamente denaturarsi, in senso anche non assiologico, cioè privarsi della soddisfazione organica e godere soltanto dell’accumulo o dell’arraffare di molta o poca ricchezza a fine giornata, cioè può farsi sintomo per eccellenza della vita pessima. Lavorare per poter fare quel che ti piace fare è, per Marx, un incubo, che assume la sua forma più squallida nel motto per cui fare il lavoro che piace significa non lavorare (è l’esatto contrario invece: significa finalizzare il piacere alla vendita della propria attività quotidiana).
Bisogni e mancanza
La tesi non è immediatamente chiara, richiede un po’ d’interpretazione, soprattutto per quanto riguarda le sue conseguenze politiche. In aiuto viene Adorno, che risolve con precisione questo compito quando scrive nelle Tesi sul bisogno:
La questione della soddisfazione immediata dei bisogni non è da porre nei termini di sociale e naturale, primario e secondario, giusto o sbagliato, ma coincide con la questione della sofferenza della strabordante maggioranza degli esseri umani sulla terra. Se venisse prodotto ciò di cui tutti gli umani adesso e più urgentemente hanno bisogno, allora si sarebbe sollevati dalle preoccupazioni da psicologia sociale sulla legittimità dei loro bisogni. Queste sorgono piuttosto quando si istituiscono boards e commissioni delegate, che classificano i bisogni e che, con la scusa che l’uomo non vive di solo pane, ne assegnano le razioni, che in quanto razioni sono sempre troppo poco, volentieri sotto forma di dischi di Gershwin.
(trad. mia). Va da sé, qui Adorno non sta apprezzando Gershwin.
Quello che Adorno sostiene è che un buon concetto di bisogno non ha come proprio fine la distinzione fra cosa è più importante o meno importante, innanzitutto perché i bisogni umani sono immediatamente qualcosa di sociale. Inoltre, però, sono anche qualcosa di politico: la questione di distinguere fra bisogni culturali e naturali, primari e secondari, non è una questione neutra, ma si pone come questione di una politica che ha già deciso di razionare, di sospendere in una situazione di precarietà, chi più chi meno, cioè che sta già controllando la comunità umana, governandone, nel senso peggiore del termine, i bisogni e la loro soddisfazione. Il bisogno, al contrario, è legato immediatamente alla questione del dolore – o della mancanza di piacere – della maggior parte degli individui umani sul pianeta, cioè appunto alla vita buona o alla vita pessima come fattori politici.
Per Marx la questione non è la giustizia nel senso di un buon sistema di norme o pratiche collettive. L’aspetto decisivo è la vita invivibile, intollerabile.
È proprio secondo questi termini che le teorie della giustizia, o anche le teorie del riconoscimento come loro filiazione o critica, incontrano il proprio limite interno: non sono all’altezza delle pretese che esse stesse si pongono come criterio di riuscita. Il ramo forse più prolifico della riflessione filosofica sulla politica negli ultimi decenni, in senso sia descrittivo che normativo, ha permesso di articolare in modo rinnovato, e confrontato con la realtà materiale delle democrazie liberali, alcune domande essenziali su come funziona e dovrebbe o potrebbe funzionare la vita pubblica, collettiva, istituzionale. Questo è stato un servizio teorico fondamentale e ancora, per certi versi, necessario: la vita collettiva è orientata a norme che permettono agli individui umani di rapportarsi a sé e gli uni agli altri. Inoltre, porre la questione della giustizia è probabilmente cosa connaturata al diritto, alla giurisprudenza, fattori che ignorare in virtù di un solo utopismo astratto sarebbe non solo ingenuo, ma soprattutto controproducente da un punto di vista strategico.
Marx e Adorno mostrano però che il problema della distribuzione di merci, di beni, del razionamento non solo delle norme, delle assegnazioni di valore, ma anche della soddisfazione dei bisogni si ferma al limitare della politica, è ancora e troppo amministrazione (che sarebbe comunque già qualcosa, ma non c’è neanche quello, considerato che il mondo attuale è ancora un mondo che affama e asseta e assidera e lascia senza casa). Giustizia e riconoscimento rischiano insomma di essere ancora amministrazione nella misura in cui non prendono di petto la medaglia a due facce della vita buona e della vita pessima, della vita intollerabile perché troppo vita di privazioni, in cui peraltro l’individuo non si esprime, perché deve fare come tutti e tutte, cioè vendersi e lavorare per sopravvivere.
Detto altrimenti: solo a prendere sul serio l’esigenza di volere una vita decente, tollerabile, in cui l’individuo umano possa, questa volta sì, riconoscere i propri bisogni, le proprie capacità, le proprie voglie – il “sogno di una cosa” di cui Marx scrive nella celebre lettera ad Arnold Ruge del 1843 – non solo si formula una teoria politica degna del progetto che si è prefissata, ma si permette alle aspettative disattese di articolarsi, di informare la vita pubblica di una comunità, che in fin dei conti è troppo squallida se è solo pretesa amministrazione tecnica (amministrazione tecnica che, come ricorda Adorno, ma potrebbe ricordare anche Foucault, tecnica non è mai, ma spesso è governo e controllo).
Spostare il fuoco dell’attenzione filosofica, come ho cercato di mostrare che Marx e Adorno suggeriscono, ha alcune implicazioni, credo sempre nel loro spirito, che non costituiscono solo un cambiamento teorico, ma implicano anche un’indicazione pratica rispetto a cosa è un fattore politico. Nel rifiuto categorico della vita pessima, nella richiesta, esigente, di una vita tollerabile, non emerge l’ideale di un gioco a somma zero, che sarebbe svuotato dalla spinta e dalla pretesa politiche. L’elemento, il fattore politico è posto altrove. Puntare sulla vita buona, sulla soddisfazione della vita buona, nell’opposizione pratica e teorica alla mera sopravvivenza amministrata, significa puntare su un sovrappiù.
Puntare sulla soddisfazione della vita buona, nell’opposizione alla mera sopravvivenza amministrata, significa puntare su un sovrappiù.
Vuol dire non chiedere soltanto che vi sia giustizia, ma appunto di poter vivere bene, che è diverso da chiedere qualcosa come, per esempio, il welfare. La domanda è ovviamente in cosa consiste questo sovrappiù, cos’è il fattore politico che teorie della giustizia e del riconoscimento ignorerebbero, ignorando la questione della vita buona, e che invece una teoria che la prendesse sul serio sarebbe in grado di portare al foro. Per quanto mi riguarda questo sovrappiù l’ha ben espresso Jacques Lacan nelle sue Risposte a degli studenti di filosofia. Dopo aver ribadito il suo classico mottetto che l’essere umano è caratterizzato da una mancanza, non assoluta (la critica francamente a vuoto che di solito si fa a Lacan), ma determinata, cioè mancanza di un “oggetto,” fa un passo avanti, chiedendosi quale sia il contenuto di questo concetto, ancora formale, di oggetto mancante o mancanza di un oggetto. La risposta che dà si armonizza benissimo con il passo di Adorno di poco sopra: “Non è il pane, scarso, ma è la brioche, cui una regina ha rimandato il suo popolo in tempi di carestia” (trad. mia).
Cosa può voler dire la frase? Letta in controluce a quanto ho riassunto finora, potrebbe indicare che l’individuo umano, quando pretende – Lacan direbbe forse desidera – una vita decente, migliore di quella che ha, tollerabile rispetto a ciò che in una data situazione materiale, storica, geografica manca, non pretende sempre la stessa cosa. Puntare il dito sul bisogno umano come socializzato significa quindi mostrare che la richiesta della vita buona si articola rispetto a qualcosa che manca non astrattamente, in generale, come i minerali alla pianta, ma rispetto alle concrete privazioni e ai concreti divieti di ciò che ha o è supposta avere la classe dominante, di ciò di cui la classe subalterna è attivamente privata. Non si tratta di volere quanto basta, in una morale della continenza, ma di volere di meglio e di più, di esigere i privilegi tolti.
Per così dire e chiudere con un tono più leggero: non ordini mendicanti, con buona pace di Agamben, ma volersi prendere e permettersi di volersi prendere il lusso del papato, questo è il fattore politico che l’attenzione alla vita buona e alla vita pessima permette non solo di considerare nella teoria, ma anche di attivare nella pratica. Quello che Marx e Adorno, con un po’ di Lacan, hanno da insegnare alle teorie della giustizia e del riconoscimento, al netto dell’indubbio servizio reso da queste ultime e proprio in forza degli interessi teorici e politici in parte condivisi, è che non ha senso chiedere e distribuire il pane: bisogna esigere la brioche.