C ome tanti — come forse molti più di quelli disposti ad ammetterlo — ho subito costantemente del bullismo durante i tre anni di scuola media. Non ero l’unico, ma uno dei bersagli preferiti. Ogni tanto venivo picchiato, ma per fortuna non gravemente; per lo più si trattava di sottomissione psicologica e di corali prese per il culo. Non ricordo un solo giorno vissuto senza terrore. Non ho reagito quasi mai, per due motivi. Il primo è che la violenza mi ha sempre fatto talmente schifo che non desideravo esercitarla in nessun caso: con il senno di poi, una nobile sciocchezza. Ho soltanto dato loro l’occasione di perpetrare il potere che avevano su di me; il buon consiglio di ignorarli perché prima o poi si stuferanno non aveva effetto alcuno. Come ci si può stufare di una vittima tanto disponibile?
Ma se mi limitassi a questo potrei rubricare il mio caso sotto un problema psicologico da due soldi. “Sei debole”: la colpa è di chi le prende. “Impara, il mondo fa schifo: sii più forte di loro”. Il dolore come atto formativo di un giovane maschio: e in effetti, le poche volte in cui ho reagito, ha funzionato; ma era una logica che rifiutavo. E invece non reagivo anche per una semplice questione: ero in minoranza numerica — i bulli amano attaccare in gruppo — ma soprattutto ero lasciato solo da un’ampia zona grigia che non voleva avere nulla a che fare né con me né con loro. Non li approvava; ma non aveva il coraggio di opporsi a loro. Li odiavo, ma riuscivo a capirli: nei loro panni cosa avrei fatto? Si pensa sempre che l’arduo compito di difendere il debole tocchi a qualcun altro. Magari poi interverremmo anche noi, ma è molto difficile fare il primo passo.
C’è qualcosa di arcano nel modo in cui la struttura di violenza di piccole o grandi comunità si riproduce, sempre uguale, nei secoli. Il potere o il carisma di uno — spesso né il più forte, né il più intelligente; a volte solo il più crudele — raccoglie intorno a sé un gruppo di persone aggressive o vigliacche a sufficienza da sfogarsi sul più debole. E intorno, un silenzio che contribuiva a far sorgere dentro di me un’idea: forse, dopotutto, me lo merito. Forse la catena alimentare funziona così. Chiunque ha provato la solitudine dell’essere emarginato in questo modo sa che ci sono tre modi per uscirne — soccombere, diventare bulli a propria volta, oppure adoperarsi per distruggere la società che impone una divisione netta tra vittime e carnefici.
Il primo modo è il più straziante. Ci si arrende non solo ai propri bulli, ma all’intero sistema che li produce e li vivifica: si pensa che non ci sia spazio alcuno per uscirne; ci si cala completamente nel proprio ruolo di bullizzato. A volte se ne muore, con la consapevolezza che la propria morte non cambierà nulla: due giorni di cordoglio, e il sistema continuerà così com’è sempre stato. Il secondo modo è piuttosto diffuso. Non appena se ne ha la chance, si vestono i panni del potente. Per tutta la vita ho subito, ora tocca a me: e così facendo, si perpetra la stessa struttura che ti ha fatto soffrire — solo a parti invertite. Dopotutto capiterà di incontrare qualcuno di più fragile di te, nella vita. Si tratta solo di attendere e trasformarsi in lupo dopo aver recitato la parte dell’agnello.
Quanto alla terza strada, è la più difficile ma l’unica a mio avviso realmente efficace. A undici anni non avevo ancora studiato l’anarchismo, non sapevo nulla di politica, non avevo idea che questo tipo di potere si replicasse senza troppe distinzioni a destra come a sinistra: ma sapevo già, istintivamente, che la sola regola della mia vita sarebbe stata questa: né vittima né carnefice. Non voglio più subire, ma non voglio nemmeno far subire ad altri. In un magnifico articolo intitolato The Bully’s Pulpit, l’antropologo libertario David Greaber analizza questo complesso di problemi. Due punti mi hanno colpito in particolare. Il primo: la scuola impedisce la più naturale delle reazioni di un animale in pericolo: la fuga. Quando ho letto questa frase mi sono venuti i brividi. Ho ricordato quanto mi sentissi in trappola, senza via d’uscita alcuna: ma moltissimi altri luoghi della nostra società — l’ufficio, la caserma, il carcere, la clinica, le sale d’attesa — sono impostati in questo modo. Fuggire o disertare è molto difficile, ed è anche per questo che viene bollato come un gesto da vigliacchi. Come se cercare un po’ di respiro dalla violenza costituita fosse viltà.
Il secondo punto che solleva Graeber è una chiosa a questo sistema sociale: la frase velenosa “Non importa chi ha cominciato”. Nel cercare di ricomporre le questioni, si cerca subito una pacificazione di massima — hai reagito a un’offesa? Sei stato tu a prenderle per primo? Ti hanno bullizzato? Non importa chi ha cominciato. Stringetevi la mano da veri uomini e tanti saluti. Di rado si parla del colpevole se non per vittimizzarlo a sua volta — poverino, è solo un ragazzo aggressivo — o demonizzarlo come un mostro: educarlo davvero è difficile. O sono “ragazzate”, oppure non c’è modo di venirne a capo — il male infantile e adolescente appare un segno di corruzione irredimibile, per cui si può solo punire alla cieca e sperare che un giorno crescano tutti. Perché ci passano tutti. E poi tutti diventano adulti e se ne scordano.
Ma è proprio qui il problema. Relegare il bullismo alle sue manifestazioni infantili è dimenticare come persone adulte psicologicamente o socialmente più deboli debbano confrontarsi ogni giorno con dei bulli nel mondo delle relazioni, delle professioni, della strada. Una donna con un uomo che la molesta. Un lavoratore che viene ricattato dal suo capo. Un’ondata di commenti inferociti senza motivo su un post. Il razzismo consapevole e quello inconsapevole. In tutti questi casi, il minimo comune denominatore non è tanto l’esistenza di singoli esseri umani corrotti, quanto di uno sfondo di silenziosa accettazione; una pigrizia morale, per così dire.
Ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione negli ultimi giorni. Il caso di Harry Weinstein ha dimostrato una cosa ancora più grave, se possibile, del vergognoso esercizio di potere e violenza da parte di un singolo uomo: ovvero la rete di omertà, vigliaccheria e impunità che vi sta dietro. L’idea che le cose siano sempre andate così (magari aggiungendo “purtroppo”) e il mancato impegno a cambiarle. Forse è questo l’aspetto più deprimente della contemporaneità: il cinismo mascherato da rassegnazione. Una rassegnazione che vorrebbe giustificare proprio quella rete di omertà con un’alzata di spalle. Una rassegnazione che porta a incanalare tutta la rabbia sociale in aggressività mal collocata: è sempre facile prendersela con la vittima — specie se la vittima, come ha scritto bene Giulia Blasi, è imperfetta.
Perché c’è un altro errore fatale che si può compiere leggendo di Weinstein: ovvero pensare che questo sia il “sistema Hollywood”; che simili orrori accadano soltanto in luoghi dove si concentrano i soldi e il potere. Non è affatto così, e i controesempi abbondano. A costo di generalizzare un po’, mi sembra anzi che la nostra società nel suo complesso si stia strutturando attorno a una forma condivisa di bullismo — tanto più semplice da esercitare quando non costa alcun conflitto fisico. La solidarietà costa cara; molto meglio chiudersi nella propria sicurezza di avere sempre il diritto di lagnarsi più degli altri. Costruire una comunità sull’odio — proprio come i bulli adolescenti tendono ad aggregarsi — è facilissimo. Tutti vogliono essere carnefici almeno per un giorno o un’ora, perché il godimento che offre la punizione — ne ha scritto magnificamente Didier Fassin nel suo ultimo libro — è unico: un autentico delirio del potere. Puniamo chi ci pare, anche gli incolpevoli, perché abbiamo subito e subiamo e questa società è una merda e ci meritiamo il nostro quarto d’ora di sangue e soddisfazione: puniamo indistintamente, dall’insulto digitale al litigio per strada alla schiuma alla bocca che viene quando i processi vengono sventagliati sui giornali.
Quindi non c’è nulla da fare? L’esatto contrario. È facile uscire da queste riflessioni con in tasca un’antropologia radicalmente pessimista; ma sarebbe la peggiore delle rese. A distanza di quasi venticinque anni, ho guadagnato la possibilità di una via di fuga dal bullismo quotidiano. Nessuno più mi tormenta ogni mattina. Posso così raccontare che le cose fossero molto meno gravi di quanto mi apparissero, e che davvero tutti cresciamo e dimentichiamo: ma sarebbe un insulto nei confronti dell’undicenne umiliato e preso a pugni che ero; e peggio ancora, un insulto nei confronti di tutti coloro che oggi — qualsiasi età abbiano — sono costantemente umiliati e feriti.
Bisogna invece lavorare per loro: impedire che questo modello di società venga dato per scontato, e si reiteri con tanta scioccante naturalezza. Come? Intervenendo ogni volta che lo vedo in azione. Evitando di dire “Non importa chi ha cominciato”. Analizzando sempre il contesto dove queste violenze si esercitano, e cercando di lavorare sul contesto per intero e non sul singolo caso. Discutendo e parlando. Reagendo, se è il caso. La non-violenza, se non desidera inchiodarsi su posizioni oltremodo passive o diventare un manualetto per martiri in erba, è anche questo: imparare a reagire — fosse anche sollevando una mano, dicendo la parola che si teme tanto di dire. C’è una frase di Judith Butler in Vite precarie che mi è sempre tornata in mente quando riflettevo sul da farsi. Non ho sottomano il testo italiano; traduco al volo dall’originale inglese:
Ricordare la lezione di Eschilo, e rifiutare questo ciclo di vendetta in nome della giustizia significa non solo cercare un rimedio legale per i torti commessi, ma anche valutare come il mondo si è formato in questo modo proprio al fine di riformarlo, e in direzione della non-violenza.
Più che le consolazioni, occorre un impegno collettivo. Mentre mi leccavo le ferite, nelle sere buie di tanti anni fa, pensavo: se un domani mi capiterà mai di assistere a qualunque episodio di bullismo, devo essere quello che interviene per fermarlo. Non per eroismo — ho paura anch’io dei bulli, come tutti, e ne ho parecchia — ma perché funziona. Rompere anche per un attimo l’incantesimo della violenza, il superiore che umilia l’inferiore davanti a un pubblico atterrito o partecipe, è sufficiente per mostrare che non c’è nulla di irrimediabile, e che non c’è potere che possa essere combattuto — e persino sconfitto.