M arie è una donna di cinquant’anni, circa, un tempo era un ragazzo di nome Marc, di professione dj. Ora fa la badante e l’operatrice sanitaria, ama il suo lavoro, anche se la vocazione per la cura non le impedisce di lamentarsi per le difficoltà di un mestiere a stretto contatto con la vecchiaia e la malattia. La incontro a un seminario di un’associazione universitaria francese che si occupa di questioni di genere: siamo in una delle aule della Sorbona e io osservo questa donna vestita in modo sobrio, che racconta di come fosse stato inevitabile per lei liberarsi della propria identità sessuale maschile, in particolare del proprio pene. L’unica alternativa, mi dice, era il suicidio. Nella storia di Marie, in quello che racconta parlandoci dalla cattedra di un’aula universitaria o che scrive nel suo memoir, edito da PUF, colpisce il riferimento costante a una sofferenza che non sa trovare soluzione.
Questo dolore inconsolabile ha origini antiche, nell’infanzia. Sua madre non perdeva occasione per ricordargli che fra lui e i due aborti spontanei che lo avevano preceduto non c’era una grande differenza. Anche Marc era un essere mancato. Per lui aveva coniato un nomignolo: “paquet de merde” (pacco di merda, n.d.r). Mentre racconta di questa madre aberrante, Marie trattiene le lacrime e la sua mascella, dall’affilatura maschile, inizia a tremare: un tratto che non riesco più a dissociare dal ricordo che ho di lei. Del resto, il tremore ritorna spesso nel suo racconto: tremava per la tristezza accumulata in gola, a causa degli insulti della madre e per la paura durante le prove di virilità che gli imponeva il padre.
Ascoltandola narrare la sua storia, inevitabilmente, si attende il momento della redenzione, di quando ci racconterà che poi, finalmente, una volta ottenuta l’identità sessuale femminile tanto agognata, si sarà sentita felice. Aspettiamo inutilmente. La vita non ha fatto molti sconti a Marie, e lei non ne fa a chi la ascolta. Ben presto si delinea una traiettoria esistenziale che nel rifiuto dell’identità sessuale di nascita manifesta un dissidio profondo con il proprio sé, che sembra stentare a trovare una reale soluzione, anche una volta risolto “il problema” con la chirurgia. Marie utilizza un’espressione che associamo di default all’esperienza trans, “trovarsi nel corpo sbagliato”, che esprime il conflitto profondo tra il genere del proprio corpo e quello della propria anima. Per affrontare questa dicotomia, per lei la soluzione è stata intraprendere il percorso medico che conduce al cambiamento degli organi genitali esterni. Solo che, come spiega la psicanalista di origini iraniane Gohar Homayounpour nel saggio edito da Mimesis Trans/Vitae, a cura di Lorena Preta, purtroppo molto spesso la delusione post-operazione è talmente forte che il tasso di suicidi si attesta elevato.
L’origine di questa disperazione risiederebbe, secondo Homayounpour, nel vedere sgretolarsi l’illusione che avere finalmente una vagina o un pene perfetti, creati chirurgicamente al posto dei propri organi sessuali di nascita, sbagliati, avrebbe garantito una condizione di felicità assoluta. Invece capita che i nuovi organi genitali non abbiano affatto l’aspetto immaginato e poi, soprattutto, non è così scontato che attraverso questi nuovi apparati sessuali si riesca a raggiungere l’orgasmo facilmente, anzi. Come ripete Marie, il dolore nelle vite di molte persone che sentono il dissidio fra il sesso del proprio corpo e quello della loro anima sta più in profondità del punto a cui il bisturi può arrivare. Per lei, peggiore dell’infanzia atroce che ha vissuto con la madre prima e con le famiglie affidatarie poi è la consapevolezza che quella solitudine che sentiva da bambino in casa con i genitori e poi da ragazzo, di notte, dopo il lavoro nelle discoteche di Parigi, è rimasta identica e intatta, anche ora che la sua carta di identità riporta e certifica un’identità femminile e lei fa la badante in periferia.
Un’espressione che associamo di default all’esperienza trans, ‘trovarsi nel corpo sbagliato’, esprime il conflitto profondo tra il genere del proprio corpo e quello della propria anima.
Certo, come scrive sempre Homayounpour, non è giusto classificare tutti i trans sotto la stessa etichetta: “[…] ciò che dovremmo fare è “sollevare il tetto”, come ci invitò a fare il poeta iraniano Hafez nel quattordicesimo secolo”. Ci sono moltissime testimonianze riportate su riviste più o meno patinate di personaggi dello spettacolo, e non solo, che sono diventate personagge e ammiccano sorridenti e soddisfatte dalle fotografie sexy che le ritraggono: una su tutte, Caitlyn Jenner, già Bruce, campione olimpico, reality star, patrigno delle Kardashian e ora felice icona delle trans privilegiate e repubblicane d’America. Un’immagine in netta contrapposizione, è evidente, con il racconto di dolore e solitudine insanabili che ci fa Marie da una cattedra della Sorbona.
Ancora, tenendo sollevato il tetto, si deve registrare un’altra diversità fondamentale, quella tra transessuali e transgender. I primi, per utilizzare una definizione ampia, ambiscono al cambiamento di sesso, vale a dire che attuano sul proprio corpo trasformazioni chirurgiche e ormonali per diventare uomini se erano donne, e viceversa. I transgender rifiutano il genere che viene associato ai loro caratteri sessuali di nascita, ma non desiderano necessariamente cambiare sesso, bensì liberarsi dall’identificazione con il maschile o il femminile che viene associata ai loro organi sessuali primari: rifiutano l’imposizione per cui avere un pene e una vagina comporta essere considerati uomo o donna, con tutte le conseguenze sociali e culturali che ne conseguono.
Anto, una giovane donna transgender che ho intervistato, mi spiega che molto spesso questo sentimento si tramuta nell’adesione a degli stereotipi di genere. Molti transessuali MTF (acronimo di male to female, da maschio a femmina) finiscono per atteggiarsi a femme fatale, enfatizzando caratteri che sono considerati tipicamente femminili, come la civetteria, la cura per il corpo, l’ossessione di avere sempre un aspetto curatissimo. Mentre gli FTM (female to male), mi spiega Anto, finiscono per fare un po’ i bulletti, atteggiano una camminata più dinoccolata e adottano comportamenti che rimandano a un’idea di maschile retrò, burbero e spiccio.
Per lei, che è stata registrata all’anagrafe con il nome Antonio, al contrario: “se questo percorso ha un obiettivo non è quello di raggiungere un ipotetico punto di perfezione, che coincide con l’incarnare lo stereotipo della donna, ma quello di non dover mettere in scena un’identità di genere pre-fissata.” Il percorso a cui fa riferimento è l’assunzione regolare di estrogeni, che ha iniziato ormai da qualche anno. Non posso fare a meno di chiederle se questa terapia farmacologica abbia influito positivamente sulla sua vita: “Non accettavo la mia identità di genere maschile e adesso che me la sto lasciando alle spalle, con l’assunzione degli ormoni, posso dire che la qualità della mia vita è certamente migliorata.” Anto non riferisce una soddisfazione totale nel rapporto che ha ora con il proprio corpo, che sente ancora come pesante, in alcuni punti, o troppo sottile in altri, ma non fa mai riferimento a un Eldorado a cui approderà, raggiungendo la perfezione e rinascendo come Venere dalla schiuma del mare di Cipro. Ci racconta, però, di come per altri aspetti importanti la sua vita sia davvero migliorata da quando ha iniziato a prendere gli estrogeni.
Molti trans credono sia necessario accettare che il transessualismo sia considerato una patologia, con la presa in carico da parte della mutua nazionale del processo di cambiamento di sesso.
Soprattutto, si è liberata di un segreto che teneva nascosto a tutte e tutti: nei suoi ricordi non c’è un’infanzia particolarmente felice, perché da sempre lei sa di avere avuto un rifiuto per la propria identità di genere maschile, ma non ha mai potuto dirlo a nessuno: “Ho provato a fare coming out con mia madre e mio padre a vent’anni, ma non è andata bene e ho rimesso tutto sotto il tappeto”. L’assunzione di estrogeni ha coinciso con un altro cambiamento di vita importante: Anto ha lasciato il suo impiego in una società di trasporti che sposta merce su strada, ha abbandonato Roma, che non era per lei un luogo sicuro, e si è trasferita a Bologna, dove ha ripreso gli studi. La scelta di lasciare la capitale nasce dalla pericolosità di una città che è spesso teatro di aggressioni omofobe, ma va tenuto conto anche del fatto che Bologna è da sempre meta privilegiata per le persone trans, anche per la presenza sul territorio del MIT (Movimento Identità Transessuale), un’associazione ONLUS attiva da oltre vent’anni. Nel suo racconto, Anto ammette che la sofferenza è stata alla base della scelta di iniziare il suo percorso, ma rispetto a Marie la differenzia il rifiuto dell’idea di essere nata in un “corpo sbagliato”, perché la sua scelta transgender non si fonda sull’idea che aderire all’identità di genere opposta garantisca la felicità.
Questa differenza, che può sembrare relativa solo a un sentire e a un desiderio personali, ha una connotazione politica fondamentale, invece, nella comunità trans, all’interno della quale costituisce un profondo conflitto. Marie e molti altri trans credono sia necessario accettare che il transessualismo sia considerato una patologia: per lei negarlo è assurdo, oltre che ingiusto nei confronti dei cittadini francesi, che hanno contribuito con le loro tasse a permetterle di avere il corpo giusto per la sua anima donna. La pretesa di una presa in carico da parte della mutua nazionale di tutto il costoso, estenuante e dolorosissimo processo che conduce al cambio di sesso non può che passare dall’accettazione, da parte di chi ne usufruisce, di dirsi malati: “la mutua – dice Marie – si occupa di chi soffre: perché avrei dovuto beneficiare dell’assistenza sanitaria pubblica senza ammettere di essere malata anche io?”
Per Anto, invece, bisogna fare le dovute distinzioni. È innegabile, per lei, che siano stati fatti dei grandissimi passi avanti da quando il sistema nazionale sanitario garantisce la possibilità di accedere ai farmaci e non è più necessario, come fino a qualche tempo fa, prendere gli ormoni sottobanco, con tutto quello che comportava, non solo in termini economici, ma anche di rischi per la salute. Quello che Anto rifiuta sono le conseguenze che la medicalizzazione ha in termini di autodeterminazione, cioè il fatto che per la legge italiana il passaggio di genere può avvenire solo se si completa il percorso di medicalizzazione che si conclude con l’operazione chirurgica agli organi genitali (secondo quanto previsto dalla legge 164/1982). “Perché la scelta di cambiare la mia identità sessuale, quindi i documenti di riconoscimento, di iniziare una terapia ormonale o di togliere dei caratteri sessuali femminili secondari, come può avvenire per gli FTM che desiderano l’asportazione dei seni, deve passare dalla decisione di un giudice?” Per lei, questo obbligo di compiere un percorso burocratico-legale per allontanarsi dall’identità sessuale di nascita è una forma di discriminazione. Al contrario, per i transessuali che ambiscono all’operazione, l’intervento esterno, dei medici e delle autorità legali, è l’unico modo per avere la possibilità di accedere completamente alla nuova identità di genere, diventando in tutto e per tutto una donna o un uomo.
Il conflitto all’interno della comunità trans è particolarmente forte, e come sottolinea Anto la conseguenza è che non esiste un movimento trans compatto che lotti per i diritti di autodeterminazione. Lo stesso, per esempio, avviene nel femminismo, infatti si deve parlare al plurale: di femminismi. La complessità divide? Sicuramente, e quando sono in gioco i nostri corpi, i loro desideri e quelli delle nostre “anime” diverse, semplificare è impossibile.