S tiamo attraversando il ponte. Sotto di noi scorre limaccioso, fetido, marrone il Dnestr, così come ci si aspetta dal fiume della regione che, un tempo, era il cuore industriale della Moldavia. All’angolo una ragazza vende noci acerbe, un chiosco offre bibite gassate, sembra una città normale. Ci avvicina un ragazzo sulla trentina, canottiera da cestista e cappellino girato all’indietro. È il matto del villaggio, uno di quei personaggi sciamanici che trovi in ogni paese, ad ogni latitudine. Ci saluta in inglese, rispondiamo in russo. Dice che una volta ha baciato una ragazza europea, finlandese forse, ma lei è partita e non è più tornata. Ci dice che ha fatto un corso di spagnolo, ci saluta con “mucho gusto” e se ne va.
Da un lato del ponte osserviamo il lido locale: una spiaggetta di sabbia importata dove rotolano adolescenti e bambini, e gli adulti cercano di cogliere il poco sole, tutti sorvegliati da una torretta in muratura alta tre piani che non ricorda proprio Baywatch. Dall’altro lato, c’è uno skate park rudimentale, dei ragazzi ci chiedono una sigaretta in inglese ridacchiando di un entusiasmo a noi oscuro, una chiatta più avanti annuncia che sta per partire la crociera sul fiume, prezzo un euro, c’è anche il bar a bordo. Dagli altoparlanti il dj spara Tous les mêmes a tutto volume, la hit del 2014 che recita “appuntamento al prossimo pagamento appuntamento alle prossime mestruazioni”, dove Stromae canta vestito da donna. Viene da pensare che l’austera statua di Lenin che si staglia a duecento metri di distanza, davanti al Soviet Supremo, dove Vladimir Il’ič Ul’janov spalanca il mantello con il braccio sinistro in una posa che lo fa sembrare Batman, ora non stia guardando. Siamo nella Repubblica della Transnistria, de iure terra moldava, ma de facto indipendente dal 1991. Benvenuti a Tiraspol, la sua capitale.
Il termine Transnistria, utilizzato in italiano e in inglese, indica letteralmente le terre “oltre il Dnestr” e tradisce una certa prospettiva, quella che da Occidente guarda ad Est; nella sua denominazione russa, impiegata dagli stessi autoctoni, questa regione si chiama invece Pridnestrovie, cioè la terra “presso il Dnestr”. Di questa terra si parla raramente in Europa Occidentale. Questo staterello incastonato tra Ucraina e Moldavia resta una Utopia, un oggetto esotico non riconosciuto, quale è appunto il suo status a livello internazionale.
Tolti qualche riferimento alla Grande Imperatrice Caterina II, il cui busto troneggia dal 2007 sulla centralissima piazza Suvorov della capitale, o alla Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Moldava (1924-1940), anche la pagina di Wikipedia dedicata al paese si concentra quasi esclusivamente sul conflitto del 1990-1992 e sul conseguente, e travagliato, processo di state-building. Le poche volte che questo mezzo milione di persone si guadagna le pagine Esteri dei vari quotidiani nazionali è perlopiù per questioni geopolitiche. Il fatto che gli unici consolati presenti nel paese siano quelli di Abkhazia e Ossezia del Sud, entità a loro volta non riconosciute, ribadisce laconicamente che per la comunità internazionale la Transnistria non esiste. Sono in tanti a domandarsi fino a quando questo status quo possa essere sostenibile. Diplomaticamente, ma anche sotto il profilo economico: il salario medio è inferiore a 220 euro al mese e la maggioranza dei cittadini sono impiegati statali. Di fatto, la Transnistria è tenuta in piedi da Mosca. Non stupisce che nel 2014 Tiraspol abbia chiesto l’annessione alla Russia, galvanizzata dal precedente favorevole della Crimea nello stesso anno. Dal Cremlino, tuttavia, non arrivò nessuna risposta. La Transnistria, come scrive l’ISPI, non è la Crimea: agli strateghi di Mosca va benissimo tenerla in freezer, una quinta colonna nel giardino di casa dell’UE, allo stesso tempo spina nel fianco per le ambizioni europeiste della Moldavia e caserma strategica al confine con la ribelle Ucraina. In breve, la Transnistria sembrerebbe, più che altro, materiale per tesi di laurea magistrali o per nostalgici di quella falce e martello che tuttora spicca gloriosa sullo stendardo statale. O, al massimo, ricettacolo di aneddoti bizzarri per reporter curiosi.
Scavando nella sua storia, tuttavia, riaffiorano nomi e vicende che permettono di connettere questa landa dimenticata a significati conosciuti. La Transnistria acquisì una triste fama durante la Shoah, quando fu teatro di un genocidio oggi dimenticato. Durante l’occupazione del governo filo-nazista romeno di Ion Antonescu, almeno 200.000 ebrei, rastrellati da ungheresi, tedeschi e romeni soprattutto in Bessarabia, Bucovina e Polonia meridionale, trovarono la morte in Transnistria, secondo lo studioso Julius Fischer. Per quanto riguarda personalità celebri, alcune figure di respiro internazionale sono legate alla Transnistria. In primis, il pittore delle avanguardie Michail Fëdorovič Larionov (1881-1964), ideatore del raggismo e nome di spicco del movimento astrattista, nonché marito e collaboratore di Natal’ja Sergeevna Gončarova (1881-1962), a sua volta pittrice e pronipote di quella Natal’ja Nikolaevna Gončarova che fu moglie di Puškin. L’opera La Zingara a Tiraspol è un omaggio di Larionov alla propria terra natale, allora propaggine meridionale dell’impero zarista, dove tornava in estate per stare con i nonni durante il periodo universitario moscovita. Oggi Tiraspol ricambia con il Café Larionov, dove vengono serviti piatti della tradizione ebrea, russa e moldava, come ai tempi del pittore.
Ci sono poi legami con l’Italia, inaspettati. L’autore e opinionista russo Nicolai Lilin, nom de plume di Nicolaj Veržbickii, è nato a Benderi (Tighina in romeno), la seconda città della Transnistria, dove ha ambientato il suo best-seller Educazione Siberiana, uscito nel 2009. Lilin, la cui accuratezza descrittiva è stata frequentemente messa alla berlina, non a caso suscita scarsa simpatia presso i pochi connazionali che lo conoscono (il libro non è stato nemmeno tradotto in russo). Comunque, la pista più battuta che dalla Transnistria porta all’Italia, per quanto oggi dispersa nei meandri del post-socialismo, è più antica e radicata nell’affinità ideologica. Negli anni d’oro della Guerra Fredda, l’internazionalismo comunista univa i luoghi più improbabili, in marcia verso il sol dell’avvenire. Tiraspol è gemellata con il borghetto pugliese di Carapelle, 7000 anime in provincia di Foggia. Benderi, invece, con Montesilvano (PE) e, soprattutto, con Cavriago (RE). La liason con la cittadina emiliana, a cui è addirittura intitolata una via, è particolarmente speciale: il busto di Lenin che dà il nome alla famosa piazza di Cavriago di cui cantano gli Offlaga Disco Pax in Robespierre fu portato proprio da una delegazione di Benderi.
Oggi, però, i tempi sembrano essere cambiati. È facile farsi trarre in inganno dalle statue di Lenin, dalle vie dedicate a Marx, Liebknecht o Rosa Luxembourg, dal Soviet Supremo o dalle imponenti parate militari. “I giornalisti stranieri fanno il visto di sei ore, arrivano qui con l’articolo già pronto e ci chiedono di confermare quello che hanno scritto, che siamo tutti comunisti, armati di kalashnikov, amiamo Putin e odiamo i moldavi”, ci racconta Dmitri in un inglese impeccabile. Il rapporto con l’eredità comunista in Transnistria è sfumato, complesso come tutte le storie d’amore, passione e lutto. Comunismo, naturalmente, significa Russia, che da queste parti è vista come l’assicurazione sulla vita, il patrono internazionale che permette alla repubblica di continuare ad esistere. Istinto di sopravvivenza, misto al rimpianto della grandeur dell’URSS: nella libreria principale, il ritratto di Vadim Krasnosel’skij, ex-colonnello e presidente del paese dal 2016, campeggia accanto a Putin e Stalin. Ma non è solo Ostalgie. Dopo dieci anni di attivismo, oggi Dmitri lavora come segretario per una ditta di Genova, organizza tour per turisti e gestisce due ostelli: il Lenin Street Hostel e il Red Star. Nomen omen: nel primo abbondano cimeli del tempo che fu, busti in gesso di Lenin e al muro è appeso un cartellone di foto con i viandanti già transitati da lì, tutti in posa a pugno chiuso, alzato verso il passato. “Siete ancora comunisti qui?”, domandiamo. “No, ma diamo una grande importanza a quei simboli. Ricordano un’era, passata ormai, ma che a modo suo ha cambiato il mondo, un’era in cui quei simboli erano riconosciuti da chiunque”.
Nonostante le decine di reportage sul “paese sovietico fermo nel tempo”, quindi, l’impressione è che la memoria del comunismo vada ben oltre nostalgie celebrative e serva scopi molto concreti. Il comunismo è radicato nell’identità della popolazione. Spesso impropriamente descritta come “russa per la stragrande maggioranza”, la popolazione è composta da tre gruppi nazionali principali (moldavi, ucraini, russi), tutti attorno al 30% del totale, a cui si aggiungono varie minoranze. Un crogiuolo di nazionalità impressionante per una regione grande come due terzi del Molise: per la generazione che ha conosciuto l’ascesa e la caduta del comunismo, la memoria dei fasti andati, depurata dai contenuti ideologici, agisce da collante. È un antidoto ai nazionalismi che hanno in forme diverse piagato tutto lo spazio post-sovietico a partire dal 1989, dall’Uzbekistan alla Lettonia. Nessuno crede più ai dettami del Capitale o alla grande rivoluzione proletaria. “Semplicemente noi non sputiamo sul nostro passato”, ribadisce fiera Alla Mel’nichuk, direttrice del museo della storia della Transnistria, nonché autrice dell’inno di Tiraspol, scritto per celebrare i 215 anni dalla fondazione della città.
Sensazionalismi a parte, dunque, cos’è oggi la Transnistria? Un grande villaggio Potëmkin, verrebbe da dire rifacendosi a Caterina la Grande. Dietro la facciata decrepita dipinta di rosso e i simulacri sbrecciati del comunismo, una società consumistica sta freneticamente venendo alla luce. Individualismo, edonismo e tutto l’apparato valoriale della società dei consumi vanno via via diffondendosi, a macchia d’olio, senza incontrare alcuna opposizione sociale o mores antichi che li contrastano. Il sincretismo tra un passato non rinnegato ed un presente visto come ineludibile è la chiave di volta per cogliere l’essenza di questo luogo, a prima vista paradossale. Anche la Transnistria, ormai, accetta il mercato e le sue regole. A riprova di questo, nel 2016 Tiraspol ha accettato di entrare nel DCFTA, la zona di libero scambio tra Moldavia e Unione Europea, attratta dai benefici economici di una pur limitata integrazione europea, vincolandosi così ad implementare tonnellate di legislazione UE per conformare i propri prodotti agli standard e alle normative di Bruxelles. “Imprese statali, kolchoz e sovchoz ormai non ci sono più, nemmeno qui” conferma Alla con un sorriso.
Sarebbe, tuttavia, improprio parlare di libero mercato e concorrenza leale. In Transnistria il capitalismo ha un nome e un marchio molto preciso: Sheriff. Fondata da due ex-poliziotti ad inizio anni ’90, la Sheriff riuscì ad approfittare dello status giuridico incerto del paese per prendersi il monopolio di tutti i business illegali che giravano in Transnistria, dal contrabbando di sigarette al commercio di alcolici. Oggi, uno degli affari più redditizi è quello dei prodotti occidentali, contraffatti o rietichettati per ingannare le date di scadenza. La holding possiede o controlla indirettamente tutto ciò che si muove in Transnistria, politica compresa. Lo stesso presidente Krasnosel’skij è stato responsabile sicurezza della Sheriff dal 2012 al 2015. La corruzione è una delle poche cose rimaste immutate dai tempi sovietici. A ricordare bene chi è lo sceriffo in città ci pensa un edificio maestoso alle porte di Tiraspol: è lo stadio dello Sheriff Tiraspol, imponente cattedrale nel deserto e, paradossalmente, unico stadio omologato Uefa sul territorio moldavo.
Sheriff a parte, che lo spirito d’impresa abbia fatto breccia nei cuori di tutti, nostalgici compresi, lo si scopre cercando da mangiare. Sebbene qualcuno abbia scritto il contrario, a Tiraspol c’è un’ampia scelta culinaria. Prendiamo un caffè annacquato nella più rappresentativa tra le bettole dall’arredo socialista, il Volna (Onda) – busti di Marx, Lenin e Stalin sul bancone incoronati da un banner della Coca Cola – dove scambiamo due chiacchiere con la barista, una sessantenne dallo sguardo sornione. Le chiediamo una foto, ci domanda da dove veniamo. Italia: “Perfetto, io sto cercando marito”, ride e sparisce in cucina.
Ma non si mangia solo comunista qui. Lo confermano i ristorantini dal gusto occidentale, che ammiccano ai passanti che discendono per il centralissimo viale 25 Ottobre. In un abbinamento linguistico quantomeno curioso per italofoni, le insegne dei ristoranti Mafia e Casta svettano fianco a fianco. Poco più avanti, Andy’s Pizza offre un servizio di qualità, area bambini, tagliere di formaggi francesi e birra non filtrata. Qui e alla Dolce Vita, il bar degli studenti dell’Università Taras Shevchenko, affiora alle labbra una parola che proprio non ti aspetteresti di usare nell’ultimo paradiso sovietico del continente: hipster. Ne parliamo con Tat’jana, mangiando uno strudel di pesche proprio in questo bar-panetteria con le scritte in inglese. “Sono il passato e in quanto tale stanno lì senza dar fastidio a nessuno. Immagino che tra 30-40 anni non esisteranno più”, racconta, parlando dei monumenti dell’era sovietica. Per lei, 19 anni, al primo anno di giornalismo, questi relitti fanno solo parte dell’arredo urbano, gusci vuoti dal sapore kitsch su cui scherzare con gli amici.
Con Tat’jana discutiamo di Europa, Russia e libertà di stampa, le aspettative dei giovani. L’Europa non sono Parigi, Roma o Berlino, ma, per lei che appartiene alla sparuta minoranza bulgara della repubblica, è la Bulgaria, dove è andata in vacanza un paio di volte. All’Occidente, per come lo conosce dalla televisione, non invidia valori o cultura, ma strade e pulizia. “Le vostre città sembrano sempre così pulite”, ci dice, lasciandoci lievemente interdetti. Il giornalismo in Transnistria? Angažirovan, asservito, organico. Ci sono solo due canali televisivi, uno statale e uno privato, e la carta stampata non se la passa meglio. “Per lavorare, devi scrivere quello che vogliono. A me non va, ma voglio rimanere a vivere qui, quindi sono disposta a farlo. Altrimenti andrò in Russia”. Anche per i giovani la Russia è indiscutibilmente il faro in termini culturali. Lei legge stampa russa, ascolta musica russa, di inglese mastica solo poche parole. Ne usa una di queste, mentre ci saluta, chiedendoci un selfie.