M ario è morto. Si è suicidato. Devo porle una domanda di rito: volete la restituzione del corpo?” È il legale dell’ONU al telefono con la famiglia di Mario Paciolla, trentatreenne napoletano dipendente della Missione di verifica delle Nazioni Unite in Colombia, trovato esanime il 15 luglio 2020 nella sua abitazione a San Vicente del Caguán.
La salma di Paciolla è tornata in Italia il 24 luglio 2020. È arrivata la valigia fatta da lui che dalle ultime comunicazioni con i genitori Anna e Giuseppe era deciso e pronto a rientrare a Napoli da vivo. Le lettere di condoglianze pervenute ai famigliari dall’ONU, tra le quali quella firmata da Carlos Ruiz Massieu, Rappresentante Speciale del Segretario Generale per la Colombia e Capo della Missione di verifica delle Nazioni Unite nel Paese, sottolineano la competenza, la dedizione e le prestazioni di Paciolla definite eccellenti. Le missive celebrano il “contributo di grande valore”, il “segno indelebile” e “l’ispirazione profonda” lasciate dal giovane nel suo luogo di lavoro.
Dopo queste missive formali da parte delle Nazioni Unite è calato l’assoluto silenzio nei confronti delle richieste dei famigliari sulla vicenda, mentre veniva dichiarata ai media la collaborazione con le autorità giudiziarie competenti per fare piena luce su questa morte violenta tuttora priva di spiegazioni.
La lista degli effetti personali di Paciolla, rimpatriati in Italia dall’Organizzazione, è stata scritta con un pennarello su un cartone, dove alla rinfusa c’erano: scarponi sporchi di fango, libri, ventilatore, cinture, bilancia, amaca, zanzariera e altri oggetti.
L’ONU ha classificato da subito la morte come self-inflicted, ma genitori di Mario Paciolla hanno sempre ritenuto priva di qualsiasi fondamento l’idea che si sia tolto la vita. Attendevano il ritorno del figlio in Italia, ma lui non è riuscito a salire sull’aereo che il 20 luglio 2020 lo avrebbe riportato da Bogotá a Napoli con uno scalo a Parigi. Ad agosto del 2020 sarebbe scaduto il contratto di Paciolla con l’ONU. Perché un giovane, descritto da chiunque l’abbia conosciuto nel lavoro e lontano dall’ambiente professionale come una persona appassionata, vulcanica, vitale e competente avrebbe deciso di impiccarsi, dopo essersi inferto delle ferite ai polsi, a pochi giorni dal decollo con tutte le pratiche per il viaggio già espletate? A questa domanda nessuno ha saputo rispondere. Finora non sono emersi argomenti solidi che avvalorino il suicidio.
Questo articolo è in grado di ricostruire in esclusiva parte delle comunicazioni che Paciolla ha mantenuto con alcune delle persone a lui più vicine fino ai giorni antecedenti alla morte. Ma è innanzitutto necessario dare un ritratto nitido della sua figura e del suo intenso impegno in Colombia.
Paciolla era ben consapevole del contesto in cui agiva. Nel gennaio del 2015 aveva intrapreso un percorso annuale di formazione con l’ONG canadese Peace Brigades International, il cui intervento è radicato nel Paese. Nel gennaio del 2016 Paciolla si trovava a Valladolid in Spagna per l’ultima fase di preparazione verso la Colombia con PBI. Il 31 marzo 2016 arrivò a Bogotà: PBI l’aveva selezionato per un contratto di lavoro biennale. Nei primi mesi, il 6 luglio 2016, seguì anche l’apertura della prima della Università della pace a Rio Naya, incontrando campesinos, afrodiscendenti, indigeni.
Da parte delle Nazioni Unite è calato l’assoluto silenzio nei confronti delle richieste dei famigliari sulla vicenda.
Durante questa esperienza l’ONU lo cercò e contattò due volte in qualità di osservatore internazionale. Nell’agosto del 2018 decise di accettare il contratto proposto ed entrare nella Missione di verifica delle Nazioni Unite.
Nell’incarico di supervisione dell’effettiva concretizzazione dell’accordo di pace, Mario si occupava in particolar modo di uno dei punti previsti: il reinserimento degli ex guerriglieri FARC nella società civile. Fra i progetti a cui ha dato il proprio apporto c’era la creazione di una squadra di rafting. Si era adoperato per produrre le dovute garanzie e documenti alle persone coinvolte. Seguiva come figura di garanzia i programmi di reintegrazione nei territori affidati agli ex combattenti che, abbandonate le armi, erano diventati anche agricoltori.
In particolare Paciolla era interessato alla complessità dello scenario politico e sociale della Colombia nella fase delicatissima dell’implementazione dell’accordo di pace. Il Sistema Integral de Verdad, Justicia, Reparación y No Repetición, nato nell’ambito degli accordi del 2016 tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – FARC con l’intenzione di mettere per la prima volta le vittime al centro di un percorso inedito di riconoscimento delle perdite subite nel conflitto lungo cinquant’anni e di riconciliazione attraverso l’accertamento della verità e l’applicazione della giustizia definita riparativa. L’obiettivo più ambizioso, insieme al valore dell’ascolto delle vittime e della dignità a loro restituita, consiste nello spezzare la ciclicità della violenza che in Colombia ha ragioni economiche e politiche strutturali.
La sua libreria personale è ricca di studi sul tema e scriveva sull’argomento per testate di geopolitica. Lo inorgogliva ed emozionava di far parte del processo in divenire del Paese. Coloro che da cinque anni sostengono l’implementazione degli accordi di pace, la difesa dei territori e lottano per condizioni di vita più eque sono nel mirino dei padroni del terrore in Colombia.
Che cosa implica essere protagonisti del processo di pace e costruzione di una nuova società che unisce generazioni e avrà bisogno della costanza di altre generazioni per il pieno compimento? Il suo non era solo un lavoro ma una condizione esistenziale. L’incarico era una missione: restituire con la verità la dignità alle vittime. Paciolla non credeva a chi gli diceva che la guerra in Colombia non sarebbe mai finita. Il suo impegno delicato sul campo mirava a garantire il progresso dell’attuazione della pace. Doveva e sapeva guadagnarsi la fiducia degli interlocutori per compiere un percorso così lento e faticoso.
In qualunque Paese arrivasse, Paciolla cercava di diventarne parte, perché non voleva sentirsi uno straniero. Aveva sete di conoscere le città, le persone, l’anima di ogni luogo attraverso le differenti manifestazioni culturali: lo considerava un modo d’inserirsi nella società. Non era una persona chiusa. S’intratteneva con chiunque gli aprisse degli orizzonti culturali. Assaggiava tutti i cibi. Voleva vedere i più bei posti possibili. Parlava non soltanto con coloro che avrebbero potuto essergli utili. Nelle strade di Bogotà si fermava per una parola di conforto anche con i più poveri e soli.
Voleva bene alla Colombia in cui ha viaggiato moltissimo. Lo affascinavano la complessità delle lotte sociali e ambientali che caratterizzano la realtà colombiana. Come scriveva nei suoi articoli, in Colombia la violenza è un sistema, non un elemento: continua a essere una componente sostanziale della vita politica, economica e sociale in uno Stato militarista. E la militarizzazione, anche privata, e la permanenza stessa della guerra, sono funzionali a filiere economiche come il commercio di armi, il narcotraffico, l’estrazione mineraria illegale, il latifondismo e l’usurpazione delle terre.
A Bogotà il suo locale preferito era il Rincon Cubano, perché si narra che lì si siano tenuti i primi incontri e dialoghi informali legati agli accordi di pace del 2016. Paciolla voleva stare dove si compiva la Storia. Seppure non parlasse dei dettagli del suo lavoro, verso la fine della sua vita ha fatto trapelare con persone a lui vicine della delusione e della stanchezza riguardanti la sua attività nella Missione delle Nazioni Unite.
Nei mesi segnati dallo scoppio della pandemia Mario ha vissuto in lockdown. Aveva approfittato della situazione per concentrarsi sullo studio e in particolare sul perfezionamento del francese. Infondeva coraggio a chi si preoccupava dell’emergenza sanitaria, nonostante lo spazio in cui abitava fosse tutt’altro che confortevole nella condizione di restrizione.
La militarizzazione è funzionale a filiere economiche come il commercio di armi, il narcotraffico, l’estrazione mineraria illegale, il latifondismo e l’usurpazione delle terre.
Nella prima pagina della sua copia de La porta proibita di Tiziano Terzani appuntò: “Quarantena da Coronavirus, 21/04/2020”. L’ultima lettura della sua vita è stata La banalità del male di Hannah Arendt: questo suo libro è pieno di annotazioni e riflessioni sul testo scritte a penna. Amava molto studiare, leggere e scrivere con accuratezza come chi non si arrende alla scomparsa degli atti. Immaginava nuovi progetti. Aveva cominciato a rielaborare la tesi di laurea sull’India in vista di una possibile pubblicazione. Non usciva perché era spaventatissimo dal Covid, che ha colpito duramente la Colombia a livello sanitario e socioeconomico. Si è mosso in rarissime occasioni per emergenze di lavoro. Stava anche smettendo di fumare.
Il punto di non ritorno della sua esistenza pare essersi materializzato fondamentalmente in una giornata. Fino al 9 luglio 2020, almeno all’esterno, non fece intravedere nulla di preoccupante e allarmante. Non c’erano segnali specifici. Nella testimonianza di persone a lui prossime manifestò il malessere nei confronti del proprio gruppo di lavoro, la volontà di cambiare e andarsene. Il 9 luglio è stato il primo momento in cui prefigurò il ritorno in Italia. Dal tono delle conversazioni e dal volto apparve molto giù di morale, triste. Ma non si comprende se avesse chiara la dimensione di un rischio grande che correva.
Due domande sottolineano i genitori per determinare innanzitutto lo stato di tensione che aveva spinto il figlio a voler interrompere la collaborazione con la Missione: “Che cosa è successo, cosa ha saputo, cosa ha visto Mario esattamente il 9 o 10 luglio, con chi ha discusso all’interno dell’organizzazione e perché?”. Non c’è traccia del movente dell’eventuale gesto estremo commesso dal giovane.
Era stranissimo vedere Mario di cattivo umore. Secondo quanto è possibile ricostruire tutto ciò si è innescato dopo l’incontro di Florencia, un meeting, ritiro e ritrovo con i propri colleghi tenutosi nella ultima settimana di giugno 2020. Non era una riunione ufficiale. Era un modo che l’ONU aveva trovato per far uscire il proprio personale da San Vicente del Caguán, quando erano ancora in vigore le restrizioni dovute alla pandemia. Durante questo meeting qualcosa si ruppe. Esplose il malcontento di Mario anche rispetto ai colleghi e più in generale all’organizzazione.
Il 9 luglio di ogni anno Mario era solito rivedere e celebrare la vittoria della nazionale italiana del Mondiale di calcio del 2006. Lo fece anche quel giorno seppure fosse di tutt’altro stato d’animo. Il 10 luglio mostrò una profonda preoccupazione per i forti dissidi e la rottura interna con il proprio gruppo di lavoro. Sembrava voler chiudere qualsiasi legame con la Colombia, annunciando la partenza verso l’Italia alle persone più care.
Nel cuore della stessa notte colombiana Mario allertò i genitori. La loro attenzione si concentra sugli ultimi cinque giorni di vita: “L’undici luglio, era un sabato, in un orario insolito, Mario ci ha telefonato e raccontato di aver avuto una discussione con alcune persone dell’Organizzazione, di essersi messo in un guaio ed era molto preoccupato”. Nei giorni seguenti aumentò la frequenza dei contatti con la famiglia. La decisione assunta da Mario di rientrare in Italia era definitiva: “Ci disse che voleva abbandonare la missione nell’immediato. Preparava i documenti necessari. In queste telefonate ha alternato momenti di serenità ad altri di forte timore. Senza giri di parole, ci ha detto che avrebbe portato con sé poche cose, anche se non sarebbe mai più tornato in Colombia, tantomeno con l’ONU”.
Mario Paciolla, che aveva chiuso il conto con la banca, sentì i genitori alle 00.30 italiane del 14 luglio, quando acquistò il biglietto aereo per il 20. Successivamente la madre gli mandò un ultimo messaggio alle 6 del mattino del 15 luglio prima di andare a lavorare, mentre il padre alle 11. Da lì è sceso il silenzio. Questi messaggi WhatsApp dei genitori non furono visualizzati. Fino alle 18.30 non ricevettero alcuna comunicazione. Ore dopo l’avvenuto decesso, quando il ministero degli Esteri, il Console e l’Ambasciatore italiano in Colombia erano ancora all’oscuro del tutto.
Che cosa è successo, cosa ha saputo, cosa ha visto Mario esattamente il 9 o 10 luglio, con chi ha discusso all’interno dell’organizzazione e perché?
La mattina del 15 luglio lo avrebbero dovuto prelevare dalla sua abitazione a San Vicente del Caguán il rappresentante della sicurezza della Missione ONU Christian Leonardo Thompson Garzón e una collega, per portarlo a Florencia dove avrebbe preso il volo per Bogotà. Paciolla avrebbe trascorso cinque giorni nella Capitale prima della partenza definitiva per l’Italia. Al loro arrivo Mario non diede cenni. La collega, che si sarebbe fatta dare le chiavi dal padrone di casa, è stata mandata a controllare perché Mario non rispondeva più e lo ha ritrovato morto impiccato.
Un’istanza fondamentale, posta da Anna e Giuseppe Paciolla, rappresentati dalle avvocate Alessandra Ballerini ed Emanuela Motta, riguarda l’alterazione della scena del decesso: “Perché è stato consentito a Thompson Garzón, il giorno dopo del ritrovamento del corpo, di recarsi nell’appartamento e ripulire con la candeggina, dichiarando poi di aver gettato in discarica tutti gli oggetti presenti sulla scena del crimine e quindi eliminando prove importanti per l’indagine?”.
I genitori di Mario hanno firmato e sporto denuncia, depositata in Colombia, nei confronti di due funzionari delle Nazioni Unite, tra cui lo stesso Thompson, e quattro poliziotti colombiani. La denuncia è per occultamento, alterazione e distruzione di prove. Nel caso dei due funzionari riguarda anche per la violazione di domicilio e l’usurpazione di funzioni pubbliche.
Dopo due anni la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione della indagine relativa alla morte di Paciolla. I p.m. Romani, dopo aver aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti, e non avendo ottenuto elementi concreti a verifica di questa ipotesi, hanno stabilito che la strada più accreditata resta quella del gesto volontario. I legali dei famigliari hanno già depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione, chiedendo la prosecuzione delle indagini preliminari e si attende la pronuncia del giudice.
La passione di Mario Paciolla era il giornalismo, voleva occuparsi di politica estera. Era iscritto come pubblicista all’Ordine dei giornalisti della Campania. Dopo l’Erasmus a Parigi aveva contribuito alla nascita di Cafèbabel a Napoli, dove aveva conseguito la laurea triennale in Lingue e culture comparate, e successivamente la magistrale in Relazioni e istituzioni dell’Asia e dell’Africa nel Dipartimento di scienze umani e sociali presso l’Istituto Orientale. Entrambe con il massimo dei voti e la pubblicazione delle tesi.
In Colombia scriveva moltissimo. Negli ultimi anni aveva firmato numerosi articoli, analizzando la situazione del Paese, per varie testate giornalistiche con lo pseudonimo di Astolfo Bergman. In questa storia segnata dalla scomparsa degli atti non sono stati ancora restituiti i quaderni e le agende di Mario che consentirebbero di entrare nei dettagli della sua quotidianità colombiana e che probabilmente aiuterebbero a conoscere il contesto e i motivi della sua tragica fine.
Tutte le illustrazioni sono di Mauro Biani.