N el 1994 GeoCities è il primo prototipo di social network basato sull’idea che il modo in cui viviamo e interagiamo all’interno dello spazio digitale è particolarmente simile al modo in cui viviamo e interagiamo all’interno dello spazio urbano. Con largo anticipo sul metaverso, negli anni Novanta GeoCities propone un modello di socialità online basato sulla metafora di una comunità cosmopolita che si muove nello spazio per esplorare l’ambiente circostante e l’eterogeneo prisma di persone che lo abitano, in un costante pellegrinaggio negli interessi altrui.
Attraverso il servizio di hosting, ogni utente può costruire la propria webpage e “risiedere” all’interno di un quartiere, scegliendo la propria città d’appartenenza in base al macro-tema rappresentato da quell’area urbana. Su GeoCities, infatti, ogni area tematica corrisponde a una metropoli reale ed è associata a un interesse archetipico di cui quel capoluogo è, in qualche modo, simbolo. Hollywood è il nome dello spazio dove costruire la propria pagina personale se si è appassionati di cinema, Atene è il posto ideale per gli amanti di temi come la filosofia e l’educazione, Nashville la meta perfetta per gli appassionati di musica folk. Non è un caso che il progetto dovesse inizialmente chiamarsi Beverly Hills Internet: un epicentro di svago, una vetrina per i molteplici, e spesso eccentrici, interessi degli utenti, un posto dove una nuova generazione di cittadini della modernità può proliferare contaminando e personalizzando ogni angolo reso disponibile, un posto per Netizens.
Oggi Geocities non esiste più e il significato originale del termine Netizen si è deformato negli anni, passando dal definire una ristretta cerchia di utenti attivamente impegnati a contribuire allo stato di Internet come risorsa intellettuale e sociale a descrivere qualsiasi utente connesso al web, lurkers compresi. Ciò che è rimasto è la propensione ad assimilare la struttura degli spazi online a quella di un ambiente fisico: l’esempio di GeoCities è interessante perché mette in luce come la metafora spaziale sia da sempre servita, all’interno del web, a orientare il comportamento degli utenti online. Se negli anni del successo del servizio di hosting l’idea di Internet come una città viveva attraverso l’immagine di un melting pot digitale o di una piazza telematica di scambi peer-to-peer, i social network di ultima generazione sono invece stati spesso associati all’idea di un centro commerciale, un ambiente iper-commercializzato e privatizzato dall’industria tech, dove il cittadino è trasformato in un consumatore spinto non più da dinamiche aggregative comunitarie, ma da relazioni puramente mercantili.
Oggi, però, entrambi i modelli sembrano obsoleti per descrivere ciò che siamo diventati online. Nel Web 2.0 che si prepara alla sua prossima iterazione, l’utente non è più solo un cittadino in cerca di servizi e scambi online, né esclusivamente un consumatore pronto all’acquisto del prossimo articolo. È un produttore di immagini, un creator che genera rappresentazioni di sé stesso e del mondo che lo circonda. Anche l’interfaccia delle piattaforme è cambiata. Le funzionalità proposte dai social network sfruttano ancora metafore per stimolare una specifica condotta, solo che al posto delle città, dei quartieri e degli indirizzi, ci sono l’archivio dei ricordi, i caroselli-diapositive, le storie, le vibes. Oggi l’accento non è più sugli spazi, ma sull’esperienza che si fa degli spazi. Nell’incontro con la mercificazione di ogni angolo virtuale, il cittadino di Internet si è sublimato in un attore che produce infinite rappresentazioni della propria esperienza introiettando alla perfezione il linguaggio del consumo. Non è più un Netizen, è un turista del web.
La metafora spaziale è da sempre servita a orientare il comportamento degli utenti online. Oggi l’accento non è più sugli spazi, ma sull’esperienza che si fa degli spazi.
Nel suo saggio del 1976, Il Turista. Una nuova teoria della classe agiata, l’antropologo Dean MacCannell definisce “turistico” quell’ambito della società che segna il punto di incontro tra lo scambio di osservazione umana e lo scambio commerciale. Secondo MacCannell il turismo non è solo una delle più importanti industrie dell’economia occidentale, ma è soprattutto un rituale collettivo, figlio del tempo libero di massa, la cui principale funzione è riprodurre l’esperienza della società stessa attraverso la pratica del sightseeing (la visita alle attrazioni turistiche), in un processo di presa di coscienza di sé e delle proprie differenze strutturali. Da questo punto di vista, il turismo è prima di tutto un’esperienza pedagogica che agisce a livello identitario sull’individuo e sulla collettività. Ogni attrazione turistica è il frammento di un racconto che contribuisce alla costruzione di una rappresentazione culturale precisa e accattivante della società moderna. Il turismo organizza questi frammenti in un flusso di impressioni simboliche che ci aiutano a mappare il mondo e a conferire una personalità alle sue diverse aree, sia a livello globale che locale.
In un meccanismo molto simile a quello proposto da GeoCities, ogni città (regione, stato o continente) è rappresentata da un insieme di associazioni che ne mettono in luce le qualità uniche. Se nel servizio di hosting Hollywood è l’emblema del cinema e, quindi, luogo d’approdo per appassionati e cultori di quello specifico interesse, così nel sistema turistico ogni città si presenta come un’entità con una proposta di valore esemplare. Roma, ad esempio, è la città della romanità, un’essenza unica di cui il turista può fare esperienza solo visitando determinate attrazioni: i Fori Imperiali, il Colosseo, il Vaticano, ma anche le trattorie con le tovaglie a quadri, il mercato di Campo ‘de Fiori. Roma è un caso interessante perché, come succede per tutte le grandi città, fanno parte della sua identità anche elementi molto diversi tra loro, che provengono da momenti storici e culturali eterogenei ma ugualmente importanti per la cristallizzazione di un immaginario turistico affascinante, e quindi commercializzabile.
Nelle svariate rappresentazioni turistiche che circolano sulla capitale italiana, l’Antica Roma dialoga con la Roma di Fellini, con quella di Alberto Sordi e di Pasolini, con la Roma di Bernini e con la Roma fascista, come in un grande parco a tema costruito ad hoc per permettere al suo pubblico di assaporare il perfetto remake di un particolare clima culturale ed estetico. Da questo punto di vista, la turistificazione non è altro che un sistema di riduzione storico-culturale attraverso cui il turista fa esperienza del mondo: il Colosseo diventa simbolo per eccellenza di Roma, così come Roma si fa simbolo dell’Italia e l’Italia dell’Europa meridionale.
Per MacCannell, questo sguardo sul territorio, questa capacità di semplificazione e di autorappresentazione identitaria, costituisce il moto più intimo della società moderna occidentale: in un contesto sempre più frammentato e alienato, l’individuo visita il mondo attraverso le sue rappresentazioni per riscoprirne la storia e le relazioni come farebbe in un museo. Per permettere al visitatore di accedere a questa forma di comprensione, il turismo trasforma il mondo in un parco tematico che mette in scena la società attraverso uno storytelling basato su un’accurata selezione di archetipi, un linguaggio universale che facilita la lettura territoriale e permette al turista di fare esperienza del nuovo e del diverso in un contesto preconfezionato. Quando un turista visita Roma, infatti, quel che si aspetta è esattamente quella romanità sceneggiata dal sistema turistico, la cui idea pre-esiste nella mente del visitatore e alimenta il suo immaginario geografico prima ancora di decidere se affrontare il viaggio.
Internet oggi è lo spazio dove le stesse dinamiche che nutrono l’industria turistica diventano criteri essenziali per la partecipazione alla vita online.
Per dirla con le parole di Kevin Hannam e Dan Knox nel loro Understanding Tourism: A Critical Introduction (2010): “L’idea che l’Estremo Oriente sia esotico, che la Scozia possieda un’antica cultura celtica, o che l’Australia sia il paradiso degli appassionati di surf sono tutte banali modalità di comprensione di potenziali destinazioni turistiche. Tale banalità è il risultato della circolazione di queste rappresentazioni stereotipate attraverso molti mass media per un esteso periodo di tempo.” Mentre MacCannell scriveva Il Turista, il panorama dei media era profondamente diverso da quello che conosciamo oggi, ma l’idea che, per consolidarsi, la rappresentazione identitaria avesse bisogno di un sistema di informazioni pronto a reiterare il suo messaggio era già ben chiara. Quelli che lui chiama marker, infatti, non sono altro che il flusso di informazioni turistiche che circola attorno a una determinata attrazione e che contribuisce a veicolarne la personalità e l’importanza. Guide, targhe commemorative, brochure ma anche souvenir, aneddoti e fotografie scattate dai turisti stessi. I marker sono alla base della storia raccontata dal turismo e ne permettono la longevità adattandosi nel tempo per accogliere nuovi linguaggi e strumenti di narrazione: la guida Baedeker nell’Ottocento, Tripadvisor negli anni Dieci del Duemila, Instagram oggi.
Internet oggi non è solo il principale strumento di promozione degli immaginari turistici (dagli articoli SEO con lunghe liste di attrazioni must-see ai reel degli utenti che invitano a scoprire angoli inesplorati di una determinata meta), ma è anche lo spazio dove le stesse dinamiche che nutrono l’industria turistica diventano criteri essenziali per la partecipazione alla vita online, in un processo di costante essenzializzazione e semplificazione dell’identità territoriale, collettiva e individuale.
Le vibes, attraverso cui gli utenti collezionano immaginari e cercano di incapsulare atmosfere e stati d’animo, finiscono inevitabilmente per selezionare gli elementi più convincenti e scartarne altri, contribuendo a creare una narrazione dominante molto simile alla lettura per inferenze operata dagli algoritmi. L’accademica Robin James ha definito “capitalismo delle vibes” esattamente questa tendenza: il sistema socio-economico crea differenziazioni separando gli elementi più convincenti e redditizi da quelli che non lo sono, finendo per costruire un modello da cui tutto ciò che non è assimilabile è sistematicamente escluso. Le vibes normalizzano questo rapporto di subordinazione così come il processo di staged authenticity individuato da MacCannell, ovvero la reiterata messa in scena da parte di un luogo della sua personalità turistica, normalizza la brandizzazione delle città a danno della vita sociale ed economica dei locali.
C’è un video virale su Instagram che spiega molto bene questo processo: una ragazza di spalle ammira il sole sorgere sull’isola di Santorini godendo di un panorama privilegiato sulla costa. Il villaggio illuminato dalla prima luce del giorno è ancora deserto, le abitazioni tradizionali bianche e blu si stagliano sulla liscia superficie del mare cristallino, l’atmosfera è magica. D’un tratto la fotocamera ruota su sé stessa per svelare il backstage del video: una folla di turisti è stipata in un vicolo in quella che sembra una fila per accedere alla stessa vista privilegiata di cui gode la ragazza. I visitatori hanno le facce stanche e assonnate, si massaggiano le gambe indolenzite e si sistemano i vestiti in attesa del proprio turno, durante il quale riprodurranno lo stesso identico video che, una volta pubblicato sui social, rappresenterà quel momento di autentica bellezza della loro vacanza a Santorini, quelle summer vibes a uso e consumo degli utenti di tutto il mondo. Nell’Internet delle piattaforme, la staged authenticity smette di essere uno strumento a uso esclusivo di aziende e istituzioni territoriali per diventare un elemento fondamentale di espressione individuale, così come la branding aziendale si è evoluta nella branding personale di ogni utente online.
Le ‘vibes’, attraverso cui gli utenti collezionano immaginari e cercano di incapsulare atmosfere e stati d’animo, contribuiscono a creare una narrazione dominante molto simile alla lettura per inferenze operata dagli algoritmi.
Si potrebbe affermare allora che la turistificazione è una particolare forma di brandizzazione, un modo di esprimersi del capitalismo ai tempi della leisure class, un linguaggio che l’Occidente ha imparato a padroneggiare con disinvoltura e che oggi costituisce la nuova lingua franca dell’individuo moderno, sia online che offline. Se è vero quello che dice MacCannell, ovvero che lo sguardo turistico coincide con lo sguardo dell’uomo moderno, allora non può che coincidere anche con lo sguardo dell’uomo moderno nel web. Le città digitali, ovvero i luoghi di aggregazione come piattaforme e social network, sono diventate prima centri commerciali per poi assumere le sembianze e le proprietà di veri e propri parchi tematici, duplicazioni del reale dove “esperienza” è la parola chiave che guida l’utente attraverso un flusso di immagini in competizione tra loro per guadagnare l’attenzione, convincere alla visita e stimolare la produzione di ulteriori repliche, remake di un’autenticità impossibile da catturare ma facile da vendere.
È la mercificazione dell’aura di cui parla Marco d’Eramo nel suo Il selfie del mondo (Feltrinelli, 2017). D’Eramo è d’accordo con MacCannell quando osserva che l’aura accordata da Walter Benjamin alle opere d’arte non muore una volta che iniziano a circolare riproduzioni delle stesse. Al contrario, l’aura è le riproduzioni. L’autenticità è tale proprio in virtù dell’esistenza dell’inautentico ed è questo rapporto che alimenta il paradosso turistico in cui una rappresentazione per offrirsi come autentica alla massa deve necessariamente corrompere la sua natura. E mentre il retroscena non può essere svelato perché continua a rivelarsi l’ennesimo frontstage turistico camuffato da ribalta inesplorata (l’esperienza di autenticità sceneggiata a Santorini), la peculiare relazione che si instaura tra il sistema economico e lo sguardo umano, tra scambio di osservazione e scambio commerciale, produce una nuova forma di mercificazione feticistica, dell’aura o delle vibes, di cui gli utenti sono al tempo stesso consumatori e creatori.
In un altro passaggio del suo saggio d’Eramo cita Enzensberger: il turismo è quella industria in cui la produzione e la promozione coincidono, i suoi consumatori sono allo stesso tempo i suoi impiegati. C’è solo un’altra industria dove l’immagine coincide così bene con il prodotto e il consumatore con il lavoratore (meglio ancora se freelance o volontario) ed è il web delle piattaforme. Se provassimo a rileggere una buona parte del saggio di d’Eramo pensandolo come un saggio sulle trasformazioni dello spazio digitale nel capitalismo delle vibes rimarremo sorpresi dalla quantità di osservazioni illuminanti che potremmo trarne: la zonizzazione come pratica di divisione delle masse e di facilitazione del mercato, la compenetrazione tra alienazione ed escapismo, la nostalgia come semiotica dell’esistenza, i modelli di comportamento come forma di ipervigilanza e, non da ultima, la perdita della collettività. Tutti elementi che da anni rappresentano cardini centrali attorno a cui si sviluppa il discorso critico sul digitale.
A questo punto del ragionamento ci si aspetterebbe la proposta di un modello eversivo da quello descritto finora o, quanto meno, di una serie di pratiche di resistenza al “turistico”. Negli anni, la critica che si è confrontata con il problema dell’utente-cittadino ha spesso individuato nel flâneur la figura salvifica per evadere dal copione della brandizzazione e hackerare gli spazi urbani e digitali confondendosi nella folla. Eppure il flâneur non è altro che l’ennesimo turista, se non quello più adatto a descrivere l’alienazione dell’utente-cittadino isolato. Come scrive d’Eramo, ognuno è insomma “turista nella propria città: a dimostrazione di quanto sia radicata nell’esperienza del moderno questa forma di percezione del mondo. E come oggetto dello sguardo flâneur possono essere gli altri flâneurs che incrocia, così il turista del River Walk guarda come attrattive turistiche altri turisti, essendone ricambiato. Il Tour del ‘tourista’ è così completato e ritorna su se stesso.”
Il rischio più grande non è continuare a essere turisti della società, ma trasformarci nelle sue ennesime attrazioni.
La turistificazione degli spazi è diventata allora la turistificazione dell’esistenza, un rituale che attraversa l’esperienza umana, reale e virtuale, trasformandoci in individui isolati insieme in uno spazio sempre più contraffatto, una realtà che imita la finzione, un Beverly Hills Internet nel metaverso. In questo panorama, il rischio più grande non è continuare a essere turisti della società, ma trasformarci nelle sue ennesime attrazioni.