D al 2015 a oggi i titoli di serie dedicate a fatti di cronaca e a casi giudiziari reali si sono moltiplicati in maniera esponenziale, divenendo una parte fondamentale dell’offerta dei principali operatori SVOD, in primo luogo Netflix. Il successo negli Stati Uniti di The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst (Andrew Jarecki, 2015) e Making a Murderer (Laura Ricciardi e Moira Deimos, 2015), distribuite rispettivamente da HBO e da Netflix, può essere considerata la prima tappa di un fenomeno che si propone come una congiunzione tra il cinema documentario di genere true crime e le forme narrative della serialità televisiva e post-televisiva.
Le espressioni composte docu-serie e true crime tengono assieme due polarità, per molti versi, contrapposte: i prefissi docu e true segnalano, almeno in via programmatica, un’adesione al reale apparentemente estranea alla rappresentazione del crimine nelle serie tv crime. Lo spettatore di una serie crime, sia di una detection sia di un procedural, ha delle aspettative precise, basate sulla ripetizione di uno schema già noto: il racconto dovrà alimentare la curiosità dello spettatore rispetto al delitto, dovrà disseminare i suoi sospetti tra più ipotesi di colpevolezza e, infine, dovrà dare una risposta definitiva, risolvendo il caso. Mentre i meccanismi della serialità televisiva crime dipendono dall’immaginazione degli sceneggiatori, dalla loro capacità di creare un universo narrativo verosimile e coerente, l’approccio documentario al crimine nel cinema è determinato non dalla scrittura, ma dall’incontro dei filmmaker con la realtà drammatica e misteriosa del crimine; questa realtà problematica non offre un modello, un pretesto o uno spunto narrativo al film, ma ne diviene il suo stesso contenuto.
Alcuni documentari non offrono allo spettatore delle risposte, piuttosto lo costringono a interrogarsi su dei problemi socialmente rilevanti. Nella prospettiva performativa, il documentario presuppone un’attitudine sincera del soggetto responsabile della rappresentazione e una disposizione dello spettatore a confrontarsi con questioni che lo interpellano come soggetto sociale, come cittadino. L’impegno conoscitivo e politico del cinema documentario invita lo spettatore a prendere posizione nello spazio pubblico in base a una rappresentazione credibile, a un’azione testimoniale delle realtà sociale, specialmente laddove, come nel caso del crimine, essa è segnata dall’ingiustizia e dalla sofferenza dell’essere umano.
Luc Boltanski, nella sua analisi della rappresentazione mediatica del dolore, opera una distinzione tra tre tipi di spettatore nell’era dei mass media: lo spettatore indifferente, lo spettatore egoisticamente interessato e lo spettatore morale. Il sociologo francese deriva quest’ultima figura dalla teoria morale di Adam Smith. Riprendendo il punto di vista espresso dal filosofo scozzese in The Theory of Moral Sentiments, Boltanski afferma che “la relazione tra un infelice e uno spettatore imparziale” può “nutrire l’immaginazione valutativa” del pubblico e determinare “una convergenza di giudizi tra più osservatori che guardano il medesimo oggetto”, producendo effetti positivi sull’opinione pubblica.
Il true crime si basa sull’esibizione dell’orrore e delle deviazioni umane e ha come effetto principale quello di produrre e organizzare le paure sociali del pubblico.
La rappresentazione documentaria del crimine sembra interpellare lo spettatore morale individuato dal sociologo francese o, meglio, una sua declinazione più specifica, quella dello spettatore responsabile. I film che riescono in questo non hanno, infatti, come obiettivi primari l’intrattenimento o la trasmissione neutrale di informazioni al pubblico, ma piuttosto la sua sensibilizzazione, cioè la creazione di legami simpatetici tra i soggetti rappresentati e lo spettatore. Nel sentire comune il true crime televisivo, a differenza di quello cinematografico e ancor prima di quello letterario, sembra, invece, appartenere integralmente e problematicamente alla sfera dell’intrattenimento popolare. Mark Seltzer e Anita Biressi hanno evidenziato l’ambiguità dei prodotti true crime all’interno dell’industria dell’intrattenimento angloamericana. Nel testo True crime: Observations on Violence and Modernity Seltzer definisce il true crime un oggetto ibrido – “un crimine reale che sembra crime fiction” – e ne approfondisce i risvolti su un piano sia sociologico sia psicologico. Secondo lo studioso, in particolare: “il true crime è uno dei generi popolari di una sfera pubblica patologica. Presuppone intimità eccessiva e violenza vicaria come modelli di socialità (…) per questo è parte della nostra cultura contemporanea della ferita, una cultura della commiserazione”.
Seltzer afferma quindi che il true crime, almeno nella sua forma giornalistica e televisiva, si basa sull’esibizione dell’orrore e delle deviazioni umane e ha come effetto principale quello di produrre e organizzare le paure sociali del pubblico. Attraverso la rappresentazione del crimine come patologia, come male puro, che minaccia ognuno di noi nell’ordine dell’imprevedibile e del mostruoso, questo genere enfatizza sino all’esasperazione il senso di vulnerabilità del soggetto-spettatore.
L’approccio di Seltzer riecheggia evidentemente la sociologia della paura di Frank Furedi. Il true crime consolida l’adesione del soggetto contemporaneo alla therapy culture, un modello culturale che si fonda sul sapere psichiatrico e psicoanalitico e sulla diffusione di un approccio medico-diagnostico alle emozioni che avvalla quello che si potrebbe chiamare un riduzionismo emotivo. Il primato delle emozioni, sancito dall’avvento dei social che sollecitano di continuo l’espressione della nostra sfera emotiva, si alimenta e trova la propria legittimazione in una continua oggettivazione e autonomizzazione dei fattori di rischio, che finisce con deresponsabilizzare il soggetto comune:
L’autonomizzazione dei fattori di rischio ribalta la relazione tra individuo e esperienza che prima pendeva verso il primo. In questo nuovo scenario, l’individuo autonomo svanisce per ritornare come individuo assoggettato all’autorità di fattori di rischio autonomi. (…) L’assenza di una reale possibilità di scelta è il messaggio implicito in molte ansie stimolate dall’ossessione sociale per il rischio. Si può esercitare la cautela, ma non la scelta.
In questo contesto socio-culturale, acuito negli Stati Uniti dal trauma collettivo dell’undici settembre, la rappresentazione massmediatica del crimine serve a orientare le paure dello spettatore secondo logiche basate sulla stigmatizzazione del delinquente e sullo sfruttamento voyeuristico dell’atto delittuoso, visto come punto di condensazione di un male imponderabile, fuori dall’ordine del comprensibile. Come ha sottolineato Ray Surette, i mass media tendono a isolare il colpevole e l’evento criminale rispetto al contesto sociale, alimentando in genere nel pubblico il desiderio di punizione del colpevole:
I media enfatizzano tratti della personalità individuali come causa del crimine e l’interdizione violenta come sua soluzione, mostrando di preferire crimini che coinvolgano armi e soluzioni che coinvolgono violenza e tecnologia sofisticata. I media presentano la criminalità come una scelta individuale e implicano che altre spiegazioni sociali, economiche, o strutturali, sono irrilevanti. Le icone di coloro che “combattono il crimine” o della “lotta alla criminalità” veicolano il messaggio che il crimine vada combattuto piuttosto che risolto o prevenuto. (…) Queste immagini inclinano la percezione del pubblico verso l’applicazione della legge e le politiche di controllo del crimine. Il risultato è che, anche laddove il sistema di giustizia penale non sia mostrato favorevolmente, le soluzioni al crimine suggerite dai media propongano l’espansione di questo sistema esistente attraverso l’espansione della sua applicazione e l’inasprimento delle pene.
Su questa linea critica si sviluppa anche lo studio di Anita Biressi Crime, Fear and the Law in True Crime Stories. La studiosa inglese parte dal nesso strutturale tra la narrazione true crime e l’intrattenimento popolare nella cultura occidentale: “Il true crime narra gli eventi criminali (già mediati dai racconti personali, dai diari e dalle storie prodotte dalla legge, dal giornalismo e così via) e li trasmuta in nuovi tipi di storie, in intrattenimento di massa, in prodotto di interesse per il tempo libero.” Il lavoro di Biressi approfondisce la diffusione del genere true crime nelle riviste (nei tabloid e nei periodici specializzati sulla cronaca nera) e nella televisione inglese degli anni Ottanta, ovvero durante l’epoca d’oro del neoliberismo incarnato dall’asse politico angloamericano di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. L’autrice, che adotta qui una prospettiva apertamente foucaultiana, punta a far emergere gli effetti di verità e di potere circolanti nelle rappresentazioni e nel consumo dei discorsi sul crimine reale. Il true crime produce effetti sul reale, intersecandosi con l’esperienza sociale del fenomeno criminale da parte dello spettatore: “Le diverse forme di intrattenimento del true crime sono significative proprio perché hanno prodotto e continuano a produrre un sapere del crimine e della criminalità che si interseca con la sua esperienza sociale”.
Per Biressi il mercato dei mass media a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta ha sfruttato questo genere popolare, destinato a un consumo ozioso e ludico della cronaca nera, per supportare gli assetti del potere economico e politico esistente. Il true crime dissemina “modelli di comprensione del criminale e della punizione nel quotidiano” che avvallano indirettamente l’ideologia individualista neoliberale. La minaccia rappresentata dall’individuo criminale, dal “cattivo”, determina un senso di angoscia e di vulnerabilità personale nello spettatore, posto di fronte a un mondo abitato da mostri che scelgono il male per soddisfare il proprio piacere. La classe media, specialmente bianca e di genere femminile – la principale fascia di pubblico dei prodotti true crime –, vive un rapporto di paradossale fascinazione e repulsione col racconto della violenza, che la espone all’idea di un’onnipresenza del male e alla dicotomia semplicistica tra buoni (lo Stato) e cattivi (i criminali).
Cosa spinge le persone a consumare true crime? Uno studio del 2010 di due psicologi statunitensi, Amanda Vicary e Chris Fraley, ha tentato di dare una risposta a questa domanda. La loro analisi delle scelte e delle aspettative di consumo della letteratura true crime ha fatto emergere che i fruitori di questa narrativa, in larga maggioranza donne, attribuiscono a questa esperienza un valore conoscitivo legato allo sviluppo di specifiche “strategie di sopravvivenza relative all’aggressione e all’omicidio”. Un risultato che conferma gli assunti teorici dei due studiosi, che in apertura all’articolo si chiedono:
Ma perché le donne, più degli uomini, dovrebbero essere interessate al crimine, specialmente dal momento che gli uomini hanno più probabilità di esserne vittime (…)? La risposta potrebbe risiedere nella paura del crimine, dato che molte ricerche hanno dimostrato che le donne temono di diventare vittime di un crimine più degli uomini (…). Quindi, potremmo aspettarci che le donne siano più interessate ai libri sul vero crimine a causa dei potenziali spunti di sopravvivenza in essi contenuti.
Da donna e da consumatrice di narrativa true crime, faccio molta fatica a immaginare di essere mossa, anche inconsciamente, dalla volontà di ottenere informazioni su possibili “strategie di sopravvivenza” al crimine. Ammetto, anzi, che la trovo una questione quasi del tutto irrilevante nella mia scelta di un prodotto true crime, sia che si tratti di un libro, di una serie tv o di un podcast. Una critica di orientamento intersezionale che mi pare necessario muovere a questa interpretazione cognitivista della lettrice o della spettatrice donna del true crime riguarda il “paradigma della vittima” e la sua reiterazione nell’immaginario costruito dalla classe media bianca. Come ha sottolineato Alison Phipps:
Le lacrime delle donne bianche arrivano in un mondo in cui le persone emarginate sono usa e getta, che si tratti di neri uccisi dalla polizia, di migranti lasciati morire di fame o affogare (…), o di persone trans e sex workers (molti dei quali sono persone di colore) sproporzionatamente lasciati a sopravvivere al di fuori delle famiglie borghesi, delle comunità e della legge. Il circuito tra le lacrime delle donne bianche e la rabbia degli uomini bianchi significa che poiché noi piangiamo, le persone emarginate possono morire.Non è questa la sede per ricostruire una critica intersezionale adeguata al nesso vittima innocente/donna bianca, ma possiamo quanto meno rilevarne l’omogeneità con la tendenza strutturale del true crime mainstream a nutrire un approccio emotivo, improntato a generare insicurezza e angoscia nel pubblico, agli eventi e ai fenomeni criminali reali.
Sempre Anita Biressi ha notato che la funzione ricreativa dei prodotti true crime tende a isolare l’evento delittuoso dal contesto sociale, esplorandolo attraverso una modalità narrativa ispirata al discorso investigativo-scientifico. Le riviste e i programmi tv true crime hanno, per molti versi, anticipato l’ossessione per il dato forense che ha caratterizzato la serialità televisiva statunitense degli ultimi vent’anni, soprattutto a partire dal successo della serie-tv CSI: Crime Scene Investigation (CBS, 2000-2015). Una parte cospicua del genere true crime ha intrattenuto e intrattiene con il reale un rapporto all’insegna della verifica, intesa qui come strategia di risoluzione del caso attraverso l’oggettività delle prove scientifiche (le autopsie, i riscontri genetici, la balistica, l’ematologia, etc.) e il ragionamento induttivo del detective/inquirente. Il racconto di queste prove materiali è divenuto centrale nei format crime statunitensi e occidentali in genere. Il primato assegnato da tanto true crime, sia televisivo sia giornalistico, alle prove forensi serve ad avvallare le pretese di verità di questi prodotti di consumo, che promettono, almeno in via promozionale, di dare al pubblico un accesso apparentemente oggettivo al mistero del crimine. L’utilizzo del linguaggio scientifico e l’uso massiccio della dimostrazione induttiva acuisce l’effetto di verità del true crime; il crimine diventa un oggetto che deve essere analizzato attraverso saperi scientifici che mettono in sicurezza la verosimiglianza del racconto celandone il valore d’uso commerciale.
Le analisi di Furedi, Surette, Seltzer e Biressi si richiamano tutte a vario titolo a un approccio post-strutturalista, rifacendosi, da una parte, alle riflessioni di Foucault sul rapporto tra potere e sapere e, dall’altra, a quelle di Baudrillard sulla società dei consumi. L’interpretazione del true crime come sintomo di un’ansia sociale diffusa nel mondo occidentale si congiunge con la questione della iper-mediatizzazione del reale che, secondo Baudrillard, ha trascinato la civiltà contemporanea nell’epoca dell’osceno:
L’oscenità comincia quando non c’è più spettacolo, non c’è più scena, non c’è più teatro, non c’è più illusione, quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione. Non siamo più nel dramma dell’alienazione, siamo nell’estasi della comunicazione. E questa estasi è oscena.
Il true crime come parte integrante dell’infotaintment televisivo trasforma la realtà più scabrosa in un’informazione da consumare e da cui, al contempo, trarre piacere. Lo spettacolo della sofferenza, che è uno dei fenomeni più diffusi e problematici dell’universo mediale contemporaneo, ci viene mostrato tramite un dispositivo narrativo che fa coincidere l’elemento dell’estetizzazione superficiale (l’eccitazione spettacolare) con un’anestetizzazione di fondo (indifferenza referenziale). Al rischio dell’anestetizzazione proprio della saturazione del visibile prodotto dalle nuove tecnologie si aggiunge il pericolo di un uso ideologico della rappresentazione, usata come uno strumento di articolazione e indirizzamento delle ansie e delle paure dei cittadini delle democrazie liberali occidentali. Le letture offerte da Biressi, Seltzer e gli altri autori che abbiamo citato appaiono segnate da un profondo pessimismo di derivazione post-strutturalista. Le modalità con cui tanta tv del reale sfrutta la narrazione della cronaca nera si rivolgono spesso al voyeurismo e alla fascinazione morbosa del pubblico per la violenza, soprattutto, nel suo rapporto diretto con la morte e il sesso. L’assassinio e lo stupro ci pongono di fronte alla trasformazione violenta e irreversibile di un soggetto in un oggetto. Proprio per questa ragione Biressi individua nel true crime, nella sua ossessione per la mente del criminale e per il corpo della vittima, un potere di fascinazione del soggetto affine a quello dei saperi esoterici; attraverso la materia del reale, questo genere mette in scena la violenza del passaggio dal sé al nulla. Lo fa, nella maggior parte dei casi, cavalcando i sentimenti più basilari e istintivi di un’audience massificata, ovvero l’orrore e lo sdegno, riducendo così i vissuti dolorosi di alcuni a oggetti di consumo per tutti.
Estratto da Crimine, colpa e testimonianza. Sulla performatività documentaria (Mimesis, 2021). Traduzioni delle citazioni a cura della redazione.