I l trasporto marittimo è l’ossatura di una globalizzazione economica sbilanciata, dove la distribuzione è mondiale ma la produzione è localizzata in Asia. Guardatevi attorno: con tutta probabilità, nove delle dieci cose che vedete sono state portate a bordo di un mercantile. Una catena logistica immensa, estesa ovunque, con un’unica grande area di produzione formata principalmente da Cina, Taiwan e Vietnam. Capillare, ma instabile e precaria. A marzo, il blocco di sei giorni del canale di Suez (dopo che una portacontainer di 400 metri di lunghezza, Ever Given, si è arenata di traverso in un canale largo 200, creando uno dei meme più virali dell’anno) ha mostrato l’uniderezionalità di questo flusso che segue le economie di scala, i bassi costi di trasporto e gli alti profitti.
La mondializzazione dell’economia si riflette nel volume di trasporto via mare, quasi triplicato negli ultimi trent’anni. Come rileva l’UNICTAD, dal 1990 al 2019 il traffico delle merci via mare è passato da poco più di 4 a 11 miliardi di tonnellate. Un quinto del traffico di merci via mare è trasportato dentro le portacontainer: dentro i container si possono portare motociclette, infradito, mele, telefonini, biciclette, mentre le cose più complicate – grano, minerali di ferro, petrolio, gas – viaggiano nelle cisterniere, mercantili meno vettoriali e più bombati, con varie identità secondo il trasporto: petroliere, portarinfuse, gasiere.
Commercio globale, produzione locale
Il pensiero comune sul trasporto, sulla logistica, sulla supply chain, ovvero la catena di distribuzione delle cose di cui abbiamo bisogno per vivere, socializzare e lavorare, è ancora eccessivamente legato al Novecento, quello della formidabile logica fordista della catena di montaggio. È ovviamente ancora così, ma non più soltanto. Negli ultimi decenni c’è stato un cambiamento strutturale, solo apparentemente piccolo e però epocale, che ha permesso ad aziende come Amazon di creare una rete estremamente più efficiente di consegne, con tempi di spedizione molto più veloci e garantiti. Si chiama Just in time ed è il contrario dello stoccaggio. Sono decenni che la merce, soprattutto quella di consumo, non viene più prodotta a iosa per essere messa in magazzino. Prima, le vacche grasse dell’economia non ancora del tutto mondializzata permettevano una produzione quasi indipendente dalla domanda. Oggi, la produzione industriale è del tutto allineata alla domanda, cioè si produce solo ciò che è stato già venduto o che si prevede di vendere in tempi brevi.
Questo modello funzionava molto bene fino all’arrivo della pandemia. Ora che siamo in un momento di rimbalzo economico disomogeneo, con alcuni luoghi del mondo più produttivi di altri, la mondializzazione commerciale va a singhiozzo e la catena logistica soffre, non potendo più disporre di grandi immagazzinamenti di merce. Non è che sia stato il just in time ad aver reso più complicato comprare la Playstation 5, piuttosto è il fatto che con il just in time, senza stoccaggio, la più forte ripresa economica mai vista dal Dopoguerra ha messo sotto pressione il trasporto, che non riesce a soddisfare la domanda. “In un momento di disequilibrio totale, con la domanda così instabile, la produttività disomogenea e la carenza di materie prime, il just in time non funziona più così bene e tende ad allungare la catena”, spiega Alessandro Santi, presidente di Federagenti, la federazione delle associazioni italiane degli agenti marittimi, i mediatori tra l’armatore e i porti di approdo.
La catena logistica è estesa ovunque, ma ha un’unica grande area di produzione formata principalmente da Cina, Taiwan e Vietnam.
Il contesto è quello della pandemia, che oltre ad aver colpito la libertà di circolazione di persone e merci ha di fatto svuotato la disponibilità di container. All’inizio dei lockdown di marzo 2020, molti container sono stati spediti dall’Asia all’Europa e agli Stati Uniti senza tornare indietro, perché spedire un container vuoto costa molto di più che spedirlo pieno. Poiché le operazioni di trasporto terrestre, portuale e di stoccaggio sono state colpite da blocchi, carenza di manodopera e sovraccarichi di volume, il posizionamento, l’uso e la restituzione dei container all’interno della catena di approvvigionamento globale è saltato. È una mancanza cronica: non ci sono mai stati abbastanza container per tutte le merci. Da sempre. Il problema è che la penuria di scatole di metallo dove infilare la merce da spedire in tutto il mondo non aiuta lo svuotamento delle fabbriche, l’assenza di manodopera, la carenza di materie prime, la mancanza di spazi di trasporto. E non si era ancora mai visto una compagnia marittima, la taiwanese Wan Hai Lines, spendere a settembre 150 milioni di dollari per acquistare 48 mila container da venti piedi.
Mancano gli autisti dei mezzi pesanti, quelli che trasportano benzina, container; dei furgoni, quelli che trasportano il pesce surgelato e il libro. In Italia ne mancano attualmente cinquemila, e nei prossimi anni potrebbero arrivare a diciassettemila. È un mestiere che i giovani non vogliono fare: è logorante, pagato non tanto bene (non quanto logorarsi in mare a bordo di un mercantile per mesi). Ottenere la Carta di qualificazione del conducente può costare anche settemila euro per un anno di pratica, e bisogna aspettare i 21 anni per ottenerla.
Il disallineamento tra domanda e offerta è anche dovuto al ritorno di una specie di welfare state nei Paesi occidentali. Enormi aiuti economici in deficit, lontanissimi dalla rigorosa austerity di una decina di anni fa, che hanno permesso di mantenere molto alta la domanda di beni di consumo. L’anomalia è stata questa: la gente non ha smesso di acquistare merce online, soprattutto durante i lockdown del 2020, mentre la produzione industriale era ferma. Una volta ripresa, intorno all’inizio dell’estate 2020, gli ordini di materie prime e semilavorati sono schizzati mettendo in crisi l’offerta di conduttori elettrici, microchip, carta, caffè, acciaio, scatoloni da imballaggio, in un contesto in cui il commercio elettronico è cresciuto a doppia cifra, soprattutto in Italia. Stati Uniti e Cina più di tutti hanno subito una forte pressione della domanda e la catena logistica si è ritrovata spiazzata di fronte a un mercato mondializzato ma contratto, spezzettato, a macchia di leopardo. Esposto ai focolai, alle quarantene, alle limitazioni della mobilità delle persone, ai controlli, alle ispezioni, ai visti, all’eterogeneità dei protocolli tra Stato e Stato.
Secondo un rapporto dell’UNCTAD, le importazioni e le esportazioni di alcune delle principali economie del mondo mostrano che, con poche eccezioni, il commercio si è ripreso già dall’autunno del 2020. A maggio scorso il porto di Los Angeles ha movimentato quasi un milione di container. Era da oltre un secolo, dicono gli operatori del porto, che non si vedeva un tale flusso di importazione. Fino a quaranta portacontainer hanno atteso per sette giorni in rada (lo specchio d’acqua al largo dei porti dove i mercantili “parcheggiano” in attesa che si liberi un posto per entrare), spingendo la National Retail Federation USA, la più grande associazione di commercio al dettaglio del mondo, a scrivere alla Casa Bianca. A fine maggio il porto di Yantian, uno dei più grandi della Cina, si è quasi fermato per via di una serie di quarantene scattate per impedire ai focolai di portare a nuove ondate, impedendo alle persone e alle cose di scendere e salire dalla navi. In quel periodo circa la metà delle spedizioni internazionali erano in ritardo. L’ultimo Liner Shipping Connectivity Index dell’Unctad mostra come tra aprile e giugno il tasso dei servizi di trasporto mercantile in Italia è diminuito dell’1,9 per cento, rispetto alla migliore performance del Paese, il primo trimestre del 2006. Con così poco spazio di trasporto disponibile, multinazionali come Ikea, Home Depot e Walmart hanno iniziato a noleggiare intere navi.
Il lavoro degli equipaggi
A far funzionare i mercantili ci sono i comandanti e l’equipaggio. Oggi, secondo l’International Transport Workers’ Federation, sono almeno 200 mila i marittimi (su un totale di oltre un milione) ad avere difficoltà a raggiungere la nave per il cambio di equipaggio con i colleghi, o a tornare a casa dopo la fine del turno, in assenza di corridoi aerei prioritari per questi lavoratori che solo a dicembre scorso l’ONU si è spinta a dichiarare una “categoria chiave”. Nel 2020 erano 400 mila. Oggi la situazione è migliorata, grazie anche alle pressioni sugli Stati e sugli organismi internazionali del legislatore mondiale dello shipping, l’International Maritime Organization; dell’International Chamber of Shipping e, in Italia, delle associazioni degli armatori Confitarma e Assarmatori. Il problema è che le nazioni da cui provengono la maggioranza dei marittimi (Filippine, Bangladesh, Sri Lanka e Pakistan) hanno bassi tassi di vaccinazione. Mediamente il turno di un marittimo a bordo di una nave dura dai quattro ai sei mesi. A luglio il Global Maritime Forum ha denunciato il raddoppio degli imbarchi oltre gli undici mesi, il massimo consentito dalle convenzioni internazionali. Sono lavoratori ben pagati ma più esposti di altri allo sfruttamento, agli abusi, agli scaricabarile burocratici. Lavorano su una nave battente bandiera straniera, lontani migliaia di miglia da casa, ritrovandosi spesso isolati. L’ultimo record è del chief officer siriano Moahammad Aisha, rimasto per quattro anni a bordo di una nave prima sequestrata e poi abbandonata, dopo esserne diventato il responsabile legale.
I marittimi sono lavoratori ben pagati ma più esposti di altri allo sfruttamento, agli abusi, agli scaricabarile burocratici.
L’ultimo rapporto economico dell’UNCTAD mostra come nel primo trimestre di quest’anno, mentre il valore degli scambi di merci è stato superiore al livello pre-pandemia, gli scambi di servizi rimangono al di sotto delle media. Significa che la produzione delle merci non è allineata alla capacità di trasportarle. È il commercio globale di prodotti correlati al COVID-19 che è rimasto forte durante i primi mesi dell’anno, mentre quello delle materie prime è crollato, anche se c’è da sottolineare che la mancanza di materie prime sufficienti è il tipico modo in cui avviene una ripresa economica. Cina, India e Sud Africa hanno registrato, sempre nel primo trimestre di quest’anno, i risultati migliori. Le esportazioni cinesi, in particolare, sono fortemente aumentate addirittura rispetto ai livelli pre-pandemia. Al contrario, le esportazioni dalla Russia sono rimaste ben al di sotto della media del 2019. Una ripresa intermittente, soprattutto da parte dei paesi in via di sviluppo. L’Asia Orientale spinge il commercio Sud-Sud, ma quando si escludono questi dati si rimane al di sotto della media.
Domanda e offerta
Il problema, l’abbiamo detto, è che la domanda supera di gran lunga l’offerta, esercitando una pressione al rialzo sui tassi di trasporto. Gli armatori sono contenti, perché gli slot di bordo dove mettere la merce vengono noleggiati a caro prezzo; gli spedizionieri non lo sono per niente, perché sono loro a pagare i noli marittimi. I consumatori, per il momento, possono ignorare tutto questo e sorbirsi un po’ di inflazione. Se ci soffermassimo sugli ultimi due anni, però, non capiremmo molto: bisogna allargare lo sguardo. Le statistiche degli ultimi dieci anni mostrano come i tassi di trasporto oscillino continuamente perché è il rapporto domanda-offerta ad essere in riequilibrio costante. Sulla base dei dati di Drewry, tutto è iniziato nella seconda metà del 2010, dopo la recessione del 2008-2009. Allora l’armamento mondiale aveva una capacità di stiva ben superiore alla domanda di trasporto. Si chiama oversupply. In poche parole, le navi viaggiavano mezze vuote e i noli marittimi erano pagati tra i 2 e i 3 mila dollari per spedizione. Man mano che la capacità delle navi e la domanda di merci sono tornate in equilibrio, le tariffe sono diminuite costantemente fino a raggiungere un minimo nel 2016. A giugno del 2015 i trasportatori hanno pagato mediamente 56 dollari per portare un container dalla Cina al Nord Europa. Trasportare un container pieno di infradito è costato mediamente 5 centesimi in quel periodo. Oggi i noli marittimi sono arrivati oltre i 10 mila dollari per una singola spedizione.
“Fino a qualche anno fa era economicamente sostenibile pensare di volare su Londra pagando 9,99 euro?”, si chiede Santi, “un prezzo che indicava come il vettore aereo, pur di conquistare fette di mercato, viaggiasse in perdita. Prima della pandemia, si trattavano noli marittimi dalla Cina all’Europa a livelli così bassi da far emergere in modo evidente come anche gli armatori lavorassero in perdita. Per le compagnie marittime in generale, non solo quelle che trasportano container, era impossibile remunerare il capitale investito, prova ne sono stati i numerosi fallimenti d’impresa seguiti al crack di Lehman Brother. Per analizzare razionalmente l’andamento dei noli bisogna guardare i grafici degli ultimi dieci anni e osservare come siamo passati da un estremo all’altro. Sia quando sono molto bassi che quando sono molto alti non c’è sostenibilità. È ragionevole, quindi, pensare che si raggiungerà un nuovo equilibrio”.
Il barometro del rischio assicurativo 2021 di Allianz Risk per lo shipping mette per la prima volta in cima i black-out informatici, seguiti dall’interruzione delle attività industriali e commerciali e dalla pandemia. Più che manifestare la debolezza della mondializzazione del commercio, questi indicatori mostrano quanto sia vasto e complesso il sistema. Secondo Santi, “la risposta per l’economia mondiale non potrà però essere quella di rinunciare alla globalizzazione, ma di puntare al controllo strategico delle filiere di approvvigionamento agevolando le catene logistiche con un maggior numero di origini, libere da posizioni monopolistiche soprattutto in dipendenza da paesi potenzialmente ostili. Una maggiore efficienza cercando di limitare le vulnerabilità intrinseche e prevenire con azioni mirate le possibili strozzature e i colli di bottiglia”.
Nel trasporto dei beni di consumo via mare, cioè il mondo delle compagnie marittime di portacontainer, vige un oligopolio.
Soprattutto all’inizio della ripresa post-pandemia, nel pieno dell’estate 2020, sembrava che il rialzo dei noli marittimi fosse una cinica scelta imprenditoriale delle compagnie marittime: ridurre apposta la capacità di stiva tramite le partenze a vuoto e l’annullamento degli approdi, i blank sailing (aumentati di circa un terzo nell’ultimo anno), così da tenere alti i profitti mantenendo alti i costi di noleggio degli slot di carico. Già nella seconda metà del 2020 i profitti degli armatori sono triplicati rispetto all’anno precedente. I ricavi tra luglio e settembre scorso della prima compagnia marittima di container, Ap Moller Maersk, sono stati senza precedenti, pari a oltre 16 miliardi di dollari.
In realtà, i dati di Sea-Intelligence mostrano come a partire da luglio dell’anno scorso la capacità di stiva è aumentata al punto da superare quella post recessione 2008-2009. Tra febbraio e marzo 2020 il numero di partenze a vuoto è stato estremamente elevato, ma verso la fine dell’estate si sono azzerate per poi tornare a crescere, con un nuovo picco alla fine del 2020 e all’inizio del 2021. Le cose sono iniziate a cambiare a luglio 2020, quando il commercio Asia-Nord America della costa occidentale ha visto un’iniezione di capacità tramite l’introduzione di navi più grandi e l’aggiunta di carico su quelle in circolazione. Da allora ci sono state settimane in cui la crescita di capacità ha toccato un tasso del trenta per cento. Nel secondo trimestre del 2020, quando la domanda è scesa tra il 20 e il 30 per cento, come mostra uno studio di Alphaliner commissionato dal World Shipping Council, i vettori hanno ridotto i servizi e le navi inattive. Alla fine del 2020 la flotta mercantile mondiale inattiva era appena al 2,5 per cento, di cui più della metà erano navi in riparazione. Anche per l’Unione europea la pista della speculazione armatoriale non spiega del tutto l’aumento vertiginoso dei noli marittimi. All’inizio di quest’anno la DG Competition della Commissione europea ha deciso di non avviare indagini verso gli armatori per presunte violazioni di mercato con l’impennata dei noli.
Profitti e oligopolio
È innegabile, però, che nel trasporto dei beni di consumo via mare, cioè il mondo delle compagnie marittime di portacontainer, viga un oligopolio. La danese Maersk, l’elvetica di origini sorrentine Msc e la francese Cma Cgm trasportano circa tre quarti del volume container complessivo. Le prime dieci compagnie marittime di questo tipo circa il 90 per cento. È un assetto con una sua logica. È un’attività d’impresa capital intensive, cioè ad alti investimenti per alti profitti, ma anche, se qualcosa va storto, esposta ad altissime perdite. Le navi mercantili devono garantire una certa affidabilità su strade tra le più pericolose del mondo, gli oceani. Un libero mercato potrebbe permetterebbe a molte più imprese di cimentarsi in questa attività, ma col rischio di generare un mercato pieno di servizi inaffidabili. In nome dell’approvvigionamento, del fatto che i mercantili sono gli anelli più grossi della catena della distribuzione mondiale, le compagnie marittime che trasportano container possono stipulare alleanze senza dover attendere un responso dell’Antitrust, perlomeno in Unione europea, grazie al Block Exemption Regulation, che a marzo del 2020, in piena emergenza pandemica, è stato esteso fino al 2024. Inoltre, sempre seguendo la politica d’impresa strategica, godono di un’aliquota storicamente favorevole, intorno al 7 per cento (facendo la media tra gli stati di bandiera), che li rende estremamente più competitivi degli altri trasportatori, soggetti alla tassazione standard riservata alle aziende private, che per gli spedizionieri è in media del 27 per cento. È una situazione normale finché gli armatori e gli spedizionieri fanno due mestieri separati, dove il primo trasporta via mare e l’altro via terra. Diventa anomala quando uno dei due inizia ad estendere la propria attività logistica nel territorio dell’altro, che è quello che è successo negli ultimi dieci anni. Indovinate da parte di chi?
In passato, il massimo dell’extraterritorialità armatoriale era il terminal container portuale. La compagnia marittima grande dirige sempre anche i terminal container strategici dove approda, cosa che oltre a garantirgli un certo controllo dell’operatività gli permette di essere molto più affidabile nei tempi dei servizi. Da una decina di anni, però, le cose si sono decisamente allargate. Forte di risorse finanziarie immense, l’armatore tende ad acquisire aziende logistiche terrestri, treni, terreni, capannoni, terminal container, cioè il mondo dello spedizioniere. Si chiama verticalizzazione dei servizi, di modo che l’impresa marittima diventa un grande gruppo logistico che arriva a gestire tutta la filiera, dal carico a bordo allo scarico del camion in negozio. “Un numero sempre più esiguo di soggetti che offrono servizi di trasporto via mare impedisce a noi spedizionieri una negoziazione bilanciata”, spiega la presidente di Fedespedi, Silvia Moretto. “Se la ratio del Consortia Block Exeption Regulation – continua – è garantire un servizio di qualità lungo la supply chain marittima, oggi vediamo come questa stessa ratio sia disattesa nella prassi dai carrier marittimi, che agiscono come private company, controllando la capacità di stiva per sostenere il costo dei noli e riducendo ai minimi la qualità. Ci troviamo dunque nella situazione paradossale in cui il prerequisito di legittimità dell’esenzione antitrust, la qualità del servizio, è macroscopicamente venuta a mancare”.