N ella storia parlamentare italiana la tendenza a cambiare, legittimamente, idea fino al punto di, talvolta, cambiare casacca ha origini lontane. “Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri”, scrive quasi 140 anni fa Giosuè Carducci. È il 1883 e, come spiega al Tascabile lo storico Giovanni Sabbatucci, “allora il trasformismo era appena nato. Eppure il cambio semantico, lo slittamento verso un’accezione negativa del fenomeno era già avvenuto”.
Nelle ultime settimane, dopo l’uscita di Italia Viva dalla maggioranza, il governo Conte ha cercato il sostegno di alcuni senatori dell’opposizione, l’appoggio di “costruttori e responsabili”, e ottenuto il voto di fiducia di due senatori di Forza Italia. Non è stato sufficiente, e il presidente Mattarella ha conferito all’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, l’incarico di formare un nuovo governo. Se l’operazione Draghi dovesse andare in porto, le forze parlamentari che decideranno di sostenere l’esecutivo saranno chiamate a un cambio radicale d’agenda, ma anche di temi e alleanze: il PD può stare allo stesso tavolo della Lega? E i 5 stelle fare un governo anche con Berlusconi, dopo Salvini e Zingaretti? È la conseguenza inevitabile di un’oggettiva difficoltà: in questo Parlamento non esiste, nei numeri, una maggioranza chiara che abbia la medesima visione per il Paese. Quindi in nome “dell’unità e della responsabilità” interi partiti o singoli parlamentari si preparano a una nuova giravolta.
La stabilizzazione del sistema in nome dell’unità è da sempre il cuore e la giustificazione di molte operazioni di trasformismo, concetto che nasce nel 1882 per mano del leader della sinistra di allora Agostino Depretis. Da presidente del Consiglio,Depretis aveva deciso di aprire alla destra, e a chi lo accusava di aver tradito il programma della sinistra, rispondeva: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”. In questa fase, il trasformismo serviva a creare una larga maggioranza centrista per disinnescare eventuali pulsioni antisistema, ai tempi rappresentate prima dalle forze repubblicane e cattoliche, e poi da quelle socialiste.
Il concetto di trasformismo nasce nel 1882 per mano del leader della sinistra di allora Agostino Depretis che, da presidente del Consiglio, aveva deciso di aprire alla destra.
“L’Italia unita è nata da poco”, racconta Sabbatucci, “e il fenomeno trasformista ha lo scopo evidente di stabilizzare il sistema in un panorama politico molto frammentato. Il timore è quello di veder svanire l’unità nazionale”. In nome di questo bene superiore, i moderati di ambo le parti rinunciano alle divisioni ideologiche e fanno blocco al centro. “Si tratta di una vera e propria scelta di sistema, conseguenza di un determinato assetto istituzionale, che punta a scongiurare la politica dell’alternanza, giudicata troppo pericolosa”. Le critiche che presto iniziano a nascere condannano però il termine trasformismo a diventare sinonimo di politica senza principi e di sostanziale corruzione. “Anche perché il fenomeno, dopo una prima fase di stabilizzazione del sistema, vive un’inevitabile degenerazione. Le scelte politiche collettive si trasformano in istanze del singolo che agisce esclusivamente per il proprio tornaconto”.
Le parole d’ordine non cambiano nell’Italia repubblicana. I nuovi equilibri geopolitici maturati a seguito della Seconda guerra mondiale e la volontà di impedire una nuova deriva autoritaria dopo il ventennio fascista, fanno propendere i padri costituenti per una legge elettorale proporzionale. Questa volta le forze da tenere lontane da palazzo Chigi sono, in un primo momento, la destra missina e poi il Partito Comunista Italiano. “Quando l’alternativa fa troppa paura, magari anche a ragione”, spiega ancora Sabbatucci, “è più forte la tendenza ad abolire l’alternativa ma la conseguenza è un sostanziale immobilismo”. Non è un caso, allora, che la situazione si “sblocchi” con la caduta del muro di Berlino a seguito del quale i sistemi elettorali vengono modificati in senso maggioritario.
La legge proporzionale costituisce secondo Sabbatucci una “colonna portante del sistema politico della prima Repubblica ed è responsabile di certi suoi caratteri negativi, come l’invadenza dei partiti e soprattutto l’assenza di alternanza”. In questa fase, come spiega al Tascabile Francesco Clementi, costituzionalista e docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, il passaggio di un parlamentare ad un altro gruppo politico, o al gruppo misto, è molto raro. “Grazie al sistema disegnato dalla proporzionale la Democrazia cristiana è talmente forte da poter accordarsi con qualsiasi partito, sterilizzando ogni rischio che si venga a formare un blocco delle sinistre PCI-PSI. In questo modo rende inevitabile un progressivo avvicinamento con la sinistra socialista fino ad arrivare a governare insieme”. In quest’ottica, per Sabbatucci, anche il tentativo di Aldo Moro di assimilare le forze estranee per arrivare a un compromesso storico con il segretario del PCI Enrico Berlinguer potrebbe essere considerata una forma “nobile di trasformismo”.
I cambi di casacca nella prima Repubblica sono l’eccezione e avvengono per lo più all’interno dei partiti stessi spostando gli equilibri attraverso le correnti che si moltiplicano soprattutto all’interno della DC.
I veri e propri cambi di casacca nella prima Repubblica sono l’eccezione e avvengono per lo più all’interno dei partiti stessi spostando gli equilibri attraverso le correnti che si moltiplicano soprattutto all’interno della DC. Il passaggio da uno schieramento a un altro, per Clementi, in quegli anni serve per lo più “a garantire la libertà di coscienza dei singoli e il diritto al dissenso rispetto alla linea del proprio partito”. Un diritto scolpito dai padri costituenti nell’articolo 67, che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Per Sabbatucci si tratta di un principio fondamentale per le democrazie parlamentari: se deputati e senatori devono assolutamente seguire le indicazioni del partito o del gruppo al quale appartengono il Parlamento non serve più. Diventa un condominio in cui si decide in base ai millesimi”.
Proprio grazie alla libertà concessa dall’articolo 67, però, negli anni della seconda repubblica esplode definitivamente il fenomeno trasformista dei voltagabbana, una tendenza che, a guardarla da vicino, può essere considerata a tutti gli effetti la conseguenza e non la causa del malfunzionamento del sistema. I numeri delle ultime due legislature, la XVII e l’attuale, fotografano infatti in maniera impietosa la situazione. Alla fine della prima si contano 566 passaggi di gruppo, 313 alla Camera e 253 al Senato. I parlamentari coinvolti da questo valzer sono 347, il 36,53% degli eletti. Tra il 2013 e il 2017, 48 tra deputati e senatori hanno cambiato almeno tre volte gruppo. In quella attuale, nata nel 2018, siamo già a quota 160 passaggi e in 18 hanno cambiato casacca solo nel mese di gennaio 2021. E la situazione è destinata a peggiorare considerate le possibili spaccature all’interno del Movimento 5 Stelle e in Forza Italia, a seguito del probabile appoggio al governo Draghi.
“Nella seconda fase repubblicana”, spiega Clementi, “il trasformismo nella maggior parte dei casi non serve ad evitare che vadano al governo ‘i cattivi’, intesi come gli anti-sistema, ma a garantire ai singoli la loro sopravvivenza politica”. All’interno di questa cornice il costituzionalista distingue due momenti precisi. Il primo dura circa 10 anni e coincide con la sopravvivenza di un sistema elettorale semimaggioritario, “nel quale il diritto al dissenso e il conseguente trasformismo avviene dentro le coalizioni e quindi per lo più non cambia la natura dei governi”. Durante questo decennio le forze politiche non scelgono definitivamente un chiaro sistema bipolare e anzi, a seguito del fallimento referendum del 1999 per l’abolizione della quota proporzionale, si convincono a tornare proprio al sistema elettorale della Prima Repubblica. Per Clementi “la scelta del maggioritario di metà anni Novanta ha rappresentato un cambiamento non totalmente condiviso. Si pensi alla dialettica tra Veltroni e D’Alema: il primo espressione del maggioritario, il secondo del proporzionale. Entrambi sono in piena carica proprio nella XIII legislatura (1996-2001)”. Mentre l’ex sindaco di Roma passa dalla tradizione comunista proporzionale ed arriva alla cultura del maggioritario sul modello laburista britannico. D’Alema cerca di tradurre la tradizione del PCI in una cultura socialdemocratica comunque proporzionalista.
Nella seconda fase repubblicana il trasformismo nella maggior parte dei casi serve a garantire ai singoli parlamentari la loro sopravvivenza politica.
Il fallimento della svolta maggioritaria, con il ritorno a leggi elettorali proporzionali a partire dal 2005, comporta “una friabilità del sistema politico-partitico” che fatica a riallinearsi su un nuovo assetto. Questo sostanziale stare in bilico tra un maggioritario non ancora perfezionato e il ritorno alla proporzionale, secondo Clementi “ha fatto sì che dal 2013 in poi emergesse il tema di quale assetto politico dotare il Paese”. La politica italiana si ritrova a subire la pressione di un populismo nato proprio sulle ceneri dell’immobilismo politico che ha generato. “Le forze politiche non hanno scelto, e l’arrivo della terza forza, il M5s, portatrice di un’istanza disgregatrice, ha moltiplicato il trasformismo e ha portato ad un evidente stallo del sistema”.
La legge elettorale proporzionale senza regole costituzionali ad aiutarla, come la sfiducia costruttiva, e a maggior ragione con le preferenze, secondo Clementi, ha un grande difetto: “per dirla con le parole del senatore DC Roberto Ruffilli, assassinato dalle BR, toglie ai cittadini la possibilità di essere arbitri dell’indirizzo politico del governo. E se il cittadino non è arbitro tende a non votare più. Anche perché se esprimi la preferenza per Prodi e poi ti ritrovi D’Alema, se scegli Berlusconi e poi arriva Monti, se voti Di Maio e ti ritrovi Salvini, perdi fiducia nel sistema”.
Nelle ultime due legislature il 36,53% degli eletti ha cambiato gruppo parlamentare. Tra il 2013 e il 2017, 48 tra deputati e senatori lo hanno cambiato almeno tre volte.
In generale, conclude Clementi, i sistemi elettorali determinano i processi politici. “Il sistema proporzionale, senza strumenti che ne mitighino l’inevitabile frammentazione, incentiva le parole ma non i fatti. Il cittadino diventa suddito dei partiti e non arbitro-partecipe delle loro scelte”. In sostanza per Clementi il trasformismo e i cambi di casacca sono una conseguenza naturale di una scelta da parte della politica di voler avere le mani libere rispetto alla volontà degli elettori. E, stando alle cronache degli ultimi mesi, questa tendenza sarà dura a morire nel prossimo futuro.