R acconta Platone nel Liside che in un pomeriggio di festa, mentre si reca dall’Accademia al Liceo lungo la via che passa fuori dalle mura di Atene, Socrate s’imbatte in Ippotale, Ctesippo e altri giovani che lo convincono a fermarsi con loro e poi a entrare in un cortile lì vicino, dove scorge un gran numero di bambini ben vestiti che giocano “a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da alcuni cestini”. “Cos’è questo luogo e come passate il tempo?”, chiede loro Socrate. “È una palestra costruita da poco”, gli risponde Ippotale. “Per lo più passiamo il tempo in discussioni, di cui ti renderemmo volentieri partecipe”, continua, tracciando il ritratto perfetto dell’Atene di Socrate, una città di parole, dove i cittadini liberi passano lunghe giornate a conversare sui temi più vari. Ed è proprio qui, in questa palestra affollata di bambini, che Ippotale e i compagni coinvolgono il filosofo in una lunga e tortuosa discussione sull’amore e sull’amicizia.
Subito dopo Socrate fa la conoscenza di Liside e di Menesseno, due adolescenti che lo colpiscono. Gli sembrano felici perché, seppure così giovani, hanno raggiunto il bene più grande: hanno trovato l’uno nell’altro un vero amico. O almeno questo è ciò di cui sono convinti, e Socrate ne è sinceramente incantato. Fin da ragazzo non desidera altro: c’è chi “desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell’oro, un altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo più belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane – e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l’oro di Dario, anzi piuttosto che Dario stesso – a tal punto amo l’amicizia”.
Tra le pieghe di una vertiginosa ricerca intorno all’amicizia, i lettori di Platone possono trovare oggi spunti preziosi in grado di gettare luce anche sulla vera ossessione del nostro tempo: l’identità.
Il problema però, in questo dialogo come in tutti gli altri testi di Platone che vedono Socrate protagonista, è che nessuno dei presenti ha ben chiaro l’oggetto della discussione, ossia, in questo caso, chi è l’amico. Quali sono le caratteristiche che ci consentono di determinarlo e di distinguerlo dal suo opposto, il nemico, o da chiunque altro? Sembrano domande semplici e oziose, ma i diversi tentativi di rispondere da parte di Socrate e dei suoi giovani interlocutori si rivelano fallimentari e addirittura in grado di disorientare il filosofo: “Ho io stesso le vertigini per la difficoltà del ragionamento”, dice a un certo punto il sapiente, dopo un serrato succedersi di interrogativi e il continuo emergere di dubbi e incertezze. Tra le pieghe di questa vertiginosa ricerca intorno all’amicizia, noi lettori di Platone possiamo trovare oggi spunti preziosi in grado di gettare luce anche sulla vera ossessione del nostro tempo: l’identità.
Sembra essere questa, infatti, la parola chiave per comprendere la nostra società. Sul piano individuale ciascuno di noi, chi più chi meno, tende a inseguire e a investire sull’identità personale in chiave narcisistica e a dipendere con ansia dal riconoscimento e dal giudizio altrui. Nel lavoro, nello studio, nella vita sentimentale, nei rapporti familiari, ovunque aspiriamo a ottenere dagli altri la conferma della nostra versione “al meglio”, beautified (app per smartphone come Beautify o simili, che consentono di ritoccare il nostro volto fino a falsificarlo, appianando i segni del tempo e altre imperfezioni, non sono eccezioni: sono al contrario esempi di una tendenza generale che caratterizza ormai gran parte della nostra vita, online e offline). Vogliamo immedesimarci in questa sorta di “ritratto dell’Io” da esporre, mettendolo davanti al nostro volto, eliminando o riducendo al minimo i dettagli che stonano. È un obiettivo che non abbandoniamo quasi mai, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Quando viviamo un’esperienza, bella o brutta che sia, un nuovo incontro, un episodio banale, subito lo riconduciamo al faticoso lavoro di costruzione dell’identità personale che è un cantiere sempre aperto, con il rischio concreto di subordinarvi tutto quello che facciamo, fino al punto di perderci il piacere che potremmo invece ricavare dalle cose della vita per quel che sono, a prescindere dal loro tornaconto narcisistico.
Spostandoci sul piano collettivo, non si notano poi molte differenze. La stessa ansia, la stessa tensione al riconoscimento, al giudizio e all’affermazione di sé si estende oltre i confini del singolo, coinvolgendo per intero le società trasformate dalla globalizzazione: il confronto con stili di vita e modi di pensare diversi dai nostri, aumentato a dismisura nei primi anni di questo secolo grazie alla rivoluzione digitale e ai flussi migratori, ha avuto l’effetto di rafforzare in molti di noi l’attaccamento alle parole, ai riti e ai costumi della terra in cui siamo nati o ad altri simboli collettivi di appartenenza. I movimenti identitari, ormai protagonisti indiscussi della politica contemporanea, devono il proprio successo al fatto che intercettano quell’ansia e riescono a sedarla – o, meglio, promettono di farlo – con parole d’ordine di grande efficacia. Adattandosi ai diversi contesti grazie a strategie di comunicazione mirate, la propaganda identitaria in Europa, negli Usa, in India, in Brasile, in Russia, nelle Filippine e in altre zone del pianeta, all’insegna dell’America first!, British first!, Prima gli italiani! e così via, aumenta lo smarrimento e poi offre riparo, enfatizza la malattia e propone la terapia, alimenta la rabbia e la frustrazione e costruisce il capro espiatorio perfetto su cui sfogarle. I leader sovranisti che fioriscono nelle varie zone del mondo dicono cose diverse, plasmandole in base alla situazione economica, sociale e culturale del paese in cui si trovano. Ma come fossero un sol uomo, gridano all’invasione degli stranieri e al pericolo della sostituzione etnica, e spacciano per soluzione i muri da tirare su e le frontiere da sigillare (esempio lampante di questa strategia, in Italia, è l’abrogazione della protezione umanitaria prevista nel 2018 dal “decreto Salvini” che, in nome di una maggiore sicurezza, ha sottratto al processo d’integrazione migliaia di immigrati, alimentando così quel senso d’insicurezza che dichiarava di voler combattere, la paura dello straniero “per strada” e il conseguente desiderio di una risposta ancora più dura.)
Ci troviamo stretti tra due fuochi. Da un lato, subiamo la pressione esercitata dal bisogno di affermare un’identità personale forte, performativa, degna di ammirazione. Dall’altro lato c’è l’identità collettiva, sociale.
La logica di base è oppositiva, ossia l’identità si basa sull’individuazione di un nemico che sarebbe la causa d’ogni male. Qualunque cosa accada – da una crisi aziendale a un’alluvione o a un delitto –, soprattutto se il colpevole è uno straniero o l’esponente di un’imprecisata élite, la propaganda identitaria reagisce al volo, dirigendo subito l’emozione contro un bersaglio. Laddove ci siano frustrazione, paura, insicurezza, sofferenza, la propaganda non lascia spazio al dolore e al silenzio. Il dolore in quanto tale, infatti, non è utile a consolidare l’identità di gruppo e per questo va immediatamente trasformato in qualcos’altro, la sua energia emozionale va convogliata nel consolidamento del Noi.
Ci troviamo quindi stretti tra due fuochi. Da un lato, subiamo la pressione esercitata dal bisogno di affermare un’identità personale forte, performativa, degna di ammirazione: siamo sudditi di una tirannia esercitata da quel ritratto dell’Io che ritocchiamo e modelliamo ogni giorno, sul web e nella vita reale, cercando di filtrarlo, ripulirlo, correggerlo con cura come se dal suo successo (ma in quale competizione?) dipendesse per intero la nostra felicità. Dall’altro lato c’è l’identità collettiva, sociale, quel Noi che assume spesso i caratteri della nazione, la cui sovranità è minacciata da nuovi poteri forti, l’establishment, o dai flussi migratori in arrivo dal Sud del mondo.
Sono due piani molto diversi, certo, accomunati però dall’ansia e dal disagio che l’Io e il Noi così intesi dovrebbero arginare, e che invece contribuiscono ad accrescere. Tra i due piani, però, c’è anche un altro comune denominatore. In entrambi i casi ciò che conta sono i tratti esteriori più evidenti, quelli che, per l’appunto, si vedono e ci rendono chiaramente simili ad alcuni e diversi da altri. Sia nell’identità personale che in quella di gruppo si riscontra quindi una prevalenza dell’esteriorità, della differenza immediata, che unisce i simili e li contrappone ai diversi. Gli altri, intesi come singoli e come gruppi, sono relegati dalla logica identitaria in ruoli prefissati e classificati ora come avversari nella competizione narcisistica, ora come spettatori delle nostre performance individuali, ora respinti in quanto “diversi” che minacciano di contagiare la nostra sicurezza, ora ben accetti ma solo perché riconosciuti come “amici” membri di una comunità esclusiva e omogenea, al fine di costruire insieme muri e barriere e di mantenerci più sicuri.
Estratto da Sulle ali degli amici, una filosofia dell’incontro (Marsilio, 2020).