L’ impianto della storia sembra quello classico di un film dei fratelli Coen: una tranquilla città di provincia, una protagonista che fa una cosa e poi ne racconta un’altra, e un patto di fiducia tradito. La città è Spokane, nello stato di Washington, costa occidentale degli Stati Uniti: popolazione per l’ottanta percento caucasica, circondata dai boschi e con lunghi inverni gelidi. La protagonista è Rachel Dolezal, trentasei anni, attivista per i diritti civili, presidente della sezione locale della National Association for the Advancement of Colored People, storica organizzazione fondata oltre un secolo fa. A detta di tutti quelli che la conoscono – e sono in parecchi, a Spokane – Dolezal è una persona irreprensibile, spesso chiamata a parlare nelle scuole e molto carismatica. Ma da qualche tempo Dolezal si sente perseguitata.
Un giorno si presenta dalla polizia per denunciare il ritrovamento di una lettera minatoria, nella sua casella postale. È l’ottava volta nel giro di cinque anni che succede, spiega agli agenti: pochi mesi prima, aveva trovato un nodo scorsoio, del tipo che si usa per le impiccagioni, davanti alla porta di casa. E ancora prima, qualcuno aveva disegnato una grossa svastica sulla porta del suo ufficio. Simboli inquietanti, perché Dolezal non è solo un’attivista in carriera, rispettata da amici e colleghi; Dolezal è anche una donna afroamericana. Quelle intimidazioni, in puro stile Ku Klux Klan, per lei pesano il doppio.
Il commissariato di Spokane decide di prendere il caso sul serio. La polizia indaga, fa domande. I conti, però, non tornano: la telecamera che normalmente dovrebbe sorvegliare l’ufficio di Dolezal risulta misteriosamente disattivata; la cassetta dov’è stata trovata la lettera poteva essere aperta solo da Dolezal, o dal postino di fiducia. C’è, a dirla tutta, un filo inquietante che collega tutti gli episodi incriminati: l’unica testimone è proprio lei, Rachel Dolezal, e la sua versione diventa meno credibile ogni giorno che passa. Ma non sarà questo a mettere nei guai la donna. Quello che i giornalisti e gli investigatori avrebbero scoperto, dopo aver rovistato in maniera piuttosto casuale nel suo passato, renderà la presunta vittima uno dei casi socioculturali e filosofici più discussi del nostro tempo.
Dolezal, carnagione color rame, acconciatura stile afro, che in lezioni dal titolo “Black is Beautiful” spiegava alle donne di colore l’importanza di mantenere i capelli al naturale, è in realtà nata nel Midwest da due genitori che più bianchi non si può, per metà cechi e metà tedeschi. “Rachel vive nella sua menzogna”, raccontano la madre e il padre mostrando ai reporter vecchie foto della figlia che non vedono da anni, e che rivelano oltre ogni dubbio la sua origine nordeuropea. Come è possibile, allora, che una donna bianca fosse riuscita a ingannare tutti, spacciandosi per afroamericana per così tanto tempo?
Cuore di bianchezza
Tentiamo di rispondere a questa domanda tornando ad una delle premesse di questa storia: il patto di fiducia tradito. Nel questionario indicante la propria etnia (che per legge le aziende private e le Ong devono sottoporre ai propri dipendenti) Dolezal ha barrato, per dieci anni, la casella “black”. Squilibrio mentale, suggerisce qualcuno. Non è così semplice. Lei, con quattro fratelli adottivi di colore, sposata per diversi anni con un afroamericano dal quale poi ha divorziato, è sempre sembrata sinceramente devota alla causa della NAACP. Cosa ha impedito a Dolezal di essere sincera fin da subito? In fondo, se è vero che la politica sulle pari opportunità in America spinge verso una certa diversità nelle assunzioni, nessuna società o cooperativa può assumere personale di una specifica pigmentazione a discapito delle altre. Ma non ci vuole troppo a capire che mettere una donna caucasica a capo della NAACP, che si occupa dell’affrancamento della gente di colore, sarebbe sembrato un affronto. Di nuovo, si torna al patto di fiducia: in una comunità dove i rapporti di lavoro si basano su regole non scritte, nessuno aveva mai pensato di verificare l’autenticità dell’ascendenza di Dolezal.
Sarebbe legittimo sospettare che Dolezal si sia finta per due lustri qualcun altro per trarne un vantaggio personale. Se così fosse: perché non si è arresa subito e ritirata nell’ombra? La cronaca invece continua a parlare di una Dolezal che non indietreggia ma ribadisce e difende la sua scelta identitaria: raccontando di un’infanzia di umiliazioni e di abusi, di una sincera infatuazione per la cultura nera (“Fin da quando vedevo, da piccola, certi documentari del National Geographic”, ha detto) e di un’incredibile nascita avvenuta in un tepee indiano. I commentatori di professione impazziscono.
Dolezal, carnagione color rame, acconciatura stile afro, è in realtà nata nel Midwest da due genitori che più bianchi non si può, per metà cechi e metà tedeschi.
Che si tratti allora di un nuovo, reale “caso Zelig” – come il personaggio creato da Woody Allen nell’omonimo film del 1983? Il problema è che, nella finzione, il protagonista si trasforma davvero in ogni suo interlocutore, assumendone in tutto e per tutto l’aspetto fisico: incluso quando, confrontandosi con un gruppo di musicisti afroamericani, gli si scurisce la pelle e gli si gonfiano le labbra (un chiaro riferimento al famoso The Jazz Singer di Al Jolson, primo film sonoro di Hollywood, dove un cantante ebreo si sente a suo agio solo quando ha la faccia dipinta di nero). Nel caso di Dolezal non c’è, ovviamente, alcuna mutazione fisica spontanea, ma solo un giochetto di maquillage, una blackface come quella di Jolson, che nell’America odierna è tra le offese culturali più imperdonabili. Attraverso il camaleontismo di Zelig, Allen evocava un topos oltremodo tragico: quello dell’ebreo eternamente inferiore, timido e dunque perdente; che sceglie, per sopravvivere, di essere quasi il puro specchio di chi gli sta di fronte. Il caso di Dolezal colpisce perché con la sua transizione abbandona una identità, quella bianca, considerata tradizionalmente la più privilegiata.
Negli stessi giorni in cui si parla di Dolezal, un’altra donna finisce su tutti i giornali, e persino sulla cover di Vanity Fair: Caitlyn Jenner, fino a poco prima conosciuta come Bruce, ex campione olimpico, noto reazionario, padre di Kim Kardashian e star televisiva nello show della figlia. Si tratta di un caso di coming out destinato a fare scuola, accettato con entusiasmo dai media mainstream fin dal primo momento. Il confronto è impietoso: da un lato – si dice – ecco un credibile caso di transizione; dall’altro, una meschina simulatrice. Ma la pur comprensibile rabbia per la sfacciataggine di Dolezal non riesce a tenere lontana un’ultima e più importante domanda: può esistere, teoricamente parlando, il diritto per Dolezal di essere accettata dalla società? E se la risposta è sì, questo diritto può passare attraverso il riconoscimento di una sorta di disturbo dell’identità di razza, dell’esistenza di una “disforia razziale”?
Un terremoto in accademia
Passano due anni. Rachel Dolezal è stabilmente disoccupata. Ha pubblicato, dopo decine di rifiuti, un libro di memorie, Finding My Place In a Black and White World, finito prontamente tra la letteratura grottesca e le biografie assurde. Lei però non demorde: continua a insistere sull’autenticità della sua conversione, che “non è una scelta”, ci tiene a specificare, ma “un fatto naturale”. Cambia persino nome all’anagrafe: ora è Nkechi Amare Diallo, e qualcuno, non senza ragione, commenta che la perdurante visibilità di Dolezal è l’ennesima dimostrazione del privilegio di cui gode; fosse anche solo per il fatto che a una bianca è bastato tingersi il volto e mentire sulle proprie origine per passare per nera, mentre a un’afroamericana occorrerebbe molta più fantasia, e molta più abilità nel make-up. Insomma, prendere sul serio la “disforia di razza”, in un paese in cui si dibatte di violenza poliziesca a sfondo razziale a più non posso, sembra sinceramente troppo.
Questo fino al marzo del 2017, quando Hypatia, una rivista accademica di filosofia femminista molto quotata, pubblica In difesa del transrazzialismo. È un articolo molto denso che fa subito scalpore, in cui ci si domanda se sia legittimo che alcune persone possano identificarsi in una razza diversa dalla loro; o per meglio dire, una razza diversa da quella in cui la società le cataloga a partire dal loro aspetto, o dai loro antenati. L’autrice, Rebecca Tuvel, che ha solide credenziali progressiste, non è interessata a verificare la sincerità o le motivazioni psicologiche di Dolezal: “L’affermazione […] nella quale lei dichiara di vedere se stessa come afroamericana sin da bambina, e di essersi disegnata usando pastelli dalle tinte scure piuttosto che rosa mi suona decisamente bizzarra”, ammette. “Ma non so dire se mi suona bizzarra in quanto falsa, o piuttosto perché non siamo abituati a confrontarci normalmente con affermazioni del genere”.
Secondo Tuvel, se accettiamo determinate premesse circa i transgender e i diritti che spettano loro, e per estensione circa l’identità di una persona e il cambio di identità in generale, allora gli argomenti più comuni che rifiutano il concetto di transrazzialismo vengono meno. La studiosa non azzarda certo a mettere in discussione o a sminuire i diritti dei transgender, né suggerisce che razza e sesso siano equivalenti. La sua tesi, esposta con piccoli e cauti passi su un campo minato intellettuale, è che il transgenderismo (termine che può indicare sia il percorso di transizione da un’identità sessuale all’altra, sia il movimento culturale a supporto di quel percorso) e il transrazzialismo sono sostenuti da argomenti simili e sovrapponibili.
Nel marzo 2017, Hypatia, una rivista accademica di filosofia femminista, pubblica un articolo in cui ci si domanda se sia legittimo che alcune persone si identifichino in una razza diversa dalla loro.
Per cominciare: una persona che voglia negare legittimità alla questione della disforia razziale, argomenta Tuvel, potrebbe suggerire che, a differenza della razza, il sesso si basa sulla biologia. Vero, ma ci converrebbe sostenere che la biologia determina anche l’identità di genere? Certo, nella maggioranza degli individui è così: il sesso assegnato alla nascita e l’identità di genere sono sincronizzati. Ma uno studio del 2008 rivela che in molte donne transessuali il “loro gene recettore per l’ormone sessuale del testosterone […] è meno efficiente nel comunicare i segnali”. L’identità sessuale di questi individui non sarebbe dunque “realizzata” al momento della transizione, ma presente, seppur occultata, dormiente, fin dal momento della nascita: in altre parole non c’è nulla di determinato, neppure nel genere.
Un’altra argomentazione contro il transrazzialismo potrebbe essere che, se per cambiare genere possiamo cambiare il nostro dosaggio ormonale, i nostri genitali e altre caratteristiche fisiche, per cambiare razza bisognerebbe invece intervenire su caratteristiche esterne al nostro corpo, immodificabili, come l’eredità genetica. Eppure è stato dimostrato più volte – e questo fa imbestialire i neo-nazi – che il raggruppamento razziale delle persone così come lo intendiamo noi nasconde una mescolanza genetica sorprendente; al punto che oggi sappiamo che possono esistere più variazioni di particelle cromosomiche all’interno di uno stesso gruppo razziale che tra due gruppi diversi.
E se la razza fosse definita dalla discendenza? È un “determinante” notevole, per una società, ma non è detto che sia il più importante. Tanto che celebre sociologo Charles Mills identifica almeno cinque categorie rilevanti per determinare… a quale razza appartenga un individuo, tra cui: “consapevolezza della propria eredità, un pubblico consapevole di questa eredità, la cultura, l’esperienza, e l’autoidentificazione”. Questo per dire che, in quanto “costruzione sociale”, razza ed etnia sono concetti più malleabili di quanto non sembri: se dipendono da una serie di requisiti rilevanti in una data società, allora possono, almeno teoricamente, cambiare con il cambiare di quei requisiti.
Eticità di una transizione
Tuvel cerca di provocare, di sottolineare incongruenze logiche che possano aiutarci non tanto a raggiungere conclusioni indistruttibili, quanto a comprendere meglio i nostri stessi valori e i nostri processi cognitivi. Chiunque abbia letto un testo accademico di filosofia si sentirà vicino a questo modo di argomentare, pieno di astrazioni e di periodi ipotetici. Di norma, articoli complessi come quello di Hypatia non attirerebbero troppa attenzione al di fuori di certe subculture universitarie. Invece quello che succede con Tuvel è lo scatenarsi di una colossale “caccia alle streghe” (come la definisce Jesse Singal sul New York Magazine) in cui Tuvel è accusata di fare “violenza” al mondo transgender e delle donne di colore. La campagna parte ufficialmente con un appello, firmato da centinaia di accademici e scrittori, dal titolo Open letter to Hypatia, che però ha la colpa di distorcere pesantemente molte delle posizioni espresse dalla filosofa. Persino alcuni membri del comitato scientifico della rivista, pur avendo pubblicato il pezzo dopo un accurato peer-review, si dissociano dall’articolo.
In realtà, la questione che sembra emergere dalla vicenda Dolezal e dalla polemica attorno a Hypatia non è solo se questo tipo di passaggio sia realizzabile in teoria, ma soprattutto se sia realizzabile nella pratica, contravvenendo a una serie di convenzioni e categorizzazioni sociali molto forti e molto politicizzate. Una trasformazione identitaria radicale può essere avallata o respinta solo dopo essere passata attraverso processi etici spietati: nel caso di Dolezal, la prima e più grande obiezione emersa è l’inaccettabilità di rivendicare un’identità di colore senza aver vissuto prima l’esperienza umana di una persona di colore; senza aver sofferto, dalla prospettiva di una ragazza nera, “il trauma del rigetto e dell’isolamento”, come ha scritto una commentatrice. C’è però il rischio che questa obiezione venga applicata alle donne transgender che hanno cambiato sesso in età adulta e quindi non hanno subito l’esperienza del sessismo. Quest’ultima è l’idea che anima il cosiddetto femminismo radical trans-escludente (o TERF), un sottogruppo che crede nell’unicità delle donne “reali” – quelle nate con cromosomi xx – ed è violentemente ostile nei confronti del cosiddetto “Femminismo della terza ondata”.
Se è prevedibile che a Rachel Dolezal venga impedito di cambiare così facilmente le regole del gioco, bisogna ammettere che le regole di questo gioco non sono poi così chiare. La storia ci insegna che l’accettazione della disforia di genere è una conquista relativamente recente nella storia occidentale, dopo una lunga parentesi bigotta che parte dall’età vittoriana per arrivare alla seconda metà del Novecento. E non sembra certo un argomento progressista sostenere che la legittimazione dell’identità di un individuo debba dipendere solo dalle risorse culturali disponibili in un dato momento in società. Naturalmente, ci sono mille modi in cui l’appropriazione dell’identità nera può essere strumentale a una feticizzazione, a una commercializzazione spudorata, o a un umorismo di stampo razzista. Nessuno probabilmente saprà mai quanto sincere siano le motivazioni dietro il comportamento di Dolezal, ma bisogna saper distinguere, spiega Tuvel, tra chi assume una certa identità solo temporaneamente, in superficie, impersonandola, e chi invece decide di viverla giorno per giorno, assumendosene rischi e conseguenze.
La biografia della nazione americana è piena di esempi di passing: termine che storicamente indicava un individuo si faceva passare per appartenente a un’etnia diversa da quella d’origine.
Il campione di basket Kareem Abdul-Jabbar, ora uno dei commentatori più rispettati in America, ha scritto che Dolezal andrebbe vista con empatia, come una persona che si è alzata in piedi e ha gridato: “Io sono Spartaco!”, addossandosi la responsabilità di vivere con quella pelle. Jabbar forse semplifica, ma l’argomento che “partire” dalla razza caucasica per transitare verso quella nera sia di per sé un atto di privilegio, spiega Tuvel, può essere ritorto contro altre figure minoritarie in società: prendiamo, ad esempio, le MTF, le trans da maschio a femmina, che in teoria, qualora non abbiano completato la loro transizione chirurgicamente, possono sempre scegliere di fare marcia indietro – attenzione con le parole – ritornando alla condizione di privilegio maschile. Questo rende forse la loro condizione meno degna di solidarietà, rispetto ai transgender FTM? Be’, il mondo accademico dissentirebbe.
La biografia della nazione americana è piena di esempi di passing: termine che oggi viene usato dalle persone trans (specialmente MTF) per descrivere il loro vivere nel mondo come membri del genere di destinazione senza che sia ovvio che sono trans, ma che storicamente indicava quel fenomeno per cui un individuo vive in maniera fraudolenta, per così dire, facendosi passare per appartenente a un’etnia diversa da quella d’origine. Si tratta – dimostra la casistica – quasi sempre di storie a senso unico: persone di colore nate con una pigmentazione molto chiara che a partire dal XVII secolo hanno tentato di spacciarsi per bianche, in modo da sfuggire prima alla schiavitù e poi alle leggi razziste del Jim Crow. In una storia satirica di Mark Twain, La tragedia di Pudd’nhead Wilson, ambientata nel Sud pre-bellico, il figlio di una schiava, nero solo per 1/32 del suo sangue, viene adottato da una famiglia di aristocratici d’origine europea, che lo crescono con amore fino a quando non scoprono la verità di quel trentaduesimo di sangue “impuro”, e senza un briciolo di pietà lo rimettono sul “mercato”. In un racconto autobiografico di Langston Hughes, ambientato nella Harlem degli anni Trenta del Novecento, un gruppo di intellettuali afroamericani salva una donna bianca dall’aggressione di un uomo di colore; solo per apprendere, sbalorditi e quasi delusi, che è un’afroamericana proprio come loro, solo dalla pelle più chiara. E ancora, in un romanzo di Boris Vian, Sputerò sulle vostre tombe, il protagonista è un afroamericano che grazie alla pigmentazione particolarmente favorevole riesce a spacciarsi per bianco e a vendicarsi, in un bagno di sangue, dei razzisti che gli avevano ammazzato il fratello. Un’eccezione piuttosto insolita forse c’è, ed è Iron Eyes Cody, un attore che per mezzo secolo ha interpretato soltanto ruoli di nativi americani: tutti lo credevano autentico Cherokee, ma a novanta e passa anni si scoprì che era figlio di Antonio De Corti e Francesca Salpietra, immigrati negli Stati Uniti… dalla Sicilia.
La scrittrice Alice Walker coniò nel 1982 il termine “colorismo” per indicare quel trattamento preferenziale riservato agli afroamericani dalla pelle più chiara all’interno della loro stessa razza; la nozione che avvicinarsi alla bianchezza equivalga a maggiori opportunità lavorative e d’integrazione in società. Una sorta di razzismo autoimposto, che vediamo declinato in mille forme nelle diverse culture: dalla pervasività delle creme sbiancanti in India e in Estremo oriente alle agenzie pubblicitarie occidentali che in barba alle prevedibili critiche decidono di “schiarire” di tanto in tanto qualche testimonial di colore; per finire con le polemiche di carattere simbolico-sociale nei confronti di Michael Jackson, reo di aver coperto gli effetti della vitiligine ricorrendo a sostanze sbiancanti, o della rapper Lil’ Kim, che pur non avendo mai rinunciato alla sua identità afroamericana ha suscitato perplessità e dibattiti per il suo look, che rinnega, secondo alcuni, le caratteristiche della sua etnia. Il punto è, ancora una volta, capire se il concetto di automutilazione razziale, di autodeterminazione identitaria è da respingere per una questione di solidarietà con le sofferenze di chi non ha potuto scegliere. Se partiamo dal presupposto che l’esperienza che più unisce chiunque abbia la pelle nera sia quella del razzismo, che la pelle nera è vincolata a una innegabile condizione di svantaggio, questo complica ancora una volta la nostra posizione riguardo a persone come Dolezal. Dice lo storico Noel Ignatiev: “Se rinunciare alla propria bianchezza è una forma di privilegio, cos’è allora il non volersene liberare?”
Caccia alle streghe
Le reazioni al pezzo di Tuvel si possono spiegare col clima particolare che sta attraversando la cultura americana, stretta da un lato dall’indignazione ininterrotta del mondo accademico e radical, dall’altro dal risentimento dei bianchi e della classe media degradata. Nel primo caso si sta verificando una riorganizzazione della militanza a difesa dei perimetri identitari che assume modalità anche molto rigide, a discapito di una certa compassione per la buona fede del prossimo: vedi il caso del Whitney Museum di New York, dove fu esposto un quadro raffigurante Emmett Till, un ragazzo afroamericano brutalmente linciato in Mississippi nel 1955. Il fatto che l’opera fosse stata dipinta da un’artista bianca provocò una indignazione tale che diversi intellettuali firmarono un appello in cui non solo chiedevano la rimozione dell’opera, ma addirittura il suo incenerimento. Un atteggiamento nei confronti del quale noi europei mostriamo un notevole scetticismo, abituati come siamo a una filosofia che ha digerito secoli se non millenni di “appropriazioni culturali” (il Medioevo arabo che assorbiva il bizantinismo mentre lo distruggeva, il Romanticismo tedesco che si innamorava dell’Italia in crisi, e così via), al punto che le posizioni più intransigenti ci sembrano francamente incomprensibili; e d’altra parte, occupati come siamo ad anchilosarci su questioni nazionali o novecentesche di classe, manteniamo un razzismo così radicato da non farci capire nemmeno cosa ci sia di male in una blackface.
Le reazioni si possono spiegare col clima che sta attraversando la cultura americana, stretta tra l’indignazione del mondo accademico e radical, e il risentimento dei bianchi e della classe media degradata.
È vero che può esistere una certa violenza dell’astrazione, che tenta di decidere quali differenze siano equivalenti e quali no: “La filosofia, e la teorizzazione accademica in senso più vasto, è spesso colpevole di questa violenza manageriale, che astrae le differenze su corpi materiali ed esperienze che i teorizzatori non possono abitare, né condividere”, scrive il filosofo Ani Dutta. Ma leggere tentativi come quello di Rebecca Tuvel come esempio di una tendenza sistemica mi sembra una forzatura; soprattutto dato che la filosofa non vuole giudicare nessuna specifica identità, né buttare giù una cartografia del “valido” e dell’“invalido”, ma piuttosto ragionare sulla potenziale validità di un argomento, rigettato aprioristicamente dalle maggioranze.
Questo vuol dire che dovremmo forse riconoscere l’autoidentificazione di un individuo in qualunque cosa scelga di essere? Per esempio una sedia, o una lucertola? La questione non è poi così peregrina, visto che ci sono delle persone, che vanno sotto il nome di “otherkin”, che si definiscono come non-umane e vorrebbero essere riconosciute come tali; possono contare su una discreta comunità online, e una newsletter decennale (l’Elfinkind Digest, lanciata del 1990 da uno studente dell’Università del Kentucky per “elfi e altri osservatori interessati”). Sullo stesso piano, forse con modalità più drammatiche, si propone il caso di chi soffre di “dismorfia corporale”, o disturbo dell’identità corporea, che lo induce a pensare che i propri arti non appartengano effettivamente al proprio corpo, e fa di tutto per disfarsene.
Secondo Tuvel questo confronto non regge, perché in questo caso vengono meno due componenti necessarie per l’auto-identificazione in un dato gruppo sociale (o razziale, o sessuale): la possibilità che quella persona sappia cosa vuol dire esistere ed essere trattata come membro di quella categoria, o dei membri preesistenti che ne riconoscano l’autoidentificazione. Per esempio, se è possibile per una famiglia afroamericana adottare un bambino indiano dalla pelle nera, che fin dalla tenera età è cresciuto a tutti gli effetti come un afroamericano, è piuttosto difficile trovare degli elfi che riconoscano la mia autoidentificazione come elfo; Rachel Dolezal, per quanto eticamente compromessa possa suonare la sua storia, potrebbe dimostrare di aver davvero fatto esperienza di cosa voglia dire spacciarsi per donna di colore in una città, Spokane, a stragrande maggioranza bianca. È più difficile, invece, che una persona possa dimostrare di aver vissuto dieci anni da Torre Eiffel o da unicorno.
Io stesso, scrivendo questo pezzo, ho scelto di camminare su un campo minato, infrangendo una serie di regole non scritte del galateo progressista: ho parlato di transgender, e mi identifico come cisgender; di persone di colore, e mi identifico come bianco; di donne, e mi identifico come maschio. In definitiva, ho corso questo rischio sapendo di poter contare, spero, sulla comprensione del bacino culturale che frequento – il quale, per il momento, ha caratteristiche diverse da quello tipico accademico americano. Ma questa non vuole essere una scusa per non affrontare il famoso “privilegio” e svignarsela, quanto piuttosto un riconoscimento della futilità, dell’impossibilità di pronunciarsi ontologicamente sulle affermazioni identitarie di qualsiasi tipo; focalizzandomi, piuttosto, su ciò che ciascuno davvero “fa” – qualunque sia la sua posizione – invece che su ciò che ciascuno “è veramente”. L’alternativa – la vediamo già adesso – è quella di arrendersi all’idea che solo alcune persone abbiano il diritto di esprimersi legittimamente su certi temi: una cultura del selfie, applicata al mondo culturale, dove non si farebbe altro che scattare foto di noi stessi, smettendo di considerare o riflettere sulle vite degli altri.