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na geografia planetaria della sinistra. Una mappa mondiale di tutti i suoi colori. Un identikit esauriente dei passaggi storici cruciali e dei protagonisti che li hanno animati con la riscoperta dei testi e dei discorsi originali. Una ricostruzione dei principali crocevia della storia nei quali si è trovato il fronte progressista negli ultimi trent’anni. Il saggio Tutti i colori del rosso (2024, introduzione di Massimiliano Tarantino, postfazione di Giorgia Serughetti) del giornalista Gabriele Santoro è un affresco da usare soprattutto come arma pacifica, non solo per fare memoria, ma soprattutto per porsi nuovamente domande cruciali, sciogliere nodi, costruire futuro. Perché vale ancora la pena non considerare perduta la grande partita della sorte dei popoli e delle persone, finché ci sono guerra, fame, povertà, assenza di lavoro e assistenza sanitaria.
Non si tratta di rianimare il dipinto a olio del 1901 di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Siamo piuttosto chiamati a ripercorrere una trama complessa quale è stata l’odissea mondiale delle sinistre, sempre tessuta con l’intento di cambiare il mondo, ma fatta anche di abbagli, utopie, occasioni perdute, aspettative deluse, risacche all’indietro.
Dal bianco del pacifismo al fucsia del femminismo, dal verde dell’ecologismo all’arcobaleno dei nuovi diritti LGBTQ+, Tutti i colori del rosso ci accompagna in un viaggio globale (anche con interviste critiche inedite a Fausto Bertinotti, Emma Bonino, Susanna Camusso, Luigi Manconi, Rosy Bindi, Sergio Cofferati, Pietro Bartolo e Livia Turco) che, da Mitterrand a Blair, da Obama a Lula, torna a farci riflettere su aspettative e inciampi del fronte riformatore e progressista, per rilanciare l’antica sfida anche nell’epoca dell’intelligenza artificiale, dei populismi e dei sovranismi, delle potenzialità ma anche delle nebbie del “secolo digitale”.
Da dove nasce l’idea di un progetto tanto ambizioso?
Talvolta accade che pezzi di vita si ricompongano come le tessere di un mosaico. Ai tempi del liceo, avevo 17 anni, intervistai
Pietro Ingrao. Erano i tempi della globalizzazione, del mondo uscito dalla caduta del Muro di Berlino e della cosiddetta fine della Storia, dimostratasi infondata. Ingrao, in quella occasione, fu molto vivace e attento nell’approfondire questi problemi con un adolescente, tanto da lasciarmi un segno che avrei sviluppato negli anni a venire. Di lì a poco assistemmo anche al ritorno della guerra: le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche che hanno segnato la riesplosione dei nazionalismi. Tutti ci interrogavamo sempre di più su che mondo si stava disegnando e quale ruolo avrebbe avuto la sinistra. Lungo questo percorso, anche personale, ho avuto il primo incontro con la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, in occasione di un articolo di approfondimento che mi è stato proposto di scrivere sul 25 aprile. Da allora sono nati una serie di reportage. Parallelamente sono stato coinvolto in una riflessione sulla più generale crisi della sinistra che ha preso forma nell’ambito dell’Osservatorio su storia e memoria di questa importante istituzione. Poi da un’idea del direttore della Fondazione Feltrinelli, Massimiliano Tarantino, si è concretizzato questo progetto.
Vastissimo, oserei definirlo. Quali confini vi siete dati per delimitare questo continente politico?
Abbiamo scelto alcuni aspetti principali come ad esempio la crisi della socialdemocrazia europea o il rapporto tra Nord e Sud del mondo. Sono alcuni snodi cruciali per analizzare la crisi strutturale delle sinistre che risale agli anni Ottanta. Poi abbiamo individuato la figura politica protagonista con responsabilità di governo di quei momenti topici. Infine, abbiamo analizzato il tema correlato alla vicenda, creando otto percorsi tematici. Il movimento del libro è retrospettivo per sfuggire al presentismo. Ricostruisce un’autobiografia politica, quel che è capitato alle sinistre europee e internazionali nell’ultimo mezzo secolo, toccando l’attualità e affronta le domande del futuro.
Con quale criterio sono stati scelti gli eventi e sviluppati i temi?
Il panorama poteva apparire sconfinato, ma abbiamo deciso di accendere una luce su fatti che avessero una ricaduta ancora attuale. Un esempio: il capitolo su Mitterrand è fortemente collegato al tema dell’immigrazione, che oggi è sempre di più all’ordine del giorno. All’inizio, quando non era ancora così centrale e decisivo nella comunicazione politica, la sinistra francese si pose in una prospettiva chiara e di rottura, facendo dell’accoglienza della diversità la propria stella polare. Poi iniziò a ritrarsi, parallelamente alla crisi di rappresentanza della sinistra stessa e al fatto che l’immigrazione iniziava a essere cruciale nelle campagne elettorali. Non a caso è per la prima volta proprio in Francia che si presenta un caso come quello di
Le Pen e del Front National che impone il proprio linguaggio contro gli immigrati. Davanti a questo nuovo e allora inaspettato fenomeno, il discorso della sinistra si scompiglia e una identità non sempre chiara comincia a balbettare, non trovando argomenti e posizioni salde per controbattere alle accuse di buonismo e lassismo che le venivano dalle destre.
Fotografie senza sconti, dunque. Ma qual è il contributo nuovo?
Ogni capitolo offre un doppio livello: da una parte inquadra la fase storica, dall’altra offre il risultato. Si comprende così più facilmente che le questioni affrontate non sono affatto sorpassate, ma ognuna contiene una domanda apertissima ancora oggi. Una domanda alla quale le sinistre sono chiamate a rispondere.
Dunque, si tratta di nodi che andrebbero tuttora affrontati e per i quali ancora va cercata una soluzione, o almeno una strategia politica per impattarli.
È proprio questa la chiave di lettura. Il lavoro è un viaggio nella storia della sinistra ma anche nelle questioni chiave del nostro tempo. Per fare altri esempi, se parli oggi di
Willy Brandt guardi alla costruzione della pace, se parli di Tony Blair riapri le lacerazioni causate dalla guerra in Iraq e dagli esiti della Terza via, un momento di rottura per lo stesso partito laburista inglese. Ugualmente accade se parli dei Balcani. Sullo sfondo di tutti questi scenari e protagonisti restano le questioni attualissime dei movimenti pacifisti: cosa fare nei contesti internazionali di crisi? Da qui si arriva facilmente ad affrontare anche la crisi delle Nazioni Unite. Che fare, dunque, nel caso di conflitti a più dimensioni? Che spazio c’è per chi rivendica la pace?
Sembrerebbe necessario un pensiero nuovo, più ampio…
Questa è l’idea. Nella stagione politica attuale, in questo presente che sembra un po’ a-storico e che toglie terreno sotto i piedi, viene tagliata l’aria e il respiro alla fase di analisi e riflessione sulle scelte decisive. Una buona ricetta, allora, potrebbe essere quella di fare la scelta opposta: non inseguire terapie immediate, non autoflagellarsi, ma analizzare scelte e orizzonti più ampi, restituire complessità alla politica, quella stessa che si è perduta per un eccesso di semplificazione che non si è rivelato alla lunga vincente. Il significato etico della politica non si ritrova in astratto, ma nell’asprezza della lotta e del fare.
Si tratta di una proposta per ricominciare tutto daccapo?
Nel riformismo debole di questi anni la sinistra è sembrata scomparire senza sapersi ricollocare all’altezza dei conflitti reali e più radicali. Occorre almeno restituire un senso alle parole. A proposito del presidente brasiliano Lula, ad esempio, si dice sempre ‘compromesso’. Ma che cosa vuol dire? Come lo si legge oggi? Il termine suona quasi sgradevole, ma in politica il compromesso è ineludibile. Allora: fin dove ci si può spingere? A che livello si può portare un compromesso? Come non perdere le ragioni storiche della propria battaglia quando lo si deve praticare? Trovo che Lula abbia una biografia unica e straordinaria. Veniva da una realtà molto povera, ha fatto un percorso che lo ha portato a concepire una cosa nuova, ovvero rendere i poveri parte dei processi democratici, farli partecipare alla vita politica e sociale. Dunque, non soltanto sfamare i poveri o migliorare le loro condizioni, ma rendere milioni di persone una entità politica. Questo è il tratto importante dell’esperienza di Lula. Ha avuto la capacità di attraversare diverse stagioni, con programmi sociali di vasta portata ed è stato capace di mostrarli a livello internazionale. Spesso lo si riduce, invece, all’arte del compromesso. Va anche bene, ma allora interroghiamoci: fino a che punto ci si può spingere nel compromesso in politica? Qual è per la sinistra oggi il senso del conflitto e del compromesso, quando la storia lo presenta come necessario?
Forse si tratta di trovare un punto di equilibrio.
Sì, un equilibrio diverso. Con la globalizzazione sono venuti meno i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra, quando si è rivelato inagibile quel compromesso democratico tra il capitalismo e la democrazia. Posso fare un altro esempio, quello della ex sindaca di Barcellona Ada Colau. Quando era una attivista politica del movimento per la casa e si confrontava con le istituzioni e i partiti di sinistra si sentiva quasi sempre rispondere: vorrei ma non posso. Questo solleva un’altra questione cruciale per la sinistra: l’impotenza attuale di fronte alle sfide. E questa, a sua volta, se ne trascina dietro un’altra: il ruolo culturale della politica, l’importanza della sua gratuità e della sua ambizione più alta. In una lunga intervista, che mi rilasciò,
Alfredo Reichlin diede questo ritratto: “I mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione nel senso che governano il simbolico che è pur necessario. Le grandi decisioni vengono prese altrove, il tema di fondo è la crisi della democrazia. Chi comanda? L’oligarchia finanziaria dominante, la libera circolazione dei capitali, il capitale va dove vuole che vada questo potere difficilmente definibile”.
Quelle che avete trattato sarebbero dunque tutte lezioni da imparare, ma non ancora pienamente metabolizzate?
Penso che ognuno di questi percorsi che abbiamo analizzato, senza revanscismo né criticismo fine a sé stesso, indichino qualcosa. Il capitolo sul lavoro, per segnalare un altro aspetto del volume, è dedicato a
Matteo Renzi e al Jobs act. In realtà si tratta di una occasione per riflettere sulle politiche sul lavoro da parte del centrosinistra italiano. È la cartina al tornasole più concreta per chiedersi: che rapporto ha oggi la sinistra con il mondo del lavoro? C’è stato un progressivo distacco della capacità di rappresentarlo. Una chiave per una svolta sarebbe quella di rappresentare i diritti sociali, dare voce alle realtà dei territori, accorgersi delle trasformazioni più radicali. Oggi siamo di fronte a un fenomeno sconcertante come quello del lavoro povero, ovvero c’è chi lavora ma diventa o resta povero, nonostante abbia un impiego. Occorre rivendicare il diritto di lavorare fuori da una condizione di povertà. Oggi non c’è più sicurezza sociale e autosufficienza economica anche da gran parte di coloro che svolgono un mestiere. Ma questa realtà non è stata intercettata in tempo e non è stata presa in considerazione nei suoi effetti a lungo termine. Non si è trovata la capacità di reinterpretare le esigenze nuove di chi ha vissuto la stagione più dura della precarizzazione del lavoro. Qual è oggi una definizione di lavoro? Forse l’automazione? E allora, quali risposte dare a questa crisi di rappresentanza?
L’altro elemento che sembra trarsi da Tutti i colori del rosso è che senza una visione globale delle questioni cruciali del nostro tempo è più difficile misurarne la portata e cercare una via di uscita.
È inevitabile guardare al mondo intero. Questa idea l’abbiamo avuta ben chiara sin dall’inizio del progetto. Non per caso il primo capitolo è dedicato a Brandt e al suo sforzo di uscire dall’eurocentrismo, allargando gli orizzonti. Il respiro internazionale è indispensabile per avere una visione più ampia delle cose del mondo. A questo proposito, devo tornare a riferirmi a Lula. Il Brasile può essere anche spiegato come un contesto specifico, anche se ormai non lo è più di tanto, visto che anche da noi i poveri aumentano. Tuttavia da lì sono venute domande pressanti per il mondo intero. Penso alle sfide tra partiti e sindacati, agli interrogativi su come partiti e sindacati debbono reinventarsi. Questi sono e restano aspetti attualissimi e globali, dentro i quali si annidano contraddizioni non risolte. Prendiamo la questione dell’ambiente: Lula ha finanziato vasti programmi sociali, usando le risorse provenienti dallo sfruttamento delle materie prime con le grandi compagnie petrolifere. O ancora per la salvezza dell’Amazzonia, come trasformare il tradizionale progetto estrattivo? Sul clima è diventato necessario per la sinistra trovare un linguaggio nuovo. Il tema fa parte ormai della nostra quotidianità, pone una domanda sempre più pressante su come cambiare i livelli produttivi o gli stili di vita. Eppure il linguaggio del negazionismo sembra non trovare ancora un corrispettivo altrettanto adeguato e popolare che spieghi le ragioni profonde dell’ambientalismo. Sono tutte sfide urgenti, sulle quali la sinistra deve per forza cimentarsi.
Un capitolo particolarmente significativo mi è sembrato quello su Obama e la riforma del sistema sanitario americano.
Una questione che ricade immediatamente anche su di noi. La tenuta del sistema sanitario nazionale è all’ordine del giorno in Italia come la più importante, dalle liste di attesa al boom del settore sanitario privato. Obama condusse una battaglia per spingere verso un sistema di tipo europeo, mentre qui da noi si marciava verso la privatizzazione. Questa storia ci restituisce una domanda e una sfida: che cosa significa oggi riformismo? Abbiamo di fronte tempi sempre più stretti di azione, corpi elettorali sempre più lontani dalle epoche che segnarono le origini dei diritti conquistati dal basso. Obama era partito dall’idea di un sistema quasi universalistico, alla fine è arrivato un compromesso in base al quale ha dovuto rinunciare all’idea originaria. Ma milioni di americani in più hanno avuto comunque una copertura sanitaria più accessibile. Perciò è un buon tratto di storia politica del nostro tempo in base al quale chiederci: cosa si intende nel 2025 per riformismo? Quale rapporto ha il riformismo con servizi essenziali come la sanità? Mentre si va sempre più verso la distruzione piuttosto che la costruzione di orizzonti politici, ridare concretezza al riformismo è una delle sfide in campo.
Ogni capitolo dedica anche un ritratto al protagonista della politica progressista nella fase storica analizzata. Perché questa personalizzazione?
Fare questi ritratti è stato utile sempre nell’ottica di una storia collettiva. Ci ha consentito di restituire alle cose quella complessità che si va smarrendo. Il ritratto non cede ad alcun culto narcisistico, ma porta l’io alla dimensione del noi. Il ritratto di Mitterrand ha significato esplorare il rapporto della Francia con l’Africa. Di Obama abbiamo ricordato uno dei suoi discorsi più importanti, pronunciato nel cinquantesimo anniversario della marcia di Selma, che illumina l’eredità e l’attualità del Movimento per i diritti civili e mostra come le stagioni della politica si uniscono e si mettono in marcia. Brandt lo abbiamo ricordato a Varsavia, nel gesto di inginocchiarsi dinanzi al monumento del ghetto. C’era, in quel gesto, un’idea alta della politica e del nostro rapporto con la memoria. Una politica non rivendicativa, non istituzionalizzata, ma che invece si fa carico di una colpa, di una storia, di riconoscere gli errori del passato. Questa è l’idea di politica che abbiamo inseguito e cercato di indicare, ricostruendo queste storie. E questa idea di politica è passata da personaggi concreti e da momenti ben precisi della storia. Nel disordine mondiale in cui siamo immersi, un’idea di Europa che sappia uscire dalle costruzioni meramente tecnicistiche, tornando allo spirito originario dell’Unione, deve per forza passare dal gesto di Brandt. Quell’idea politica che era alla base dell’Unione è andata via via scemando lungo il tempo. Oggi ne vanno ritrovate le ragioni. È una delle sfide più importanti a cui è chiamata la sinistra.