H
ai mai avuto la sensazione di essere senza pelle?”
“Cosa intendi?”
“Ti sei mai sentita come se ogni tua singola estremità nervosa fosse esposta al punto che anche il piú lieve tocco ti feriva?”
Silenzio.
“Immaginavo che non ti fosse capitato. Va bene. Lo so che ho bisogno di un po’ di riposo”.
Questo è Dan, ennesimo caso di top executive della Silicon Valley a cui è stata diagnosticata una sindrome maniaco depressiva. Il racconto lo vuole seduto a guardare il vuoto in silenzio mentre mostra la sua pelle ferita a una collega, Julia Lieblich. Dan è il classico imprenditore di successo, adrenalina a mille per settimane, sempre sveglio, sempre a dormire quattro ore a notte e sempre connesso, fino al collasso.
Di recente, il disagio mentale è diventato un problema esplicito nella Silicon Valley. Un articolo su “The Atlantic” denunciava tassi di suicidio sempre piú elevati tra i giovani delle scuole superiori, sotto pressione per avere successo subito. Negli ultimi anni i tassi di suicidio sono aumentati anche tra gli adulti, inducendo una discussione delicata sulla salute mentale nel mondo delle start up, imprese con una percentuale di fallimento del 75 per cento, che raggiungono il successo quando i fondatori danno anche il sangue, pur di non fallire, smettono di dormire, moltiplicano le ore di lavoro, cercano di rimanere sempre attivi, con qualunque mezzo necessario. Icone di Silicon Valley come l’imprenditore e autore Tim Ferriss parlano di biohacking per stare al passo con la velocità del mercato.“Esattamente come un atleta olimpico farebbe di tutto per una medaglia, anche al costo di togliersi cinque anni di vita, tu prenderai qualunque pillola o pozione tu possa prendere. (…) Nella mente delle persone, la differenza tra fare milioni di dollari e fallire sta tutta qui”, ha dichiarato in un’intervista a Cnn.
Ferriss sostiene il ricorso a nootropi per migliorare il proprio QI, in una specie di self-management farmaceutico per funzionare meglio. E allora c’è chi prende Modafinil per rimanere in piedi la notte, Piracetam per migliorare le proprie performance cognitive, Aniracetam per favorire l’apprendimento, Ciltep per rimanere concentrati per ore. In questo gioco non ci sono solo le smart drugs, ovviamente, ma anche anfetamine come l’Adderall, la coca e il meth per continuare a lavorare per giorni, l’eroina fumata o iniettata, antidolorifici come l’Oxycodone o sedativi come lo Xanax.
Michael Freedman ha evidenziato che gli imprenditori della Silicon Valley hanno probabilità doppie rispetto a chi svolge altre occupazioni di soffrire di depressione o di avere pensieri suicidi, triple di avere una qualche forma di dipendenza, sei volte maggiori di soffrire di deficit di attenzione/iperattività, dieci volte maggiori di avere un disturbo bipolare.
L’economia dell’attenzione produce nuovi clienti come gli spacciatori creano nuovi tossici.
Secondo uno studio condotto da Murdoch e altri psichiatri dell’Università di Syracuse, la salute mentale degli imprenditori nella Silicon Valley non va letta solo in funzione della personalità additiva degli imprenditori, ma anche o forse soprattutto a partire dall’attività che svolgono. L’euforia e il panico dei mercati finanziari si riflettono sulla vita psichica degli imprenditori, portando a picchi di onnipotenza ed esaltazione quando i capitali abbondano e alla depressione quando il mercato stagna. Quando avere successo significa lavorare 18 ore al giorno e dormirne una manciata a settimana, tutto va fuori controllo rapidamente.
Nella Silicon Valley, insomma, sembra esserci una specie di economia politica del disagio psichico che ha a che vedere da un lato con lo stretto legame che sussiste sin da principio tra la finanza e il digitale e dall’altro con la straordinaria concorrenza che regola il mercato dell’attenzione. Se da principio il digitale è stato funzione dell’incertezza finanziaria – basti pensare al boom di investimenti in titoli tecnologici tra il 1997 e il 2000 – nella vita quotidiana questo significa lavorare per giorni di fila cercando in tutti i modi di manipolare la propria soglia dell’attenzione per non fallire.
Per parlare di dipendenze nell’industria digitale bisogna partire da qui, non solo perché la questione attraversa l’intero sistema, dagli imprenditori e Ceo agli utenti, ma perché non c’è modo di parlare di dipendenze senza esplicitare la violenza che attraversa l’intera filiera dell’attenzione, dalla cattura dei finanziamenti alla cattura dei clienti.
Era stato Michael H. Goldhaber in un articolo chiamato Attention Shoppers! pubblicato su “Wired” nel 1997 a evidenziare come la moneta nella New Economy non fosse piú il denaro ma esattamente l’attenzione. Si tratti di comunicazione o di marketing, tutto ciò che accade quando qualcuno concorre nel mercato è che cerca di catturare la nostra attenzione per un istante. Piattaforme come Facebook, Instagram, Netflix, Wikipedia o Tinder fanno una cosa simile: tentano di attrarre la nostra attenzione e di non perderla successivamente. Per avere successo nel mercato contemporaneo, pertanto, serve banalmente un meccanismo di cattura, un gancio.
Per Nir Eyal, profeta dell’ingegneria comportamentale, l’economia dell’attenzione produce nuovi clienti come gli spacciatori creano nuovi tossici. Il tutto avviene in quattro passi: per prima cosa c’è un trigger – una specie di innesco che può dipendere da condizioni interiori o esterne, per esempio la noia oppure l’ansia e la frustrazione. È questo trigger che scandisce il ricorso a un preciso prodotto digitale in modo automatico e compulsivo. Per creare un’abitudine, poi, bisogna che la gratificazione sia in potenza tale da indurre a riprovarlo, come succede con il piacere che nasce dal sentirsi prescelti su Tinder o Instagram.
La paura, la solitudine, la frustrazione, la confusione e l’incertezza sono le emozioni maggiormente correlate all’utilizzo incrementale di mail o di Internet, chat, videogiochi o video online.
Di fatto, le emozioni negative sono i trigger piú diffusi nella società digitale. La paura, la solitudine, la frustrazione, la confusione e l’incertezza sono le emozioni maggiormente correlate all’utilizzo incrementale di mail o di Internet, chat, videogiochi o video online. Come spiegano Chellappan e Kotikalapudi dell’Università della Scienza e della Tecnologia del Missouri, l’attività online è fortemente correlata all’esistenza di sintomi depressivi o emozioni negative, al punto che la maggior parte delle nuove tecnologie ha anzitutto lo scopo di sedare la solitudine: il meccanismo di cattura dell’economia dell’attenzione fa leva su una qualche fragilità interiore per agganciarci a una serie di automatismi digitali come fossimo zombie. Tossici digitali.
I risultati sono discussi da tempo. Nicholas Kardaras, per esempio, direttore esecutivo del centro di riabilitazione di East Hampton, ha parlato di eroina digitale. Non c’è differenza sostanziale tra la tossicodipendenza e gli effetti degli smartphone, dice, e sebbene una parte della stampa e dell’accademia abbia trovato questa sua provocazione eccessiva, al punto che la rivista “The Verge” ha definito la sua analisi “spazzatura”, l’espressione di Kardaras è stata efficace nel richiamare l’attenzione sui possibili effetti collaterali delle nuove tecnologie.
Kardaras non è l’unico a mettere in guardia rispetto alle conseguenze derivanti dall’uso continuo di prodotti digitali. Il meccanismo di cattura dentro il quale siamo ci porta continuamente a rivolgerci alla rete per cercare risposte precludendo cosí la nostra autonomia: se l’esistenza di una società prende forma dalla capacità di tessere concatenamenti linguistici, verbali, emotivi, emozionali, tra un organismo e l’altro, inventando le mappe cognitive sulla base delle quali orientare la condotta collettiva, è come se queste mappe fossero oggi preda del capitalismo digitale, che le sequestra dentro un immaginario on demand mentre ci confina a lavorare sempre piú nello scantinato di casa.
Qual è il costo sociale di questa continua cattura? Già nel 2007 Gloria Mark ci diceva che ogni volta che ci distraiamo, ci mettiamo 23 minuti e 15 secondi a ritornare a quello che stavamo facendo. Mark era preoccupata per le conseguenze della distrazione, per cosí dire, nella sfera produttiva, ma il problema non è solo la distrazione a lavoro.“Ogni status update che leggi su Facebook, ogni tweet o messaggio che ricevi da un amico, – scrive Daniel J. Levitin in The Organized Mind, – si traduce in un conflitto per sottrarre parte del tuo cervello da altre cose importanti, che siano i tuoi investimenti in titoli o azioni, dove hai lasciato il passaporto o come riconciliarti con un amico con cui hai appena avuto una discussione”.
Il punto non è semplicemente il processo di cattura e le sue conseguenze, ma come tale cattura mini alla base la nostra autonomia, portando, dicono i neuroscienziati, il nostro cervello a ragionare come uno smartphone, in modo discontinuo, distratto, continuamente impegnato a fare altro per poi essere costretto a riprendere le fila dei propri pensieri come questi fossero stati sequestrati, sino a sabotare funzioni vitali semplici come comunicare con le persone che abbiamo accanto, attraversare una strada senza tenere la faccia appiccicata al telefonino o semplicemente non scorrerne lo schermo circa 2617 volte al giorno, buona parte delle quali inconsapevolmente.
Le mappe che orientano la condotta collettiva sono oggi preda del capitalismo digitale, che le sequestra dentro un immaginario on demand mentre ci confina a lavorare sempre piú nello scantinato di casa.
Herbert Marcuse anni fa osservava come i grandi marchi internazionali fossero riusciti a estendere i propri meccanismi di cattura alla sfera domestica, consentendo alle loro pubblicità e al loro marketing di entrare sin dentro le nostre camere da letto. Ora questo meccanismo raggiunge ogni angolo della nostra vita, cercando spazi di intimità da trasferire nel flusso informativo del capitalismo globale, in un continuo furto di attenzione, stati d’animo, intimità.
Siamo dentro un sistema predatorio, diceva Mark Fisher, “che concentra potere e assets nelle mani dei piú ricchi e viene descritto come (…) un sistema aperto e partecipativo, – eppure, – non sono gli individui o gruppi umani ad avere accesso senza limiti alla ricchezza o all’informazione, ma è il cyberspace capitalista che ha accesso infinito a noi, al nostro sistema nervoso, ai nostri appetiti, alla nostra energia, alla nostra attenzione. Diventiamo un canale attraverso il quale il capitalismo comunicativo circola e prolifera, schiavi dell’urgenza del click, un’urgenza che erode la nostra capacità di controllare i nostri impulsi e allo stesso tempo tiene un registro permanente di tutto ciò che facciamo”.
I social sono ovviamente l’esempio piú manifesto di tale processo di cattura, ma la profilazione digitale, l’utilizzo dei nostri dati per l’estrazione di un plus-valore laterale, come lo chiama Tiziana Terranova, “la vendita della pubblicità, la proprietà e la vendita dei dati prodotti dall’attività degli utenti, la capacità di attrarre investimenti finanziari sulla base della visibilità e del prestigio di nuovi marchi globali come Google e Facebook” non solo beneficia i ricchi ma mina la nostra libertà di agire nel mondo come vogliamo.
Estratto da THE GAME UNPLUGGED, AA. VV., a cura di Valentina Rivetti e Sebastiano Iannizzotto, © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino