“T ortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera: […] che si è introdotta illegalmente ne’ secoli della passata barbarie: e che finalmente oggigiorno varie nazioni l’hanno abolita e la vanno abolendo senza inconveniente alcuno”. Con queste parole nel 1777 Pietro Verri chiude le “Osservazioni sulla tortura”, una delle opere che nei secoli successivi ha contribuito alla condanna della pratica in tutto il mondo. A 250 anni di distanza, però, qualche “inconveniente” resiste ancora tanto che proprio l’Italia è sprovvista nel suo ordinamento di un reato di tortura. Eppure il nostro Paese nel 1988 ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite che lo prevede esplicitamente e che ci è costata negli ultimi trent’anni diverse condanne per inadempienza.
L’ultima ha a che fare con una delle pagine più buie della storia repubblicana: “Centinaia di cittadini non erano solo stati privati della libertà, non erano solo stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli così profondamente da ledere la dignità umana”. Nel libro Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (edito da Einaudi), l’ex magistrato Roberto Settembre descrive così i fatti accaduti nella caserma di Genova nei giorni del G8 tra il 20 e il 23 luglio 2001. Settembre è stato giudice a latere della Corte d’Appello nel processo a 43 pubblici ufficiali, accusati di aver commesso più di cento reati contro oltre duecento parti offese. La vicenda giudiziaria in questione si è chiusa con la sentenza della Cassazione del 14 giugno 2013 che ha previsto la condanna di sette persone, l’assoluzione per quattro imputati e la prescrizione dei reati per altri 33.
Secondo le motivazioni della sentenza nella caserma si verificarono “violenze senza soluzione di continuità”, in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”, che comportarono un “completo accantonamento dei principi cardine dello Stato di diritto”. Una volta concluso il procedimento legale in Italia, sessantacinque tra italiani e stranieri hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani per maltrattamenti e tortura, denunciando l’inefficacia dell’inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto. Lo scorso aprile sei di questi hanno raggiunto una “risoluzione amichevole” con il governo italiano che, a ognuna delle vittime, riconoscerà un risarcimento di 45 mila euro per danni morali e materiali e per le spese processuali. Con l’accordo, si legge nella decisione della Corte, l’Italia dichiara di aver: “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate e si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani”.
Sessantacinque tra italiani e stranieri hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani per maltrattamenti e tortura, denunciando l’inefficacia dell’inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto.
Una mancanza legislativa che la Corte di Strasburgo aveva condannato già nell’aprile del 2015, quando il nostro Paese è stato giudicato colpevole di “torture” in relazione all’irruzione della polizia nella scuola Diaz di Genova, sempre durante il vertice del G8 del luglio 2001. In quell’occasione si faceva riferimento ai maltrattamenti subiti dal manifestante veneto Arnaldo Cestaro, all’epoca 61enne, che secondo la Corte venne “aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello” in assenza “di ogni nesso di causalità” fra il comportamento dell’uomo e l’utilizzo della forza da parte della polizia. Una condotta che secondo i giudici era qualificabile come “tortura”.
Sull’onda della sentenza qualche giorno più tardi, il 9 aprile 2015, la Camera dei deputati approva la proposta di legge numero 2168 che porta il titolo “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”, modificando il testo già approvato dal Senato. Per questa ragione il disegno, che aveva già avuto un iter travagliato essendo stato presentato nel giugno del 2013, torna di nuovo a palazzo Madama dove, tra promesse, polemiche e rinvii, il 17 maggio viene modificato e approvato con 195 sì, 8 no e 34 astenuti. Ora la “palla” passa di nuovo alla Camera.
Nella discussione del ddl, le forze politiche si sono divise tra chi, come Forza Italia, Lega e una parte della maggioranza, ha cercato di attenuare l’efficacia del reato sulle forze di Polizia, nel timore che ne possa intralciare il lavoro e chi invece ha tentato di introdurre uno strumento normativo – il più possibile definito – a garanzia del loro operato. Il risultato, figlio di numerose modifiche e compromessi, comporta l’introduzione nel Codice penale del reato di tortura (articolo 613-bis) con pene da 4 a 10 anni per “chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”.
Si tratta di un testo che allarga il campo del reato di tortura, che diventa imputabile a “chiunque” e non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece prescritto dalla Convenzione delle Nazioni Unite e da molti altri Paesi europei. Il ddl 2168, infatti, per le forze di Polizia prevede l’aggravante di un reato comune che, a seconda dei casi, può portare alla reclusione da 5 a 12 anni. Nello specifico se dal fatto deriva una lesione personale le pene sono aumentate di un terzo in caso di “lesione personale grave”, e della metà “in caso di lesione personale gravissima”. Se, invece, il fatto provoca la morte della vittima, quando si tratta di una “conseguenza non voluta” la pena è la reclusione a trent’anni, quando invece è causata da un atto volontario viene previsto l’ergastolo. Nel testo per il delitto di tortura i termini di prescrizione vengono raddoppiati.
Dalle violenze durante il G8 di Genova ai casi Cucchi, Uva e Aldrovandi – tre cittadini morti mentre erano sotto la custodia dello Stato – le conseguenze della mancata introduzione del reato di tortura in Italia sono evidenti.
Il disegno di legge approvato dal Senato è molto diverso da quello che era stato presentato nel 2013. Talmente tanto che il suo primo firmatario, il senatore Luigi Manconi, ha deciso di non partecipare al voto a palazzo Madama: “Il testo – spiega al Tascabile – è gravemente deficitario perché prevede il reato non come proprio ma come comune”. Una differenza che cambia la “filosofia” del ddl: “la tortura dovrebbe essere intesa come quell’atto di violenza fisica o psicologica derivante da un abuso di potere, che nasce dalla possibilità legale di privare qualcuno della propria libertà”. Secondo Manconi, che è anche il presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, prevedendo un reato comune qualunque cittadino che con particolare crudeltà provoca ferite a un’altra persona potrà essere condannato per tortura anche se questo tipo di reati potrebbe essere perseguito con le lesioni gravi o gravissime o con il tentato omicidio. “La modifica – spiega – introduce per il pubblico ufficiale o per chi esercita pubbliche funzioni solo un’aggravate e non una specificità del fatto criminale”.
Una differenza sostanziale che ha convinto il senatore a non accettare il testo nonostante ci fossero “molti amici e collaboratori di cui mi fido” che sostenevano l’importanza di introdurre una legge sulla tortura anche se non totalmente efficace. “Le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali – ha spiegato Manconi prima del voto in aula – tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà, o comunque loro affidate”.
Dalle violenze durante il G8 di Genova ai casi Cucchi, Uva e Aldrovandi – tre cittadini morti mentre erano sotto la custodia dello Stato – le conseguenze della mancata introduzione del reato di tortura in Italia sono evidenti e si riflettono soprattutto su due elementi: la responsabilità penale dell’accusato e la prescrizione. Per quanto riguarda il primo aspetto il senatore Manconi ricorda che “vari tribunali, per esempio quello di Asti o di Genova, si sono esplicitamente dichiarati costretti ad utilizzare fattispecie penali minori come lesioni o lesioni gravi perché quei comportamenti, che meritavano la definizione di tortura, non potevano essere definiti tali a causa dell’assenza del reato nel nostro Codice”. Dover utilizzare queste fattispecie, inoltre, ha avuto ricadute anche sulla prescrizione che in molti casi è arrivata prima che i tribunali riuscissero ad individuare i colpevoli. “L’importanza di avere un reato specifico – spiega al Tascabile Alessio Scandurra, uno dei responsabili dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone – in tanti casi vorrebbe dire banalmente avere il tempo per fare indagini che, in casi come questi, sono sempre molto difficili perché, ad esempio, il testimone finché è detenuto, e quindi sotto il controllo delle forze dell’ordine, è molto restio a denunciare”. In molti casi, infatti, secondo Scandurra i magistrati si trovano davanti a “un muro di gomma”.
Iniziative di legge al riguardo sono arrivate da sinistra come da destra. Allora perché non siamo ancora riusciti a rispettare l’impegno preso nel 1988 con la ratificata della Convenzione delle Nazioni Unite?
Il tema della prescrizione trova d’accordo anche il segretario del Sindacato autonomo di Polizia (Sap), Gianni Tonelli, che però in generale dichiara al Tascabile di essere fortemente contrario alla legge approvata al Senato. “Il nostro ordinamento – spiega – con riferimento ai comportamenti di tortura prevede già sanzioni per due vite di galera, eventualmente, se si deve fare qualche valutazione, è il caso di farla sulla prescrizione che però è una norma di diritto processuale, non sostanziale. Si tratta di ben altra cosa rispetto all’introduzione di un reato proprio, come era stato previsto in prima stesura, e che riteniamo inaccettabile”. Secondo Tonelli, infatti, la direzione da intraprendere dovrebbe essere quella di prevedere la non prescrittibilità di determinati comportamenti, non l’introduzione di una norma “figlia del pregiudizio ideologico e che esporrebbe le forze dell’ordine al ricatto da parte della delinquenza e della criminalità”. Per il segretario del Sap, il testo consentirebbe interpretazioni giurisprudenziali oscillanti che “non tutelerebbero la categoria” perché “farebbero saltare il confine sottile che separa l’uso legittimo della forza dall’abuso”. Un limite che il sindacato vorrebbe difendere con l’introduzione di “telecamere sulle divise e sulle volanti, a garanzia della purezza della funzione”.
Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, lo scorso gennaio durante il suo intervento alla cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano ha ribadito l’impegno del governo per l’introduzione del reato di tortura: “non possiamo perdere altro tempo nell’affermare un principio che tra l’altro ci viene richiesto anche in sede europea e internazionale”. Eppure l’Italia attende da trent’anni: il primo a provare a introdurre il reato è stato nel lontano 1989 il senatore Nereo Battello dell’allora Partito comunista italiano, ma negli anni ci hanno provato, tra gli altri, anche Silvio Berlusconi, che nel 1999 definiva il vuoto normativo “un inqualificabile inadempimento”, Piero Fassino e Lamberto Dini.
Iniziative di legge che sono arrivate da sinistra come da destra, ma allora perché non siamo ancora riusciti a rispettare l’impegno preso nel 1988 con la ratificata della Convenzione delle Nazioni Unite? Secondo Manconi la ragione va ricercata “nel vero e proprio complesso di inferiorità che la classe politica ha maturato nei confronti delle forze di Polizia”. Secondo il senatore nel corso degli anni della Repubblica gli uomini in divisa sono stati spesso strumentalizzati a fini politici, facendone “un uso spregiudicato e talvolta illegale per rafforzare alcune componenti del sistema contro altre”. Un modus operandi che nel tempo “ha ridotto l’indipendenza della politica nei confronti delle forze di Polizia e viceversa”. Allo stesso tempo, per Scandurra in Italia “la strutturale debolezza della classe politica impedisce a chi ci amministra di imporre decisioni, soprattutto quando confliggono con gli interessi di una categoria istituzionalmente importante come quella delle forze dell’ordine”. Un conflitto che però, per Manconi, si configura come un vero e proprio paradosso perché: “sanzionare penalmente gli atti definibili come tortura ha come primo effetto salvaguardare il prestigio di quei corpi e difendere l’onore della divisa che è stato macchiato da quei pochi, pochissimi, che commettono atti violenti e illegali”.
Immagine in copertina: campagna di comunicazione 2013 di Amnesty International visualizzabile a questo link.