C i sono due citazioni che mi ronzano in testa da quando, lo scorso 16 dicembre, è mancato Toni Negri:
La posizione di Negri è quella di chi dice “ah, come sono perseguitato! Mi si accusa di essere il capo e il mandante ideologico di tutto quello che è avvenuto in Italia negli anni Settanta: che tremenda ingiustizia!” e, mentre dice questo, in qualche maniera vuol far capire che è proprio così, che è vero. Mentre non è vero. Mi sembra che, nel bene e nel male, ci sia una sopravvalutazione. Negri è, secondo me, più innocente di quel che lui stesso pensa.
L’Autonomia è “un movimento di matrice cattolica (…), la Solidarność italiana, strumento contro la pretesa egemonia dei comunisti sul movimento operaio”.
Nello spazio che separa queste due citazioni si definisce, io credo, la tensione all’interno della quale si colloca la figura di Toni Negri. La seconda è di Negri stesso. La prima, rilasciata sullo sfondo di quel nero totale con cui Zavoli incorniciava i suoi interlocutori, è di Enrico Fenzi: italianista, petrarchista, brigatista rosso. Da queste due citazioni si possono raccogliere le coordinate più generali entro le quali si è mosso forse non Negri stesso, ma senza dubbio la rappresentazione di Negri che la società italiana si è fatta. C’è il carcere, quello di Palmi, dove Fenzi e Negri si sono conosciuti dopo il processo del 7 Aprile, c’è la violenza, da sempre associata alla sua figura, c’è l’ambiguità di chi è stato etichettato come cattivo maestro par excellence. C’è poi il grande tema della collocazione politica nel quadro italiano di quegli anni: “né con la destra, ma nemmeno col Pci” direbbe Bersani (Samuele), e “nella Chiesa, anche un prete che ha peccato potrebbe dare il messaggio giusto”, chioserebbe sempre Bersani (Pier Luigi).
Toni Negri è due cose: un teorico marxista delle scienza politiche e un militante.
Toni Negri sta qui dentro: nel difficile posizionamento della sinistra italiana del dopoguerra, che incrocia la Russia e la dottrina sociale della Chiesa, i fucili murati dai partigiani in Toscana e la svolta di Salerno, il Pci e il Psi, Pajetta e Amendola, Lombardi e Craxi, i movimenti del lunghissimo Sessantotto italiano e il completo marrone di Occhetto.
Toni Negri è due cose. O meglio, è tante cose, ma senza dubbio è anche queste due: un teorico, un importante teorico, marxista delle scienza politiche e un militante. Chi voglia scantonare dalla prevedibile reazione della stampa nazionale alla sua morte (Toni Negri est mort, vive Toni Negri!), deve provare a rendere conto di questi due aspetti. La militanza politica: l’influenza sui movimenti, l’inserimento di Negri nella storia di cui ha fatto parte, e la teoria: la rilettura del marxismo a cui ha contribuito, la concezione della società, il pensiero dell’intellettuale. Vaste programme, visto che siamo in scia di locuzioni francesi.
Ancora un citazione e ancora un aneddoto: Pisa, 2004. Un gruppo piuttosto nutrito di studenti ascolta Toni Negri parlare. Da tre anni c’è stato il trauma di Genova, lo spaesamento è forte, così come la voglia di radicalismo. E Negri è l’oratore perfetto. Fine della conferenza, tutti escono. Al tavolo dei relatori si avvicina uno studente del primo anno: “esiste ancora un dominio buono?”, domanda. Negri ci pensa: “quello della mamma”. Come nella scena del Faust, lo studente ha ottenuto da Mefistofele qualcosa, anche se forse non proprio quello che cercava. Perché la generazione dei nati negli anni Ottanta, della quale faccio parte, cercava qualcosa da Toni Negri. Sicuramente la radicalità, la lotta, l’odore dei lacrimogeni, il passamontagna, ma forse inconsapevolmente anche una battuta acida capace di ridare la giusta dimensione alle cose, il dominio della mamma, appunto.
Toni Negri è stato un interprete del marxismo e un militante: un militante che ha intrapreso la militanza proprio alla luce della propria interpretazione, forte e decisamente in controtendenza, del marxismo. Un marxista, senza dubbio, che però non è nato tale e che forse si è portato dietro qualcosa di questa sua nascita esterna all’alveo del sacrosanto marxismo ortodosso. Negri viene infatti dal mondo dell’Azione cattolica, vicino al clima che sarà del Concilio vaticano II, per iscriversi poi a metà anni Cinquanta al Partito socialista.
Toni Negri è stato un militante che ha intrapreso la militanza proprio alla luce della propria interpretazione, forte e decisamente in controtendenza, del marxismo.
Il suo primo lavoro teorico di un certo rilievo, tutt’ora presente nelle bibliografie di diritto comparato, è dedicato a problemi che poco hanno a che fare con temi marxiani: uno studio sul formalismo giuridico di ispirazione kantiana a cavallo tra Sette e Ottocento. E nonostante possa sembrare controintuitivo, proprio questo studio fornisce a Negri gli elementi che stanno alla base della sua successiva lettura della lotta politica. Il problema del formalismo giuridico è quello di elaborare una struttura logica capace di sussumere al proprio interno il materiale empirico, traducendo il vivo linguaggio del mondo nell’algido lessico della legge. Si tratta di un problema analogo a quello con cui polemizza Carl Schmitt nel saggio sul Concetto di ‘politico’, vale a dire l’espulsione dalla dottrina del diritto di ciò che non è formalizzabile.
Per Kant e per i giuristi che a lui si richiamavano, il problema era quello di offrire una cornice legale al repubblicanesimo che nasceva in quegli anni dal tumulto rivoluzionario. Da questo procedimento Negri estrae uno degli elementi chiave della sua teoria politica: l’idea che la costituzione statale non sia altro che la risoluzione formale dei conflitti, una risoluzione che reprime la massa riottosa e che anzi è tanto più urgente proprio per riordinare i conflitti. Questo è l’ordine problematico e questi gli strumenti di risoluzione con i quali Negri si avvicina alla prima della grandi esperienze politiche che ne caratterizzeranno la biografia, un’esperienza politica tutta italiana, la cui influenza sotterranea è avvertibile ancora oggi: l’operaismo.
L’operaismo, termine affascinante e a suo modo enigmatico, è una corrente interna al marxismo italiano nata sul principio degli anni Sessanta dal laboratorio politico della rivista Quaderni Rossi e animata da alcuni studiosi provenienti grossomodo dalla sinistra del Partito socialista: Raniero Panzieri, Mario Tronti e Romano Alquati. Non è questo il luogo per tentare un’improbabile ricostruzione della storia dell’operaismo italiano, ma giova senz’altro isolare alcuni nodi storici e alcuni elementi teorici che ne hanno caratterizzato lo sviluppo.
Dal punto di vista storico, si può dire che l’operaismo nasca in chiave critica rispetto alla gestione del conflitto sociale egemonizzata in quegli anni dal Partito comunista e dai sindacati confederali, rispetto al quale l’area dei Quaderni Rossi riconosceva una crescente insofferenza da parte del mondo operaio. Evento eclatante sono i disordini di piazza Statuto a Torino nel luglio del ’62, quando alcune migliaia di operai danno vita a tre giorni di scontri violenti con la polizia, mostrando di rifiutare la mediazione sindacale e politica. Pajetta, mandato dal Partito a placare gli animi, viene allontanato, producendo la prima frattura tra Pci e operai che i Quaderni Rossi salutano come momento emancipativo. L’operaismo collabora a dare vita a quell’area di opposizione al Pci che trova ascolto nella sinistra del Partito Socialista e che avrà un ruolo fondamentale nei tentativi di dialogo del decennio successivo tra istituzioni e aree extraparlamentari. Si tratta di qualcosa che oggi è difficilmente immaginabile, una linea di faglia dai margini estremamente sfilacciati che ha permesso una certa permeabilità tra l’area della lotta armata e quello del mondo istituzionale che tentava la via del dialogo.
L’operaismo nasce in chiave critica rispetto alla gestione del conflitto sociale egemonizzata in quegli anni dal Partito comunista e dai sindacati confederali.
Dal punto di vista della teoria politica, dell’operaismo va segnalato senza dubbio un punto: ha rappresentato un’alternativa credibile e praticabile rispetto all’opposizione secca tra l’ortodossia del materialismo dialettico di ispirazione orientale e l’umanesimo del cosiddetto marxismo occidentale. A quella che veniva percepita come l’insostenibilità dell’opzione sovietica non rispondeva con l’appello alla libertà umana, come accadeva nell’ambito della Scuola di Francoforte o in Sartre, bensì in termini strettamente economici: i comunisti tradizionali sbagliano perché restano inchiodati alle posizioni produttiviste della Terza internazionale, perché pensano che il lavoro vada difeso come strumento di emancipazione e perché, di riflesso, difendono sindacalmente la funzione della competenza operaia all’interno del processo produttivo.
Questo modo di produzione, questo mondo moderno e modernista potremmo dire, è tramontato, siamo all’alba di una riorganizzazione dei cicli produttivi, siamo nell’ambito di un capitalismo postfordista che non ha più bisogno della competenza operaia e che anzi ha nella competenza una nicchia di privilegio a cui le sigle sindacali confederali (“la triplice”, come si diceva con disprezzo) si ancorano per mantenere la loro influenza. Abbiamo di fronte una nuova figura operaia: l’operaio massa, risultato del mutato assetto della produzione. In questo discorso si profila uno dei problemi fondamentali, forse il problema centrale, che la sinistra ha affrontato a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso e cioè l’incapacità di parlare a ampi strati delle masse che cadevano e che cadono al di fuori della protezione sindacale e ai quali si rivolgeva invece il discorso operaista.
L’operaio massa è un operaio dequalificato, demotivato, lontano dalla retorica produttivista della tradizione socialista. Se si vuole cercare una figura in senso lato letteraria, è la Vincenzina di Enzo Jannacci: immigrata dal sud a ingrossare l’esercito di riserva che guarda spaesata la fabbrica indossando un foulard fuori moda. Questa è la nuova (usando un’espressione che sarà un mantra operaista e post-operaista) composizione di classe, quella dell’operaio massa inadatto a essere intercettato dal sindacalismo tradizionale.
È all’interno di questa prospettiva che Toni Negri porta il proprio contributo al mondo operaista, inserendosi nella metà degli anni Sessanta nella discussione sul rapporto tra fabbrica e società. Il laboratorio teorico non è più quello dei Quaderni Rossi, da cui Tronti, Alquati e Negri sono fuoriusciti per fondare Classe Operaia, rivista che darà una fisionomia più precisa all’operaismo ponendo le basi per la nascita di Potere operaio. La fabbrica è il solo luogo all’interno del quale si produce conflitto e l’operaio è il solo soggetto capace di incarnare in modo puro la lotta di classe. Questo, detto grossolanamente, l’esito teorico più duraturo dell’operaismo, espresso con chiarezza del volume di Tronti Operai e capitale pubblicato nel 1966: la “rude razza pagana” dell’operaio massa è il soggetto capace, con le lotte che si producono spontaneamente in fabbrica, di generare conflitto.
La Vincenzina di Enzo Jannacci è l’operaio massa inadatto a essere intercettato dal sindacalismo tradizionale.
Ma la fabbrica, questo il passaggio decisivo a cui va incontro l’operaismo, non è più pensata semplicemente come l’edificio isolato nel quale si raccolgono i lavoratori. Nel modo di produzione postfordista la fabbrica tende sempre di più a espandersi e a occupare integralmente la società. La società si trasforma nel suo complesso in fabbrica, la fabbrica estende il proprio dominio alla società intera e l’organizzazione sociale corrisponde all’organizzazione della fabbrica. Questo è il punto nel quale il discorso di Negri, che derivava da una riflessione sul formalismo giuridico ottocentesco, si innesta nell’operaismo: il problema è quello dell’organizzazione, dell’omogenizzazione dei conflitti, dell’organizzazione in una chiave coerente e funzionante di un materiale riottoso e recalcitrante.
Nel discorso politico di Negri, e tramite il contatto con il mondo operaista, tende a risolversi uno dei problemi costituitivi che il marxismo ha affrontato fin dai propri esordi: quello tra sfera della produzione e sfera della politica, tra sistema dei bisogni e cornice istituzionale, tra realtà concreta e ideologica, o se si vuole tra struttura e sovrastruttura. L’organizzazione politica istituzionale, la costituzione, è espressione diretta (di più: immediata) di una certa forma di conflittualità che si costituisce nell’ambito della produzione. Non si pone più l’alternativa, tipica della sinistra, tra questioni economiche e dinamiche di potere e di oppressione prodotte dall’organizzazione politica: le seconde non sono altro che il modo con cui lo stato reagisce alle prime. È il conflitto sociale prodotto dagli operai, residuo riottoso non assorbibile dal capitale, a generare le modificazioni organizzative, le ristrutturazioni dei cicli produttivi, non viceversa.
Tende a risolversi un problema annoso del marxismo, dicevamo, ma al costo di una mossa teorica forte e non priva di problematicità: l’isolamento di un soggetto capace di incarnare in modo totale la lotta di classe, di esprimerla in modo puro, cioè un soggetto nel quale la lotta di classe si definisca come conflitto a somma zero, privo di residui e scorie. All’altezza della seconda metà degli anni Sessanta questo soggetto è identificato nell’operaio massa e quella che Maria Turchetto ha brillantemente definito come La sconcertante parabola dell’operaismo italiano può essere riassunta come la progressiva ricerca di un soggetto capace di rivestire a pieno questo ruolo.
L’esigenza di costituire un’opposizione all’ortodossia marxista del Pci intercetta una serie di dinamiche sociali che si opponevano a ogni forma di organizzazione calata dall’alto, ma che altrettanto non volevano indulgere in prospettive percepite come eccessivamente umaniste e in fin dei conti borghesi come quelle promosse dal marxismo occidentale dei francofortesi e di Sartre.
Nel discorso politico di Negri tende a risolversi uno dei problemi costituitivi del marxismo: quello del rapporto tra sfera della produzione e sfera della politica, tra struttura e sovrastruttura.
L’impressione è quella di trovarsi all’alba di una nuova era per la quale non valgono più le regole con cui si è fino a quel momento giocato. Il Partito comunista aveva una visione lineare del tempo e della storia che pensava la produzione e la produttività come veicolo di emancipazione storica. Ora la storia sembrava prodursi seguendo la ciclicità della produzione postfordista che si espande orizzontalmente alla società. L’operaio tradizionale cercava nel lavoro la propria emancipazione, mentre l’operaio che si prefigurava in quegli anni vedeva il lavoro come un noioso e vieppiù scantonabile intermezzo tra il sonno e l’intrattenimento e lo rifiuta.
E il parallelo può proseguire: il soldato tradizionale incarnava suo malgrado la difesa della patria assaltando alla baionetta l’esercito dei nemici, mentre il soldato del Vietnam era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, domandandosi come sia possibile che Charlie non faccia il surf. È un altro modo, se si vuole, per descrivere quel passaggio che Lyotard ha identificato come fine della modernità e apertura della post-modernità e che Negri legge come estensione delle dinamiche di fabbrica alla società nel suo complesso.
Il capitale, questa la visione generale, proseguirebbe indisturbato nella propria attività di valorizzazione e accumulazione, se non fosse che così facendo produce un soggetto che si pone come antagonista rispetto alla sua attività. Questo soggetto, con la conflittualità di cui è portatore, costringe il capitale a riorganizzarsi per appianare i conflitti, ridefinendo il proprio ciclo produttivo e producendo così un nuovo soggetto oppositivo.
Questa è la dinamica che viene identificata. E il discorso di Negri si sviluppa tramite una serie di opposizioni che ridescrivono ogni volta questo processo. Lo stato moderno, espressione della risoluzione dei conflitti generati dalla rivoluzione industriale, si trasforma nello stato-piano, vale a dire nel progetto keynesiano di programmatico intervento statale per rimediare alle conflittualità generate dal modello produttivo. A sua volta, lo stato-piano si dimostra inefficace di fronte al ciclo di lotte degli anni Sessanta a Settanta e si trasforma in stato-crisi, cioè di quella forma stato che si pone direttamente al servizio del capitale internazionale. Lo stato diventa così espressione delle organizzazioni capitalistiche e il suo compito è sostanzialmente quello di facilitarne l’azione facendosi “organizzatore complessivo dello sfruttamento”.
L’operaio tradizionale cercava nel lavoro la propria emancipazione, mentre l’operaio che si prefigurava in quegli anni lo rifiuta.
Su queste basi, si verifica l’ancoraggio del lessico e della prospettiva di Negri con i movimenti politici che negli anni Settanta si muovevano esternamente rispetto all’Arco costituzionale, ai quali Negri contribuisce con la seconda grande esperienza politica dopo quella dell’operaismo. Potere operaio brucia in pochi anni le proprie energie organizzative e dalle sue ceneri nasce il variegato ambito dell’Autonomia operaia. Lo stato è ormai apertamente nemico e Negri si divide tra il ruolo professore universitario, allievo dell’ex rettore dell’Università di Padova Enrico Opocher, frequentatore di salotti parigini, e quello di leader dell’Autonomia operaia, grande accusatore dello stato quale veicolo privilegiato dell’attività di sfruttamento feroce operata dalle grandi corporazioni capitalistiche. Lo stato-crisi è, nei fatti, uno stato il cui unico scopo è favorire l’attività imperialista del capitale internazionale, è Stato Imperialista della Multinazionali: S.I.M., per come la sigla comparirà nei comunicati redatti in quel decennio dalle Brigate rosse.
È questo il periodo nel quale Antonio Negri sale ai ranghi delle cronache nazionali. Non più militante e semplice intellettuale delle idee radicali, ma cattivo maestro. E cattivo maestro per eccellenza: traviatore di giovani, mente contorta e affascinante, affabulatore di masse. Persino capo delle Brigate Rosse e anzi brigatista telefonista, voce che raggiunge la casa di Aldo Moro durante il sequestro. Sono gli anni del 7 Aprile, il grande processo istruito dal giudice Pietro Calogero a Padova che costò a Negri la detenzione e successivamente l’esilio in Francia, risolto con un ritorno in patria a scontare il residuo di pena. Su questa vicenda oltremodo nota e discussa preferisco non soffermarmi: tanto si è scritto, meglio di quanto io non possa fare e a quel tanto rimando volentieri.
Interessante notare una variazione teorica di non poco conto che interessa il marxismo negriano successivo agli anni Settanta. Il Marx di Negri cambia repentinamente il proprio nume tutelare: anziché nel togliattiano “vecchio Hegel”, le radici di Marx vengono ricercate nel negletto Spinoza. Non si può proprio dire che si tratti di una svolta. Il discorso di Negri è sempre stato poco incline alla dialettica: eccessive le mediazioni che impone, troppo lineare il processo a cui dà luogo. Nell’orizzontalità del pensiero di Spinoza Negri trova conferma di quell’immediatezza del rapporto tra organizzazione formale e conflitto reale sulla quale insisteva fin dai primi scritti. È un pensiero adeguato alle nuove figure conflittuali, che ormai sono incarnate dall’Operaio sociale, la cui valorizzazione non avviene in fabbrica, ma in ogni ambito dell’agire sociale. Un pensiero capace di rendere conto del rizoma produttivo della società contemporanea, sciolta in una liquidità amorfa.
In questo punto, che tocca nel vivo i problemi costituivi della variegata galassia operaista e post-operaista, il pensiero di Negri va incontro a una apparente svolta, che a conti fatti si dimostra straordinariamente coerente con gli inizi. Gli anni Ottanta italiani iniziano nell’estate del 1982: sei mesi prima, gli italiani avevano paura a prendere il treno, e d’improvviso un ragazzo con lo stesso cognome di un morto in piazza del Settantasette prende a sberle Maradona, Zico, Boniek e Rummenigge. Pertini gioca a scopone con Bearzot a fianco alla coppa del mondo e il tricolore si trasforma da pesante vessillo istituzionale a icona pop. Fa una certa impressione, ma tra la strage di Bologna e la mascotte Ciao di Italia ’90 passa un lasso di tempo minore a quello che separa il Governo Meloni dalla “non vittoria” di Bersani nel 2013.
Il Marx di Negri cambia repentinamente il proprio nume tutelare: anziché nel togliattiano “vecchio Hegel”, le radici di Marx vengono ricercate nel negletto Spinoza.
La società amorfa e rizomatica che caratterizza il periodo a cavallo della cauta del muro di Berlino ha una certa difficoltà a rientrare nelle maglie concettuali della lettura negriana. Sparisce la conflittualità, cessano le lotte operaie, si svuotano le piazze e di conseguenza viene meno l’esigenza di una formalizzazione delle opposizioni: linfa vitale delle ristrutturazioni capitalistiche. Per spiegare questo passaggio, Negri elabora altri due concetti, che rappresentano l’ideale prosecuzione della vicenda post-operaista: quelli di impero e di moltitudine. All’imperialismo tipico degli stati nazionali moderni si sostituisce la costituzione generalizzata di un impero globale in perenne mutamento e espansione che si modella sulle esigenza del capitale. E alla classe sociale si sostituisce la moltitudine indifferenziata che di volta in volta si disgrega e riaggrega offrendo forme di resistenza al capitale e all’impero. In questo modo, tramite una paradossale forma di pacificazione belligerante tra moltitudine e impero Negri tenta di riordinare il problema del conflitto, o della sua apparente assenza, nel contesto di una società in cui la repressione e la formalizzazione delle opposizioni si pone giocoforza in modo mutato.
Non sta a me fare un bilancio della figura di Toni Negri, pezzo senza dubbio importante della storia del marxismo novecentesco. Quel che mi interessava mettere in luce era appunto la specificità di questo marxismo. C’è in Negri una critica di ogni forma di organizzazione formale del conflitto: di quella poliziesca che lo ha colpito direttamente, di quella keynesiana in cui riordina le falle prodotte del capitalismo e di quella emersa nel socialismo reale, incarnazione suprema di un capitalismo razionale e razionalizzato. L’organizzazione sociale è repressione del conflitto generata dalla lotta di classe, che è già di per sé momento della liberazione. E in questo, si esprime come ricerca incessante di un nuovo soggetto capace di esprimere in modo limpido e puro la lotta di classe, come conflitto a somma zero e privo di residui: dall’operaio massa all’operaio sociale, spingendosi fino al proletariato cognitivo e alla moltitudine.
Nell’ultima osservazione emerge un tratto che Negri si porta dietro fin dagli anni della formazione e che è comune a una certa parte di chi ha partecipato alla politica radicale degli anni Settanta. Nel 1999 esce per Einaudi il romanzo Q del collettivo letterario Luther Blissett, trasformato poi in Wu Ming. Tra i registri del libro, c’è quello di una lettura piuttosto precisa della lotta armata: solo un afflato religioso è capace di scatenare e sorreggere quel genere di scelta. Si tratta di un afflato che, senza sconti, esige la purezza. Esige una condizione di partenza integra che deve essere ripristinata nella sua completezza. Nel soggetto negriano che incarna senza sconti la lotta di classe, che rifiuta il lavoro e che si oppone radicalmente, si sente proprio questo ed è forse da qui che discende quel carattere che lui stesso riconosce all’Autonomia, essere “strumento contro la pretesa egemonia dei comunisti sul movimento operaio”.
Che Negri abbia fatto parte della sinistra italiana è qualcosa di innegabile. Ma il modo in cui ne ha fatto parte non è definibile in modo altrettanto semplice. In questo resoconto ho voluto mettere in primo piano una funzione specifica. In apertura, usavo l’esempio faustiano di Mefistofele a cui i giovani studenti implorano di dire chi loro siano. Per la sinistra nel suo complesso Negri ha invece vestito i panni di uno psicoanalista piuttosto antipatico che controvoglia ne ha ascoltato le confessioni. Credo però che questa gigantesca seduta collettiva sia servita a entrambi: all’analista per giustificare il proprio posto nel mondo e al paziente per rendersi conto che solo accettando il fallimento si può riprendere a pensare il mondo.