L ’Ucraina è una coltellata inferta dagli Stati uniti alla Russia”. “Quello che dici è verissimo. Sono d’accordo!” “Giusto!” Lo scorso 18 marzo, tre settimane dopo l’inizio della guerra in Ucraina, questa conversazione ha ottenuto oltre 13.000 like sulla piattaforma di microblogging cinese Weibo. Solo poco dopo uno screenshot del dialogo compariva su Twitter con tanto di traduzione inglese. Opera di The Great Translation Movement 大翻译运动官方推号, un misterioso collettivo di volenterosi traduttori sparsi in giro per il mondo, impegnati a riportare in varie lingue alcuni degli sfoghi più nazionalisti scovati sulla stampa statale e i nuovi media cinesi.
Con ormai oltre 100.000 follower, il @TGTM_Official è un’evoluzione di ChonglangTV, account Reddit bandito per presunte violazioni della privacy: ufficialmente, avrebbe rivelato l’identità di un utente Weibo del settore finanziario, sospettato di aver bloccato una recente donazione destinata alla popolazione ucraina vessata dalla guerra. Ma sono in molti a credere che l’obiettivo delle autorità comuniste fosse piuttosto quello di imbavagliare una voce scomoda. Oltre a scoperchiare la disinformazione sul conflitto ucraino, il movimento ha bersagliato le esternazioni più scioviniste e radicali, comprese le rivendicazioni cinesi sul kimchi, i sottaceti di cui la Corea del Sud reclama da sempre la propria paternità. Lo scopo? Rivelare al mondo la vera natura dei cinesi, che non sono gentili e affabili – come li descrive la propaganda governativa – bensì “arroganti, nazionalisti, crudeli e privi di empatia”.
La nuova community digitale ha già raccolto successi concreti: dopo aver tradotto dal mandarino commenti sessisti sulle donne ucraine comparsi in rete, le autorità sono intervenute per ripulire la blogosfera dei contenuti impropri e xenofobi. Weibo e Douyin, la versione cinese di TikTok, hanno rimosso migliaia di post “inneggianti alla guerra”, “volgarità”, “banalizzazioni” e “informazioni incendiarie”.
Fin dall’inizio del conflitto, la Cina ha mantenuto ufficialmente una posizione “neutrale”: pur riconoscendo il diritto di Kiev di difendere la propria sovranità territoriale, ha accolto le legittime preoccupazioni di Mosca davanti all’avanzata della NATO verso Est. Nei fatti, tuttavia, tanto i media statali quanto il dibattito sul web cinese hanno sostenuto una linea spiccatamente filorussa. La parola “guerra” viene spesso aggirata con vari espedienti retorici, mentre c’è un’evidente tendenza a suffragare le rivendicazioni di Mosca per il proprio tornaconto.
Nel tentativo di non prendere le parti di nessuno, Pechino ha optato per attribuire tutte le colpe a Washington e alla NATO. Una tattica con cui la Cina punta – più che a difendere Mosca – a raggiungere un compromesso senza smentire l’amicizia con Putin.
In realtà, si tratta di un trend non del tutto nuovo. Dalle battute iniziali della pandemia diversi esperti, tra cui Maria Repnikova, hanno evidenziato una “russificazione” della strategia comunicativa cinese, non più solo mirata a migliorare l’immagine del gigante asiatico all’estero, ma anche a disorientare e confondere l’opinione pubblica propagando fake news, come da tempo fanno gli “spin doctor” del Cremlino. In riferimento alla crisi ucraina, questa tendenza si è cristallizzata nella condanna senza colpo ferire degli Stati uniti: nel tentativo di non prendere le parti di nessuno, Pechino ha optato per attribuire tutte le colpe a Washington e alla NATO. Una tattica con cui la Cina punta – più che a difendere Mosca – a raggiungere un compromesso che le permetterebbe di contenere il danno reputazionale senza smentire l’amicizia “senza limiti” con Putin e compromettere la credibilità del presidente Xi Jinping, caro amico dell’aspirante nuovo “zar”.
Gli Stati uniti sono stati accusati prima di supportare il battaglione Azov, il movimento filonazista ucraino che Pechino ritiene abbia fomentato le proteste di Hong Kong nel 2019; poi di finanziare lo sviluppo di armi biologiche in Ucraina. Risposta per le rime, quest’ultima, alle indagini avviate da Washington sulla fuga del Coronavirus dal laboratorio di Wuhan. Con il neologismo “terrorismo finanziario” la leadership cinese ha inoltre ribadito la tradizionale contrarietà alle sanzioni internazionali formulate al di furi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Finora lo stratagemma ha funzionato: sovrapponendo le accuse contro l’America a temi di interesse nazionale, la propaganda del PCC si è assicurata l’appoggio di buona parte dell’opinione pubblica cinese. Anche quella che in cuor suo sarebbe contraria alla guerra.
Sebbene in rete il conflitto sia stato oggetto di dibattito, le posizioni contrarie all’invasione russa raramente si sono prodotte in un’aperta critica alla posizione governativa. Gli esperti lo chiamano “dissenso leale” per descrivere la tendenza dei netizen cinesi a esprimere disaccordo senza però andare contro alla linea comunicata dai vertici. Come scrive Lucrezia Goldin su Sinosfere, “si condanna la guerra, ma mai la Russia. Si critica il mancato tempestivo rimpatrio dei cittadini cinesi in Ucraina, ma senza mai mettere in dubbio la posizione cinese sul conflitto. Solo così il dissenso leale trova spazio sui social, criticando il particolare e mai il generale”. Con il risultato che al filtro dei censori sopravvivono soprattutto commenti apparentemente filorussi e fake news anti-americane. Marc Owen Jones, docente presso la Hamad bin Khalifa University, ha individuato su Twitter tra i 2000 e i 7000 account fake creati (non è chiaro da chi) appositamente per divulgare – sia in cinese che in inglese – informazioni false sulle colpe di Washington nella crisi.
Ormai è chiaro: bombe e corpi mutilati rappresentano solo un volto del conflitto ucraino. Come spiega Shen Yi, docente di relazioni internazionali presso la Fudan University, quella in corso è anche e soprattutto una “guerra cognitiva”. Una guerra che non coinvolge soltanto Mosca e Kiev. Una guerra a cui anche la Cina partecipa – stavolta dichiaratamente al fianco della Russia – respingendo “l’utilizzo sistematico dell’ideologia e dell’egemonia da parte di media e ONG occidentali”. Chi vince si aggiudica il controllo sull’opinione pubblica globale. Nel fuoco incrociato tra Est e Ovest c’è chi, seppur con mezzi molto più modesti, continua a battersi per la verità. E’ il caso di Wang Jixian, programmatore residente a Odessa, che ha caricato quotidianamente video su piattaforme quali YouTube, WeChat e Douyin per mostrare il lato umano del conflitto, fornire una visione più genuina degli eventi, e stimolare la nascita di uno spirito critico tra i connazionali.
La frattura nelle comunità diasporiche riguarda l’età: i nati dopo gli anni Ottanta, cresciuti nella fase d’oro dell’ascesa cinese, nutrono forti perplessità nei confronti del modello neoliberista occidentale, diversamente da chi ha lasciato lasciato la madrepatria negli anni della Rivoluzione culturale e di Tian’anmen.
Seppur animati da scopi diversi, Wang e TGTM confermano come la diaspora cinese stia ricoprendo un ruolo importante nel combattere la disinformazione e restituire una narrazione oggettiva di quanto sta accadendo in Ucraina. A Pechino è già allarme rosso. Secondo Wang Qiang, ricercatore della PLA National Defense University, sebbene il TGTM faccia uso di una tattica inversa rispetto al passato, quando gli attacchi contro la Cina venivano veicolati principalmente attraverso la traduzione in cinese di contenuti occidentali, lo scopo resta tuttavia lo stesso: sovvertire il regime. Ecco perché nei resoconti della stampa statale il movimento viene tacciato di tradimento. Per il tabloid Global Times, l’organizzazione – che si definisce “leaderless” – conta nella sua membership un numero consistente di sino-americani; persone di origini cinesi che, dopo aver vissuto molti anni all’estero, “non sono in grado di vedere i successi ottenuti recentemente dalla Cina e giudicano problemi temporanei in maniera poco obiettiva. Come se insistendo a utilizzare toni peggiorativi [nel descrivere il paese] trovassero la conferma di aver fatto bene ad andarsene”. The Paper, quotidiano controllato dalla municipalità di Shanghai, è andato oltre. Analizzando gli account Twitter ad aver interagito più spesso con @TGTM_Official, ha individuato un tratto distintivo “incriminante”: oltre un terzo dei primi 100 utenti pare segua Voice of America Cina, Radio Free Asia e Deutsche Welle. Tutti media notoriamente critici nei confronti del governo cinese.
Le accuse contro il TGTM rispecchiano la crescente diffidenza nutrita da Pechino verso chi intrattiene rapporti stretti con l’esterno. Nell’ultimo anno e mezzo, reporter sinodiscendenti e collaboratori cinesi di testate internazionali sono stati sottoposti a intimidazioni e arresti. D’altronde, dal periodo tardo-imperiale fino al massacro di piazza Tian’anmen, storicamente, le comunità cinesi d’oltremare si sono fatte portatrici di fiammate rivoluzionarie e istanze democratiche. Memore del passato, nel 2018 Pechino ha provveduto a potenziare il Dipartimento del Fronte unito, agenzia di intelligence che, rispondendo al PCC, viene utilizzata per raccogliere informazioni e gestire le relazioni con partiti democratici, intellettuali, dissidenti, accademici, gruppi religiosi, e altri individui influenti, come imprenditori e cittadini cinesi all’estero. Da allora diversi attivisti residenti in Europa, Stati uniti e Australia, hanno denunciato tentativi di spionaggio da parte di studenti e agenti di Pechino. Complice l’afflato nazionalista che anima molti giovani espatriati. Questa frattura all’interno delle comunità diasporiche è emersa più chiaramente in superficie tre anni fa durante le proteste di Hong Kong, quando in varie parti del mondo cittadini cinesi e sinodiscendenti si trovarono a manifestare su fronti opposti, alcuni pro altri contro il movimento democratico. Criterio distintivo nel magma dell’attivismo diasporico è soprattutto l’età: mentre i nati dopo gli anni Ottanta, cresciuti nella fase d’oro dell’ascesa cinese, tendono a conservare una visione più positiva del paese natale e a nutrire forti perplessità nei confronti del modello neoliberista occidentale, chi ha lasciato lasciato la madrepatria nei tumultuosi anni della Rivoluzione culturale e di Tian’anmen ha una visione più diffidente.
Nella seconda categoria troviamo Han Yang, classe ‘73, ex funzionario del ministero degli Esteri cinese e impiegato presso il Consolato generale di Sydney. Oggi il suo account Twitter è una fonte imprescindibile non solo per monitorare il dibattito cinese sulla crisi russo-ucraina. Traducendo in inglese decine di post e comunicati ufficiali ogni giorno, Han decodifica e interpreta per un pubblico occidentale i temi più controversi del momento, come la disastrosa gestione della pandemia a Shanghai. Considerato dai media cinesi uno dei leader del TGTM – per quanto ne condivida gli obiettivi – l’ex diplomatico smentisce la propria affiliazione al movimento e rifiuta l’etichetta di “oppositore” politico. “Sono semplicemente realista”, ci spiega escludendo la praticabilità di elezioni democratiche in un paese complesso come la Cina. Cosa ha spinto, proprio ora, lui e tanti connazionali a impiegare le proprie capacità linguistiche in rete? “Il motivo potrebbe essere che la guerra in Ucraina è un evento così viscerale da sconvolgere la coscienza delle persone”, racconta Han, “ho sentito il dovere morale di evidenziare come alcuni migranti cinesi, pur vivendo nelle democrazie liberali, abbiano scelto di seguire la propaganda cinese e russa”. Un dovere tanto più impellente considerata l’esposizione degli utenti australiani alle fake news rilanciate online dalla numerosa diaspora cinese.
Nonostante questi nobili intenti, la missione di Yang e del TGTM non è immune da rischi. Non solo per via delle problematiche in materia di privacy. Definendo i cinesi “arroganti, populisti e antipatici”, per la stampa governativa e alcuni connazionali, la sigla e i suoi simpatizzanti diffondono odio e istigano alla sinofobia. Molti ricordano ancora la pressione psicologica e i suicidi provocati dal cosiddetto “motore di ricerca di carne umana”, fenomeno internet che una quindicina di anni fa ha visto frequentemente esporre alla gogna pubblica utenti cinesi coinvolti in scandali di risonanza virale. Ma, per Yang, allo stato attuale i danni provocati dalla propaganda cinese hanno un impatto più immediato e tangibile perché in guerra, sostiene, bisogna saper scegliere il male minore. La lotta alla disinformazione non è un pranzo di gala?