T ra le varie lezioni che ci sono state impartite dalla pandemia, oltre ai limiti delle politiche in favore della sanità privata, c’è l’importanza della salute mentale, della sua cura e prevenzione, come un’esigenza diffusa nella popolazione e non come un lusso per pochi. La COVID-19 sta lasciando, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, conseguenze a lungo termine sulla psiche delle persone: depressione, ansia, difficoltà a concentrarsi, disturbi della memoria e del sonno. A questo va aggiunto che la crisi socio-sanitaria, o per usare una definizione più specifica la sindemia, ha esacerbato una serie di problematiche sociali, tra cui la precarietà lavorativa, la disuguaglianza delle condizioni abitative, la violenza domestica, l’isolamento sociale e il deterioramento dei servizi pubblici di base. Questi elementi si possono definire determinanti sociali della salute, ovvero condizioni che contribuiscono a stabilire il benessere o il malessere vissuto da una persona. Secondo l’OMS infatti la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia” mentre la salute mentale è “uno stato di benessere nel quale una persona può realizzarsi, superare le tensioni della vita quotidiana, svolgere un lavoro produttivo e contribuire alla vita della propria comunità”.
La crisi generalizzata ha messo in evidenza il bisogno diffuso di assistenza psicologica ma ha anche acceso un riflettore sull’elefante nella stanza: la stragrande maggioranza delle persone non hanno accesso ai servizi di salute mentale a causa della mancanza di risorse economiche. Paradossalmente, stiamo parlando delle stesse persone che, a causa di condizioni di vita precarie e quindi maggiormente esposte a fattori di stress, avrebbero, probabilmente, bisogno con più urgenza di uno spazio di ascolto e rielaborazione dei propri vissuti. Una sessione con una psicoterapeuta, in Italia, può costare tra i 45 e i 150 euro circa, con una media che si aggira tra i 60 e gli 80 euro a seduta per le persone adulte. Se consideriamo una sola seduta settimanale stiamo parlando di cifre che superano come minimo i 200 euro al mese, un budget nettamente fuori dalla portata di quella grande fetta di popolazione che lotta per far quadrare i conti a fine mese.
L’alternativa all’assistenza psicologica privata sarebbe rivolgersi al Servizio Sanitario Nazionale, il quale offre in genere solamente pacchetti da otto incontri, le sue liste di attesa sono spesso intasate e il personale è composto in molti casi anche da tirocinanti non retribuite. Molte persone, soprattutto provenienti dai settori popolari, entrano in contatto con i servizi territoriali della salute mentale però solo in contesti assistenziali e/o coercitivi: le comunità riabilitative, le case famiglia, i centri per minori, le Residenze Sociosanitarie Assistenziali per anziani (RSA), i servizi per le dipendenze patologiche (SERD), i Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) per le persone migranti, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure cautelari (REM), le carceri e molte altre.
Se da un lato c’è chi può permettersi di fare anche tre o quattro sedute settimanali sul lettino di una psicoanalista nel centro storico di una grande città, dall’altra parte la maggioranza della popolazione si ritrova in lista di attesa per poter accedere a pochi incontri saltuari nelle sedi dei servizi sociali o nei reparti psichiatrici degli ospedali pubblici. In altri casi l’assistenza psichiatrica diventa un obbligo o un prerequisito fondamentale per aver accesso a una parte di welfare: le persone che vogliono intraprendere un processo di transizione di genere si vedono nella maggior parte dei casi obbligate a rivolgersi a uno psichiatra che attesti la presenza di una disforia e sempre più minori vengono presi a carico dalle unità di neuropsichiatria per ottenere una diagnosi che gli dia accesso al sostegno scolastico.
Ci sono interminabili liste di attesa per accedere a pochi incontri saltuari nelle sedi dei servizi sociali o negli ospedali pubblici mentre in altri casi l’assistenza psichiatrica diventa un obbligo o un prerequisito fondamentale per aver accesso a una parte di welfare.
Se la prevenzione dunque è un lusso per pochi, la repressione invece è una garanzia, soprattutto per le fasce popolari, le quali, se manifestano crisi acute di salute mentale, devono fare i conti con la violenza dello Stato. Jefferson Tomalà aveva 21 anni quando il 10 giugno 2018 è stato ucciso durante un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) da un agente di polizia che gli ha sparato almeno 5 volte da distanza ravvicinata. La stessa sorte toccata ad Andrea Soldi, 45 anni, morto per insufficienza respiratoria il 5 agosto 2015 dopo che i vigili urbani di Torino lo avevano immobilizzato a terra per mettergli le manette e costringerlo a un ricovero psichiatrico. Elena Casetto ne aveva diciannove di anni quando il 13 agosto 2018 è morta carbonizzata mentre era legata al letto nel reparto psichiatrico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo durante un incendio. Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare anarchico è morto il 4 agosto 2009 durante un TSO che lo ha visto privato di acqua e cibo per più di 80 ore mentre era legato, mani e piedi al letto, nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania. Il 28 novembre del 2021, Abdel Latif, recluso del CPR di Ponte Galera, è deceduto sul lettino di contenzione dell’ospedale San Camillo di Roma dopo tre giorni di ricovero coercitivo.
La memoria selettiva della psicoanalisi
Come nel “Joker” di Todd Philips la classe dirigente priva dei servizi di cura di base proprio durante i periodi di crisi economica e sanitaria. Arthur, il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix inizia la sua parabola delirante proprio con il taglio alla spesa pubblica che costringe la sua consulente a interrompere lo spazio di ascolto. Mentre le strade di Gotham City si riempiono di immondizia e gli spazi di cura vengono chiusi, il sistema poliziesco e psichiatrico che finisce per perseguire Arthur continua a funzionare perfettamente, un’allegoria del fatto che le risorse per le misure coercitive e repressive non mancano mai. In Italia, nel pieno della pandemia da covid-19, la salute mentale non veniva nemmeno menzionata nella bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e anche una misura, totalmente insufficiente e palliativa come il “bonus psicologo” è stata messa in discussione e rischia di sparire sul lungo termine. Mentre la salute mentale viene invisibilizzata nel discorso pubblico e tagliata dai bilanci, si sta affermando un discorso di reazione rispetto alla legge 180 promossa dalle correnti critiche e democratiche della psichiatria degli anni Settanta. Nello storico bastione della tradizione basagliana del Friuli Venezia Giulia sta conquistando potere una classe dirigente favorevole alla contenzione, alle porte chiuse nei reparti e al riduzionismo farmacologico.
Franco Basaglia nelle sue Conferenze Brasiliane metteva in guardia rispetto alla dualità della cura per i ricchi e la repressione per i poveri: “I medici psicoanalisti hanno sempre avuto due modi diversi di curare, uno nel manicomio e l’altro nella tranquillità del loro studio”. Secondo Basaglia, questa doppia metodologia era dovuta alle origini della disciplina psicoanalitica nata in seno alla cultura della borghesia europea: “Questa tecnica si è dimostrata fin dall’inizio come una terapia di classe, perché accessibile solo alle poche persone che possono pagare le sedute”.
Una parte del mondo professionale della clinica risponde a queste contraddizioni recuperando il pensiero del padre della psicoanalisi. Freud, infatti, si distinse per aver teorizzato l’importanza del pagamento delle sedute per evitare che le dinamiche transferali e contro-transferali, generate da un’assistenza gratuita, interferissero con il processo terapeutico. La memoria selettiva di chi usa Freud per legittimare l’attuale stato delle cose rimuove una parte fondamentale della sua esperienza pratica e del suo pensiero. Nel 1918, durante il Quinto Congresso Internazionale di Psicoanalisi, lo stesso psicologo viennese affermava: “È possibile prevedere che un giorno o l’altro la società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più né meno come ha diritto già ora all’intervento chirurgico che gli salverà la vita” e, senza rischio di incomprensioni, aggiungeva: “Questi trattamenti saranno gratuiti”. In Psychoanalysis in the Barrios, la psicoanalista Patricia Gherovici ricostruisce le esperienze delle cliniche gratuite nate sull’onda della profezia freudiana in diverse città europee e statunitensi tra le due guerre mondiali, dove la psicoterapia veniva fornita gratuitamente al pari dell’educazione pubblica.
Se la prevenzione è un lusso per pochi, la repressione invece è una garanzia, soprattutto per le fasce popolari, le quali, se manifestano crisi acute di salute mentale, devono fare i conti con la violenza dello Stato.
In Italia, l’assistenza psicologica gratuita viene garantita, per esempio, alle persone iscritte all’ordine dei giornalisti e per i membri del parlamento. Negli Stati Uniti la psicoterapia è garantita per le poche persone che possono permettersi un’assicurazione privata. A Cuba invece, l’assistenza psicologica è parte del modello di salute globale integrata che viene garantito costituzionalmente a ogni cittadino. Sembra quindi che il tema del pagamento delle sessioni non sia una questione metodologica quanto più un risultato di un sistema economico e dell’organizzazione del lavoro.
Terapia di classe, razza e genere
In Italia le parcelle delle psicoterapeute sono fondamentali per finanziare la formazione e le spese necessarie per lavorare in uno studio. Per arrivare a praticare come clinici nel nostro Paese occorre completare un lungo e costoso percorso di formazione composto da due lauree, triennale e magistrale, un anno di tirocinio non retribuito, l’esame di Stato e almeno quattro anni di scuola di specializzazione che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono private e prevedono rette annue dai tremila euro in su. Spesso sia le università che le scuole di specializzazione si trovano nei grandi centri urbani dove il costo della vita e gli affitti sono estremamente cari. Va considerato, inoltre, l’investimento iniziale di capitale per affittare uno spazio in cui ricevere i pazienti.
Come si evince da questa breve panoramica la forbice della disuguaglianza economica non agisce solo dal lato dei pazienti ma anche per chi vuole lavorare nel campo della clinica. Senza un appoggio economico familiare o una proprietà da ipotecare diventa quasi impossibile completare il percorso di formazione professionale. Le poche persone di estrazione sociale popolare che ce la fanno, con enormi sacrifici, si ritrovano in minoranza nei circoli del sapere e quindi hanno poco spazio di manovra per far sentire la propria voce.
Oltre a un problema di accesso al servizio si crea perciò anche un clima culturale escludente ed elitario. Visti i costi e le spese da affrontare durante i dieci anni, come minimo, di formazione, diventa difficile che una lavoratrice che vive del proprio stipendio, e che deve già scontare il gap salariale di genere, possa formarsi come psicoterapeuta. Lo stesso vale, per esempio, per le persone trans che spesso vengono ostracizzate dalle famiglie e discriminate al momento dell’assunzione. Il filtro di classe allontana anche le persone migranti di prima o seconda generazione che vivono condizioni di precarietà giuridica e lavorativa estreme. La linea delle disuguaglianze taglia a metà il Paese anche a livello geografico, per cui chi vive al sud deve fare i conti con un sistema sanitario carente e con meno risorse per potersi formare come professionista. Quella che Basaglia definiva una “multinazionale della psicoanalisi” è oggi ancora vigente e, anzi, oltre a estendersi alle altre tecniche psicoterapeutiche, riproduce una discriminazione patriarcale, binaria e coloniale che allontana ancora di più le classi popolari dalla terapia psicologica.
La forbice della disuguaglianza economica non agisce solo dal lato dei pazienti ma anche per chi vuole lavorare nel campo della clinica.
Questa contraddizione è ben rappresentata nella serie turca Ethos dove la relazione terapeutica tra Meryem e la sua psichiatra Peri viene segnata da una successione di incomprensioni, inerzie e mancati incontri. Meryem è una lavoratrice domestica della periferia di Istanbul, vive in un contesto rurale e marcato dalla tradizione culturale islamica, Peri, è una donna facoltosa che è stata abituata a viaggiare nelle capitali “occidentali” fin da bambina, ha un alto livello di istruzione e una formazione secolare. Meryem si presenta alle sedute in ritardo, offrendo cibo e parlando degli insegnamenti del suo hodja, il maestro spirituale locale. Peri si attiene alla sua etica professionale, non accetta i doni di Meryem e fatica a superare i suoi pregiudizi che le fanno vedere la sua paziente come il simbolo del tradizionalismo conservatore in ascesa in Turchia.
Negli anni Sessanta lo psichiatra Frantz Fanon descrive, nei suoi Scritti Politici. Per la rivoluzione africana, la “sindrome nordafricana”, un espediente narrativo che usa per denunciare la discriminazione che le persone provenienti da Algeria, Tunisia e Marocco soffrivano nelle cliniche francesi. Nella caricatura dei medici e psichiatri francesi abbozzata da Fanon, i pazienti nordafricani vengono descritti come naturalmente pigri, inerti, violenti, bugiardi e machisti. Nel discorso dominante dei medici francesi i sintomi psicosomatici dei pazienti nordafricani vengono attribuiti alla loro tendenza all’ozio e alla poca propensione al lavoro invece che essere interpretati alla luce dello spaesamento di essere stranieri, al trauma della migrazione e della violenza coloniale, alle condizioni di vita precarie e all’isolamento sociale vissuto in un paese ostile e per di più razzista.
Troppo spesso la responsabilità della distanza tra la popolazione e i professionisti della salute mentale viene fatta ricadere esclusivamente sulle persone che non vogliono affrontare lo stigma del malessere psicologico. Questa visione unilaterale evita l’autocritica dei professionisti i quali finiscono per non assumere la loro fetta di responsabilità in questo mancato incontro. Secondo uno studio dell’Istituto Piepoli il 62% degli italiani vuole un supporto psicologico “per tornare alla normalità” e 8 italiani su 10 “ritengono che il ricorso allo psicologo possa aiutare a gestire questa fase e vogliono che il sistema pubblico assicuri assistenza psicologica”.
Il modello lose-lose
Durante la crisi pandemica qualcosa si è mosso: l’Ordine degli Psicologi ha chiesto ai professionisti di fornire un numero limitato di incontri gratuiti; molti privati, associazioni e sportelli hanno fatto lo stesso. Alcune cooperative, fondazioni e servizi di ascolto prevedevano già da prima della sindemia pacchetti di incontri a prezzi calmierati, tariffe più basse regolate in base all’ISEE o addirittura incontri gratuiti. Collettivi e organizzazioni comunitarie si sono infine attivate per garantire ascolto e sostegno psicologico a chi non poteva permetterselo. Queste esperienze sono state fondamentali e hanno espresso la potenzialità concreta di una salute mentale pubblica inclusiva e popolare. Allo stesso tempo, però, l’impatto di queste iniziative continua a essere limitato dalle poche risorse a disposizione. Si tratta, ancora una volta, di svuotare il mare con un bicchiere. Vi è inoltre un rischio implicito in queste proposte: la diffusione del lavoro volontario o mal retribuito che sopperisce alle mancanze delle istituzioni. Lo scrittore Luca Rastello descrisse questa dinamica nel romanzo I buoni, pubblicato nel 2013, in cui il terzo settore appare come il laboratorio delle politiche più spinte del neoliberismo. Il mondo del sociale che si nutre di bandi e spirito di sacrificio rende possibile, suo malgrado, la distruzione definitiva dei diritti sindacali e la precarizzazione estrema del lavoro.
Troppo spesso la responsabilità della distanza tra la popolazione e i professionisti della salute mentale viene fatta ricadere esclusivamente sulle persone che non vogliono affrontare lo stigma del malessere psicologico.
Secondo uno studio della Commissione Europea l’Italia è il paese con più psicologi a livello continentale con più di novantatremila iscritti all’Ordine (in grado cioè di fornire assistenza psicologica ma non per forza con una specializzazione terapeutica) ed è secondo, dietro solo alla Svizzera, per numero di psicologi ogni centomila abitanti. Il report presenta anche un altro dato curioso: in Italia la retribuzione media mensile è di 1.400 euro, simile a Malta e Cipro, e si trova cioè a metà tra i paesi dell’Europa Orientale (Lituania, Slovacchia e Repubblica Ceca) dove i professionisti ricevono in media approssimativamente 500-900 euro al mese, e il resto dell’Europa (Spagna, Irlanda, Finlandia, Svezia..) dove i salari oscillano tra i 3.000 e i 6.000 euro mensili. Il modello vigente prevede uno svantaggio da entrambi i lati, la popolazione non ha accesso ai servizi di cura nonostante l’altissimo numero di professionisti formati, e quest’ultimi guadagnano meno della metà dei loro colleghi spagnoli, irlandesi o svedesi.
Questi dati parlano di un problema strutturale che richiede una trasformazione globale dei servizi territoriali. Le istituzioni della salute mentale, e le scuole di formazione, devono essere trasformate per aprirsi alle esperienze comunitarie, sociali e militanti, sorte soprattutto nei quartieri popolari delle metropoli e nelle piccole città di provincia, che in questi anni hanno sperimentato un modello di cura egualitario basato sulla prevenzione e il libero arbitrio dei pazienti, fuori dalle camicie di forza del mercato. Il modello perdente e inefficace che si è imposto al prezzo della nostra salute può solo essere trasformato dalle professioniste cliniche, dagli operatori sociali e sanitari, dalle pazienti e dai familiari, dai collettivi, dai sindacati di base e dalle comunità in lotta. L’alternativa alla Gotham City neoliberale, dove proliferano malattie, povertà e repressione, è un modello di cura partecipato, universale e gratuito.