I l 10 giugno di quest’anno, nonostante il confinamento fosse da poco finito e a parole tutti ribadissero la propria volontà di lasciare per quanto più tempo possibile le quattro mura domestiche che li avevano protetti e intrappolati durante la prima ondata pandemica, due milioni e mezzo di telespettatori italiani decidevano di incollarsi allo schermo, per seguire la prima puntata della telenovela turca Daydreamer – Le ali del sogno. Con uno share ormai stabilmente oltre il 20%, la serie rappresenta uno spartiacque definitivo per gli esperimenti di importazione in Italia delle produzioni televisive “made in Istanbul”. Iniziati timidamente nel 2016 con Cherry Season – La stagione del cuore (i titoli curiosamente in inglese rappresentano una costante nelle edizioni italiane del genere) fino ai successi dello scorso anno, con Bittersweet – Ingredienti d’amore.
Se qualcuno aveva ipotizzato che quest’ultimo eccellente risultato potesse rimanere un caso isolato, il trionfo di Daydreamer ha confermato come anche l’Italia sia ormai caduta nella rete dei dizi, come vengono chiamati in turco questi prodotti narrativi. Appare dunque matura l’esigenza di comprendere questo fenomeno culturale e commerciale, esploso negli ultimi anni e divenuto rapidamente globale. Una panoramica che riserva molte sorprese: tra formati innovativi, poemi persiani del Dodicesimo secolo e complotti diplomatici. Qualcosa di più di quanto ci si aspetti da quella che parrebbe essere soltanto una telenovela. Proprio la messa in discussione di questa classificazione rappresenta la prima svolta che è necessario compiere per capire l’oggetto che stiamo studiando. Se è comprensibile che in molti Paesi occidentali i dizi vengano definiti e pubbicizzati come telenovelas o soap opera, date le modalità con cui vengono commercializzate e consumate (per collocazione nel palinsesto, tipologia di pubblico a cui sono rivolte e formato) queste etichette sono ritenute offensive dai produttori turchi.
In patria, i dizi (termine che in turco significa semplicemente “serie”) non sono considerati opere derivative rispetto alle serie tv occidentali. Né tantomeno l’ennesima reiterazione del modello di “soap” all’americana, sia essa nella forma statunitense o latina, notoriamente così chiamate perché in origine sponsorizzate dai produttori di saponette, interessati a raggiungere il pubblico femminile. I dizi sarebbero, invece, una forma artistico-narrativa autonoma, recente e ancora in evoluzione. La difficoltà incontrata dagli importatori italiani nell’incasellare questi prodotti culturali si può evincere dai continui spostamenti nel palinsesto: la stessa Daydreamer, nel corso di pochi mesi, è passata dal primo pomeriggio infrasettimanale alla prima serata, per poi assestarsi al pomeriggio del sabato e della domenica. E non perché incontrasse difficoltà a trovare il proprio pubblico, dati i risultati apparentemente sempre ottimi. Ma soprattutto è testimoniata dal drastico cambiamento di durata subìto per adattarla agli slot televisivi nostrani: in Turchia le sue puntate durano ciascuna quasi due ore e mezza, che nell’edizione italiana sono state sforbiciate e suddivise fino a trasformare Daydreamer in una serie da 152 episodi attorno ai 40 minuti l’uno.
Pur se ancora in evoluzione, il formato della maggior parte dei dizi condivide questa e altre caratteristiche: lunghissima durata degli episodi (con una suddivisione in puntate più simile, in un certo senso, a quello degli sceneggiati della passata tradizione italiana); produzioni costose con riprese principalmente girate in ambientazioni reali per le strade e nei palazzi di Istanbul (anche la maggior parte degli interni sono girati senza ricorrere agli studi televisivi); una fotografia dai colori ipersaturi; estrema attenzione all’aspetto estetico degli interpreti; trame ricche di triangoli amorosi, tensioni familiari e contrasti tra classi sociali differenti, che spesso hanno alla propria radice storie tratte dal canone mediorientale tradizionale. Al di là di quello relativo alla durata ridotta, quest’ultimo aspetto è quello che il pubblico italiano probabilmente ignora maggiormente. Da un lato per le lacune culturali di gran parte del pubblico occidentale rispetto a quelle tradizioni letterarie, di cui discuteremo più avanti. Ma anche perché le serie già arrivate in Italia non sono tra le più rappresentative del genere. Appartengono semmai al sottogruppo di quelle più economiche e “di consumo”, probabilmente per la scelta iniziale dei canali italiani di non investire molto su un genere nuovo e teoricamente rischioso. Ma il loro successo potrebbe aprire le porte a molte altre: comprese alcune particolarmente controverse, nell’eterno conflitto turco e mediorentale tra tradizione e modernità.
Ascesa della Cinecittà turca
A partire dagli anni Cinquanta, il cinema turco vive un periodo di splendore, coronato nel decennio successivo da riconoscimenti sia sul piano artistico — come l’orso d’oro ricevuto da L’estate arida di Metin Erksan al Festival di Berlino del 1964 — che commerciali. All’inizio degli anni Settanta la Turchia è il quinto maggior Paese al mondo per produzione cinematografica, con oltre 300 pellicole realizzate ogni anno, in gran parte negli studi che gravitano attorno a Yeşilçam sokak, una strada della zona europea di Istanbul, il cui nome ancora oggi simboleggia l’intera industria cinematografica turca, in modo simile a quanto avvenga con Hollywood o Cinecittà. Negli anni successivi, tuttavia, le crescenti tensioni politiche e l’avvento della televisione riducono notevolmente spettatori e fonti di sostentamento al settore cinematografico, chiudendo rapidamente quell’età dell’oro.
Dietro ai dizi si trovano formati innovativi, poemi persiani del XII secolo e complotti diplomatici.
Nel 1974 viene girata la prima serie tv turca e con la liberalizzazione del settore televisivo degli anni Novanta la produzione audiovisiva si sposta prevalentemente sul piccolo schermo. Si tratta però, in gran parte, di calchi dei programmi televisivi occidentali, riadattati per il mercato locale. Per capire come questa Cenerentola culturale possa essere così rapidamente giunta all’attuale secondo posto come maggiore esportatore di contenuti televisivi al mondo, subito dopo gli Stati Uniti, occorre tornare a due eventi cruciali: l’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan e la guerra di Siria.
Il primo non ama i contenuti frivoli delle serie televisive prodotte a Yeşilçam sokak, né le sue protagoniste senza velo, ma il suo graduale allontamento dal sogno dell’integrazione europea verso un nuovo imperialismo neo-ottomano ha conseguenze anche sul clima culturale del Paese. I produttori locali smettono di inseguire modelli e format di Hollywood, ripartendo dalla messa in scena di epici sceneggiati basati sui grandi romanzi turchi del secolo precedente o su personaggi storici del periodo imperiale. Anche sul piano formale, è nello stesso periodo che la durata media delle puntate si espande gradualmente dai canonici quaranta minuti occidentali fino alle oltre tre ore di alcune produzioni turche. I dizi iniziano ad assumere l’identità che conosciamo oggi e che li porterà a imporsi in tutto il mondo.
La guerra in Siria, invece, causa l’improvviso crollo dell’immensa produzione televisiva del Paese arabo, che esercitava una sorta di egemonia culturale nelle televisioni del Medioriente. I distributori turchi sono abilissimi nell’infilarsi immediatamente in questo varco, andando così a colmare la richiesta di contenuti del pubblico arabo con storie, nomi e attori con i quali quest’ultimo riesce a identificarsi molto di facilmente rispetto alle alternative messicane o brasiliane. Fondamentale, in questo senso, è la furba scelta di doppiare i dizi in siriano, rispetto all’arabo standard normalmente utilizzato per i film e le altre trasmissioni in lingua straniera. La sostituzione della Siria, da parte della Turchia, come principale produttore televisivo dell’intera regione, avviene così in modo quasi inavvertibile per la maggior parte degli spettatori. Ma non senza conseguenze, come avremo modo di vedere.
Tra espansionismo neo-ottomano e fatwe saudite
Ormai da secoli, due sono i cliché apparentemente inevitabili quando si parla del mondo turco: il conflitto tra tradizione e modernità e il ruolo di ponte tra Oriente e Occidente. Questo testo non farà eccezione. Ma non potrebbe essere altrimenti, quando proprio questi elementi costituiscono la materia prima su cui si basano i dizi, non senza contraddizioni.
L’elemento più evidente, da questo punto di vista, è la pressoché totale assenza in scena di donne che indossino il velo. Nonostante la Turchia sia formalmente uno stato secolare e siano state a lungo in vigore leggi che vietavano l’uso del velo negli edifici pubblici, basta una passeggiata per le strade del Paese per rendersi conto di quanto sia oggi diffusa, tra le donne turche, l’abitudine islamica di coprirsi il capo e, talvolta, il volto. Secondo alcune stime, la percentuale sarebbe attorno al 50%, con numeri più alti nelle province anatoliche e più bassi a Istanbul. Un fattore che spiega in parte questa anomalia potrebbe essere proprio il fatto che l’intero ecosistema di cui fanno parte produttori, autori e interpreti, sia ancora oggi in gran parte basato a Istanbul e ne rappresenti le istanze e lo stile di vita: più moderno, repubblicano e secolare rispetto al resto della Turchia. Ma in realtà anche a Istanbul ormai il velo è ampiamente diffuso.
Il conflitto tra tradizione e modernità e il ruolo di ponte tra Oriente e Occidente costituiscono la materia prima su cui si basano i dizi.
Più semplicemente, commentano provocatoriamente alcuni addetti ai lavori, la verità sarebbe che anche i conservatori preferiscano vedere donne senza velo, nelle serie tv. D’altra parte, con la testa o il volto coperto è molto più difficile recitare con l’espressività richiesta dal genere, senza contare che una figlia che non si ribellasse alle richieste della tradizione farebbe venire meno il principale motore narrativo di gran parte di queste serie.
Minore tolleranza è stata mostrata dagli ambienti conservatori nei confronti del modo di raccontare il passato imperiale della Turchia. L’esempio più evidente è rappresentato dal caso Muhteşem Yüzyıl (“Il secolo magnifico”) ovvero quello che è probabilmente il dizi più importante e famoso al mondo, capace di raccogliere 200 milioni di spettatori in oltre 50 Paesi ed estimatori insospettabili, dalla rapper americana Cardi B, al presidente venezuelano Maduro. Il partito di Erdogan e lo stesso presidente hanno ripetutamente condannato la serie per la rappresentazione, a loro dire falsa e blasfema, delle vicende storiche e personali del sultano cinquecentesco Solimano il Magnifico, minacciandone anche la sospensione. Ma a fermare la censura è giunto il lato pragmatico del sultano contemporaneo Erdogan, che pur disprezzando questi dizi e i valori che rappresentano, ne comprende l’utilità per espandere il proprio soft power e tentare così di ristabilire l’egemonia culturale turca nell’ampia area un tempo sotto il dominio ottomano.
I dizi sono finiti, così, per essere arruolati nella stessa macchina propagandistica del presidente, al punto che ogni canale turco ha oggi nel proprio palinsesto serale almeno una costosa produzione di ambientazione militare contemporanea, nella quale l’eroico esercito turco affronta e annienta settimanalmente le minacce all’ordine costituito e all’integrità dello Stato da parte di terroristi e ribelli non meglio precisati, ma con connotati e caratteristiche che corrispondono in modo sorprendentemente mirato a quelli delle forze curde e degli altri oppositori al regime di Erdogan. Così come attraverso un nuovo dizi storico, Diriliş: Ertuğrul (“Resurrezione: Ertugrul”) che con budget colossale narra la storia del fondatore dell’Impero Ottomano in una forma criticata dagli storici, ma sostenuta entusiasticamente da Erdogan per la rappresentazione di personaggi positivi di fede islamica e il saper parlare “al cuore della nazione”.
Tale è stato il successo di questo espansionismo culturale da suscitare in molti Paesi confinanti una crescente preoccupazione, catalizzatasi in un nemico molto scomodo: il principe saudita Mohammed bin Salman. Ad attivare il domino che ha portato infine alla rimozione dei dizi dalle televisioni arabe, è probabilmente stata proprio l’eccessiva popolarità della serie Gümüş (dal nome della protagonista, che letteralmente significa “Argento”, ma è stata semplificata in arabo con il più comune nome Noor, ovvero “Luce”), seguita da oltre 85 milioni di spettatori nel solo mondo arabo. Seppure fosse centrata sul felice esito di un matrimonio combinato, la serie mostrava anche aspetti che deviavano in modo considerevole dai valori tradizionali sostenuti dalla monarchia saudita: non soltanto consumo di alcol e baci prematrimoniali, ma soprattutto un ruolo della donna di fatto paritario all’interno della coppia, della società e del mondo del lavoro. Esempi ritenuti particolarmente insidiosi e a rischio d’imitazione perché ambientati e provenienti da un Paese musulmano.
Erdogan, pur disprezzando i dizi e i valori che rappresentano, ne comprende l’utilità per espandere il proprio soft power e ristabilire l’egemonia culturale turca.
Il gran mufti saudita, Abdul Aziz al-Sheikh, arriva a lanciare una fatwa contro il conglomerato televisivo MBC, che ne detiene i diritti per il mondo arabo, condannando chiunque la mandi in onda come “nemico di Dio e del Profeta”. Poiché le trasmissioni non si interrompono neppure negli anni successivi, nel 2015 Mohammed bin Salman tenta di comprare il gruppo MBC, ma senza successo. Due anni più tardi, con un cambio di strategia, azionisti e consiglio d’amministrazione del gruppo MBC vengono arrestati e tre mesi più tardi riemergono dal carcere con l’annuncio della presenza di un nuovo azionista di maggioranza nella società. Il primo ordine della nuova proprietà è quello di cancellare dalla programmazione tutti i dizi turchi.
La rinascita in Occidente
Il mondo arabo, fino a quel momento, era stato il principale bacino di esportazione dei dizi. Ma l’arresto della marcia nel Medioriente viene rapidamente assorbito e compensato da un’inarrestabile espansione verso Occidente. Prima nei balcani, dove il sociologo serbo Ratko Bozovic riconosce la facilità con cui i dizi vengono accolti dalle popolazioni locali, grazie a similarità culturali, valori patriarcali condivisi e concetti di moralità comuni. Poi in Grecia, dove il successo del solito Secolo Magnifico spinge la chiesa ortodossa a condannarne la visione, equiparata a una resa culturale ai turchi. Infine nel resto dell’Europa meridionale: dapprima in Spagna e ora in Italia.
Ancora più sorprendente la popolarità raggiunta dai dizi in America centrale e meridionale: la patria stessa delle telenovelas, che ora si inchina davanti ai nuovi maestri. Un fenomeno che porta con sé anche una coda turistica di centinaia di migliaia di argentini e brasiliani, che a partire dal 2017 volano a frotte verso Istanbul, per visitare dal vivo le ambientazioni delle proprie serie televisive preferite. Probabilmente con la speranza inespressa di incontrare di persona qualcuna delle nuove icone globali che vi appaiono: come Halit Ergenç o l’ultimo idolo Can Yaman, che anche in Italia vive un grado di notorietà probabilmente inedito, per un attore di provenienza asiatica (se non, forse, tornando ai tempi di Kabir Bedi, il quale però recitava in produzioni italiane). Di certo questo nuovo pubblico è molto diverso da quello turco e arabo, in grado di comprendere perfettamente l’universo culturale cui le trame e i personaggi fanno continuamente riferimento. Un aspetto che potrebbe anche stare influenzando la produzione di nuove serie da esportazione, sempre meno caratterizzate da questo punto di vista.
Significativamente, il definitivo consolidamento dei dizi come forma narrativa dominante, in Turchia, avviene tra il 2008 e il 2010, grazie alla serie Aşk-ı Memnu (“Amore Proibito”) ovvero un adattamento dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1899 da Halit Ziya Uşaklıgil. L’ambientazione viene attualizzata in una Istanbul contemporanea e ipersaturata, ma gli spettatori turchi conoscono molto bene la fonte originale e sono del tutto consci delle sfumature che gli autori intendano evidenziare nell’equilibrio tra fedeltà e libera interpretazione del testo letterario. Tutti elementi che vengono inevitabilmente persi nelle messe in onda all’estero, pur non precludendo un enorme successo commerciale e di esportazione, che sorriderà anche a questa serie. Più orientato, tuttavia, tra i Paesi con una maggiore consuetudine con la cultura di riferimento, e assai meno tra quelli più distanti, quali Spagna e Italia, nei quali questa serie rimane inedita.
Il nuovo pubblico internazionale è molto diverso da quello turco e arabo, in grado di comprendere l’universo culturale cui le trame fanno riferimento.
Anche l’affermazione di Gümüş nei Paesi arabi era stata bissata e superata dalla successiva Binbir Gece (letteralmente “Mille e una notte”), anch’essa mai trasmessa nel nostro Paese. Anche nel caso della nota raccolta di racconti arabi di origine orale, la trasformazione in dizi presuppone un adattamento in chiave contemporanea, che vede un “archistar” istanbuliota nei panni che furono del re sasanide Shahriyār, al cui servizio si trova la giovane stagista Şehrazat, costretta dalle circostanze a giacere con lui. Ovviamente sarebbe riconoscibile al pubblico nostrano il nome della protagonista (pur parzialmente differente, nella grafia turca, al più classico Sherazade persiano) così come il titolo stesso della serie (a differenza del mondo anglosassone, dove è riconosciuto piuttosto come Arabian Nights). Ma la conoscenza si arresta poco oltre, rendendo opaco e muto l’intreccio di citazioni e attualizzazioni presente nella serie.
Analogamente, il pubblico della tv del pomeriggio che dal Venezuela o dalla Serbia segua, in un’altra serie di grande successo, le avventure del figlio di un taxista di Istanbul che si innamora senza speranza di una ragazza molto più ricca di lui, difficilmente si renderà conto di stare assistendo all’ultima versione della storia di Leyla e Majnun, raccontata per iscritto per la prima volta dal poeta persiano Nizami nel 1188 e rielaborata da allora in miniature abbasidi, spettacoli di ombre selgiuchidi, rinarrazioni ottomane, film egiziani e attraverso ogni altra forma artistica dalla Persia allo Yemen, da Samarcanda a Timbuctù.
Il rapporto con altri fenomeni culturali turchi d’esportazione
Molte delle serie di maggiore successo all’estero, anche se non legate direttamente a opere tradizionali come quelle più apprezzate nel Paese d’origine e in Medioriente, mantengono comunque un nucleo quintessenzialmente turco. Che, difatti, ruota attorno a temi che sono in gran parte gli stessi affrontati, certo con altri livelli di profondità, dagli autori stellati della letteratura nazionale, alcuni dei quali godono di notevole seguito anche in Europa.
Non tanto i tabù politici, la cui rappresentazione in un dizi avrebbe quasi certamente conseguenze ancora peggiori rispetto ai processi e alle occasionali minacce di morte ricevute da chi abbia avuto il coraggio di scrivere opere che affrontassero il genocidio armeno, la questione curda o il conflitto tra kemalismo e islamismo. La narrazione verso un bacino limitato di lettori, per lo più formato da intellettuali già dissidenti rispetto al regime di Erdogan, non è, infatti, paragonabile ai rischi per il potere che questi temi avrebbero se messi in scena per un pubblico ampio come quello televisivo. I dizi si concentrano piuttosto sugli aspetti legati a vicende interpersonali, ma proprio questa loro capacità di penetrazione trasversale porta con sé sviluppi sociali e politici anche quando applicata a temi apparentemente meno istituzionali: il ruolo centrale della famiglia; il suo rovescio, ovvero la tensione dell’identità personale nel restrittivo contesto relazionale turco; il suo principale corollario, ovvero la condizione femminile.
Le trame ruotano attorno a temi affrontati dagli autori letterari premiati e seguiti all’estero.
Il quadrilatero amoroso che Orhan Pamuk, primo turco a ricevere il premio Nobel per la letteratura, mette in scena in Kar (Neve) sembra estratto tale e quale da un dizi, se non fosse per quello che vi sta attorno. E seppure con un protagonista maschile, è proprio il ruolo delle donne a costituire l’aspetto centrale del romanzo. Andando oltre gli stereotipi di genere, le donne non sono soltanto il motore dell’azione, attraverso i suicidi delle ragazze cui è impedito indossare il velo all’Università, ma soggetti alle prese con il difficile equilibrio tra l’aspirazione a una agency personale e il ruolo previsto per loro da una società a sua volta schizofrenica. Che in nome di due opposte tradizioni, una religiosa e una secolare, impone valori opposti, ma sempre con la forza. In un mondo complesso, nel quale sia divorziare da un marito diventato islamista, che indossare il velo, possano essere simbolo di femminismo. Una serie televisiva non avrebbe mai potuto esplicitare l’appartenenza a formazioni estremiste di alcuni protagonisti, né il grottesco colpo di Stato locale messo in scena — letteralmente — durante una tempesta di neve che isola la cittadina anatolica nella quale è ambientato il romanzo. Ma il potenziale trasformativo per le donne turche che seguono i dizi è, nonostante questo, infinitamente maggiore.
Si prenda a esempio il caso letterario La Bastarda di Istanbul, pubblicato originalmente in inglese dalla turco-britannica Elif Shafak come The Bastard of Istanbul e solo successivamente in turco, con un titolo significativamente diverso (Baba ve Piç) traducibile come “Il padre e la bastarda”. Se a livello internazionale il romanzo è noto soprattutto per i riferimenti al genocidio armeno, altrettanto rilevante era il peso dato alla violenza sessuale nella cultura turca, vissuta come stigma per la vittima, contro la quale si schiera un’alleanza matriarcale e intergenerazionale. Due anni più tardi, lo stesso tema viene portato sullo schermo dal dizi Fatmagül’ün Suçu Ne? (“Qual è il crimine di Fatmagul?”, ancora inedito in Italia) ma con un impatto assai maggiore nell’attivare un dibattito molto più ampio e culturalmente trasversale in Turchia, così come in altri Paesi dalla forte componente patriarcale, come Pakistan e Azerbaijan.
Una via della seta televisiva?
La diffusione capillare dei dizi comprende, infatti, anche i principali Paesi asiatici: dai confini continentali russi fino alla Cina. Qui, la confusione e la perdita d’identità causate dal conflitto tra valori “occidentali” e “orientali” assumono tutto un altro significato, nella percezione del pubblico asiatico. Il quale è a sua volta fortemente differenziato, seppur concentrato nei Paesi a maggioranza musulmana. Un aspetto interessante di questa globalizzazione dell’audience dei dizi, con uno spostamento del baricentro delle esportazioni verso Paesi meno legati alle cultura turca, sommato a una crescente domanda per nuovi contenuti, è il fatto che abbia spinto i produttori a guardare anche al di fuori della propria strada del centro di Istanbul, in cerca di nuovi spunti. Ecco quindi che un cospicuo numero di nuove serie prodotte a Yeşilçam sokak sono, in realtà, cosiddetti “K-dramas” importati dalla Corea del Sud e rifatti in Turchia, per essere commercializzati ai mercati televisivi di tutto il mondo.
In questo senso, in un’epoca in cui anche il consumo culturale di massa vive la transizione verso un mondo multipolare, la Turchia si trova a svolgere ancora una volta la propria funzione elettiva di cerniera e interprete di forme, storie e valori a cavallo tra Asia, Medio Oriente e Occidente. Mediando e rendendoli reciprocamente comprensibili a pubblici altrimenti molto distanti tra loro. Per i detrattori, al contrario, ciò porta piuttosto a un rimescolamento al minimo comune denominatore, come in una cucina fusion che mantenga gli elementi più blandi di ciascuna tradizione culinaria per essere palatabile per ogni gusto.
La globalizzazione dell’audience dei dizi ha spinto i produttori a guardare anche al di fuori della Turchia in cerca di nuovi spunti.
Al netto di queste opposte visioni, i dizi vivono in effetti un momento cruciale per il proprio futuro: tra il rischio che i ritmi industriali, necessari a produrre le 150 serie che la Turchia esporta ogni anno in oltre 100 Paesi, conducano a un ulteriore abbassamento della qualità artistica (che già al suo apice non era certo all’altezza della cosiddetta “prestige tv” di una HBO); il rischio che questi riadattamenti forzati facciano smarrire questa funzione di ponte culturale; il possibile ulteriore peggioramento della democrazia turca, che già in passato contribuì alla fine della stagione cinematografica dell’oro. In un certo senso, sono così i dizi stessi a trovarsi nella situazione di conflitto identitario di molti dei protagonisti che li popolano.
Nel frattempo, il pubblico italiano che commenta sui canali social dedicati al genere sembra consapevole della qualità non eccelsa del prodotto da cui si è fatto stregare, ma al contempo ne apprezza la bellezza estetica di personaggi e ambientazioni, i colori accesi e la semplicità narrativa, tanto più preziosa per chi cerca escapismo in questi tempi complessi. Che i dizi lo siano o meno veramente, alla fine sorge il sospetto che ciò che gli spettatori cercavano fosse proprio soltanto una telenovela: avranno mai la possibilità di scoprire che, forse, avrebbero potuto essere qualcosa di più?