Questo articolo è tratto da una delle tre introduzioni del volume scaricabile online Blueprint, pratiche culturali trasformative e urgenti: (a cura di cheFare, Polo del ‘900 e di Simone Arcagni) una “raccolta di pratiche culturali trasformative e urgenti emerse durante la pandemia di coronavirus” firmato da 35 “intellettuali, artiste, ricercatori e operatrici culturali”.
U
n evidente effetto collaterale del cornavirus, e in particolare del lockdown, è stata la rivalutazione del ruolo che la digitalizzazione può avere nella nostra società. Dalla scuola all’università, passando attraverso le diverse anime delle pubbliche amministrazioni, per arrivare ai musei e agli archivi, i festival, le conferenze, gli spettacoli. Ci si è accorti che usare il digitale non implica sostituire ma affiancare, supportare in caso di emergenza, e magari potenziare. In particolare i beni culturali (usiamo questa dizione più generale) possono avvantaggiarsi, sia negli ambiti della comunicazione, che nella valorizzazione dei fondi e degli archivi, nell’internazionalizzazione, nell’implementazione della didattica e così via.
Si può allora partire da qui: da questo nuovo interesse (finalmente più critico) a proposito di piattaforme, streaming e archivi digitalizzati. Un percorso fondamentale, anzi sarebbe meglio dire, inderogabile, che si innesta sulla questione della tecnologia nel suo rapporto con la cultura. […]
Per anni il dibattito sul digitale si è concentrato, bene o male, eccetto pochi casi virtuosi, sulle solite categorie e sulle fazioni estreme: gli apocalittici e gli integrati. Una radicalizzazione, tra l’altro, poco consona (e interessante), nel momento in cui verte su un aspetto, a mio avviso piuttosto secondario, e cioè l’uso delle tecnologie. Dopo questa prima fase che in pratica si è focalizzata sull’utilizzo dei mezzi e non sul significato profondo degli stessi e sulla visione del mondo che questi producono, ci siamo avviati verso una seconda ondata di dibattito culturale tutta etica.
Ma un’etica spesso un po’ infantile: digitale sì, digitale no. (Come se fosse un’opzione!) Tutto un “scervellarsi” tra psicologi da studi televisivi e educatori da centri estivi che discettano su videogame e violenza, social network, hikikomori, disagi e dipendenze varie. Un dibattito tutto centrato su di un rutilante mondo patologico dove, ancora una volta, emerge una visione psicopatetica dei giovani. In definitiva: povere creature, in balia di questi strumenti arrivati dall’iperuranio e inviatici da una mente oscura. Mezzi diabolici, ovviamente, in mano a pochi faccendieri orientati a costituire un cosiddetto “ordine nuovo”. Di contro non risulta meno superficiale certo pensiero iperottimista della Silicon Valley che poi ha nascosto (nemmeno troppo velatamente) un approccio anche piuttosto tradizionalmente capitalista, se non apertamente (e “piratescamente”) ultraliberista.
Insomma: la cosiddetta rivoluzione digitale, la “quarta rivoluzione” dell’infosfera teorizzata da Luciano Floridi, ha innescato un dibattito semplicemente tecnologico, nel suo senso più “basic(o)”. Con giornali e tv a sbandierare le mirabilia del nuovo iPhone, iMac, smart watch, smart TV e quant’altro. E parallelamente ha generato un moralismo serpeggiante di lega anche piuttosto bassa.
D’altra parte si registra un sistema governativo che si è impegnato ma che ha focalizzato tutto il suo agire sulla burocrazia digitale. Tra agenda digitale e diversi tavoli di lavoro con differenti livelli di aspettativa che si sono susseguiti con alterne vicissitudini critiche — penso a smart city, big data, internet delle cose, intelligenza artificiale. Tra agenzia digitali, progetti di innovazione, supporto alle start-up, è mancato un quadro critico più ampio e complesso. In una parola: una visione.
Da qui la prudenza e l’imbarazzo di fronte alle nuove sfide proposte dalla tecnologia, anche da parte delle istituzioni culturali. A parte un certo fermento intorno al tema delle cosiddette digital humanities (ma nella maggior parte dei casi rientriamo pur sempre nel solo – seppur meritorio – ambito della conservazione) si registra poco. In parte a causa dello scarso supporto normativo, in parte per pigrizia, in parte per aperto pressapochismo, abbiamo avuto anni in cui la “visione” si limitava all’acquisto di hardware costosi e con un grado di deperibilità tecnologica tale da non giustificare l’investimento.
A quante presentazioni di sistemi tecnologici raffinatissimi poi rimasti dimenticati dopo appena pochi passaggi ho assistito! Giusto il tempo di chiamare qualche rappresentante della stampa e giustificare una spesa da marcare nella voce innovazione. Ovviamente seguendo la moda del momento: che fosse il tablet, il visore VR, il sistema 3D, la realtà aumentata… Spesso affidandosi a grandi aziende che, al posto di svolgere il proprio ruolo — e cioè quello di fornitore e sviluppatore di tecnologie secondo un piano e un progetto preordinato — diventavano i veri e propri motori di acritiche acquisizioni, mentre d’altra parte si sviluppavano strategie social a dir poco “brancaleonesche”.
Qualcosa però sembra cambiare. Finalmente prende piede la logica della collaborazione tra grandi aziende ICT e non il vassallaggio. Finalmente si vedono agire società di comunicazione a cui vengono fatti sviluppare progetti specifici e di ampio respiro. Finalmente si incontrano professionisti che guardano l’ente nel suo complesso. Poco alla volta.
Ecco allora l’importanza di guardare gli altri. Le pratiche, non come una semplice collezione di esempi da riportare acriticamente, ma perché facciano scuola, perché ispirino, diano segnali. Siamo in una grande realtà, connessa, dove ogni esperimento può essere comunicato, condiviso, replicato, magari sviluppato in collaborazione. Può funzionare declinato in maniera diversa. C’è finalmente la possibilità di una grande fucina collaborativa. Torniamo – questo sì che lo possiamo fare! – all’utopia di Internet. E lo possiamo fare non perché i pericoli su copyright, controllo e data siano magicamente scomparsi, ma perché li conosciamo, li possiamo affrontare, possiamo chiedere norme nazionali e internazionali efficaci. Abbiamo le conoscenze, abbiamo le competenze.
Sappiamo cosa chiedere. Sappiamo, per esempio, di avere bisogno di infrastrutture, e allora iniziamo da lì: banda larga, e su tutto il territorio, che permetta agli studenti (e non solo) di avere forme di educazione e formazione anche a distanza. Si tratta di una opportunità. Non parliamo di sostituire la presenza, ma di ripensarla, declinata in diversi luoghi. E uno di questi può anche essere quello virtuale. Magari con spazi immersivi e interattivi facili da usare e implementare. Uno spazio allargato di partecipazione e condivisione, oltre che di fruizione (e che tra l’altro ci libererebbe dalla tirannia poco salubre delle videochiamate). Certo! Poter contare al proprio interno di un team che sappia di tecnologie e che sia in grado di provvedere a sviluppare progetti che abbiano a che fare con la digitalizzazione o con la realizzazione di piattaforme (e – perché no! – lanciarsi nel mondo della gamification, dei serious game, degli avatar e della XR), quella deve essere la direzione. Ancora una volta: poco alla volta, ma neanche troppo però — gli esempi internazionali migliori ci dicono proprio questo.
Banda allora, ma anche strumenti per tutti: non si possono più leggere delle staffette delle famiglie per far circolare i computer o di ragazzi che seguono le lezioni sullo schermo dello smartphone. E poi, ancora a proposito di infrastrutture, norme sicure sul copyright. E un piano serio sui data. Lavorare sugli standard. Un progetto infrastrutturale che renda ogni archivio, biblioteca, museo e galleria un hub di contenuti che ospita passaggi e studi specifici, che comunica e scambia. Lanciare, insomma, un nuovo patto tra individui e istituzioni (culturali e non) fatto di scambi proficui sotto diversi punti di vista.
Complessità e narrazione. Abbiamo bisogno di nuove narrazioni in grado di generare nuovi immaginari.
Proviamo a non fare gli stessi errori: lavoriamo sui mezzi personali che siano in grado di dialogare facilmente con quelli istituzionali. Si lavori sugli upgrade. Si intensifichino le possibilità di condivisione. Si ripensi lo spazio e il tempo proprio a partire dai siti culturali… biblioteche, archivi, musei, ma anche provincia e borghi. La rete ci permette di svincolarci dalle vecchie diatribe tra metropoli e provincia, città e campagna, agricoltura e industria. Tutto un portato storico che non rispecchia l’oggi e che, soprattutto in un paese come l’Italia, potrebbe avere uno sviluppo significativo. Il bene culturale come hub di dialogo e di internazionalizzazione, come centro di nuovi fulcri di connessione che rimettono in discussione (in maniera proficua) lavoro, istruzione, formazione, ma anche il concetto stesso di cittadinanza.
L’ottimismo acritico della prima ondata di cultura digitale deve far posto a un pensiero complesso: in fin dei conti un guru come Nicholas Negroponte, dopo il suo manifesto Essere digitali, è ritornato sulle sue posizioni avvertendo un certo sbandamento nel primo ottimismo digitale. La sua più recente posizione è quella dei cosiddetti postdigitali che vogliono occuparsi dell’analogico nella società digitale. Attenzione allora a non rifare gli stessi errori: ritrovare l’analogico nell’età digitale significa prendere atto del carattere più specifico del nostro tempo, ma non lasciarci ingannare dallo spauracchio dei mezzi per affrontare quello che importa davvero, il reale, i rapporti, le persone, l’ambiente all’interno di una società dominata dalla “logica culturale” dei mezzi digitali.
In una sorta di percorso inverso, infatti, la sociologa Shirley Turkle, sempre piuttosto pessimista sull’invadenza dei social nelle nostre vite, proprio durante il periodo di lockdown ha rilasciato un’intervista in cui doveva ammettere la fondamentale importanza di queste piattaforme connesse. Ma niente è davvero cambiato, ciò che deve cambiare è l’atteggiamento, il punto di vista, l’approccio che deve essere più ampio e più complesso, filosofico nell’ampiezza, scientifico nei modi. Facile a dirsi.
Ecco perché le pratiche assumono un ruolo così fondamentale, perché sono uno straordinario laboratorio per un’osservazione ampia, per lo sguardo critico e per la creazione di concetti e insieme per l’analisi dei risultati, per la messa alla prova delle tecnologie, per la profilazione di processi.
La parola chiave allora è complessità, dove per complessità si intende innanzitutto un approccio nuovo alla tecnologia, un approccio culturale, etico, umanistico. Un approccio, non tanto multidisciplinare, dove dietro al termine multidisciplinarietà spesso si cela una farraginosa pluripresenza ai tavoli di lavoro senza che questi siano stati adeguatamente preparati all’inferenza di discorsi diversi, a pratiche differenti, addirittura a logiche diverse.
E così, nonostante pomposi discorsi su compenetrazione, ibridazione, ognuno poi se ne va a casa, nel chiuso del suo comparto disciplinare, lasciando a pochi uomini (sì, sì, – ahimè! – proprio nel senso di maschi) la regia di una serie di mosaici mai del tutto realizzati.
Complessità e narrazione. Abbiamo bisogno di nuove narrazioni in grado di generare nuovi immaginari. E ancora una volta le pratiche sono, in questo senso, materiale dal valore inestimabile, acceleratori di visioni, non tanto per l’utilizzo delle tecnologie, quanto per strategie in grado di comunicare, individuare pubblici, soddisfare bisogni di diversa natura e carattere, lavorando sui fondi, sulle persone. Creare anche luoghi che possano essere attraversati per la formazione e la didattica, per la ricerca e lo sviluppo, generando nuove forme di cittadinanza digitale.
Nuovi paradigmi possono stagliarsi all’orizzonte di un rapporto proficuo tra infrastrutture, aggiornamento tecnologico e cultura. Nuove modalità di intercettazione di creatività e idee nel sistema di nuova fragilità messo in luce dal coronavirus. La fragilità sembra essere, più che uno stato d’essere, una risorsa emergente, un modo di pensare che ha molto a che fare con l’elasticità. Prendiamo il caso dello “smart working“ che può innestare processi prolifici sia dal punto di vista economico che ambientale con ricadute positive sul territorio. Immaginarci (ecco l’importanza della visione) un paese connesso in cui non mancano strumenti adeguati, con software di supporto in grado di produrre standard per condivisione e utilizzo (e persino riutilizzo) dei data.
Un sistema – come dicevo – che parte dai luoghi come musei, biblioteche, archivi, mostre, per arrivare alle piazze, ai parchi, ai borghi, alla provincia. Nuovi centri che si irradiano dai territori. La provincia e il borgo (bene culturale di per sé in molti casi) che si connettono per lavorare e che in questa connessione riescono a rendere la vita degli studenti, per esempio, ma anche la sanità più vicina, famigliare e amica. Che allo stesso tempo è in grado di dialogare con l’ambito nazionale e quello internazionale. Guardiamo le pratiche allora, e che siano in grado di fornirci narrazioni e visioni così che la tecnologia venga sottratta dal dominio del “tecnico” per ritornare a quello dell’ “umanistico” dove scienza, tecnologia e cultura dialogano in maniera proficua.