I l 21 gennaio 2010 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton tiene uno dei suoi discorsi più noti. Davanti a lei, radunati nel Newseum di Washington, ci sono amministratori delegati, senatori, deputati, ambasciatori e i massimi rappresentanti di società come l’Aspen Institute e altre. In poche parole, l’élite più elitaria degli Stati Uniti. Nel corso del suo lungo discorso, battezzato Remarks on Internet Freedom (osservazioni sulla libertà di internet), Hillary Clinton afferma: “Sotto molti punti di vista, l’informazione non è mai stata così libera. Ci sono oggi più modi di diffondere più idee a più persone che in qualunque altro momento della storia. Anche nei paesi autoritari i network d’informazione stanno aiutando le persone a scoprire i fatti e a responsabilizzare i governi”.
Siamo al picco di quello che potremmo chiamare “ottimismo digitale”. Anni in cui la narrazione dominante rappresenta il web, i social network, i blog e tutto ciò che rientra nell’infosfera abilitata da internet come qualcosa che avrebbe inevitabilmente reso l’informazione più accessibile, i cittadini più consapevoli e, come logica conseguenza, il mondo stesso più libero.
Le rivoluzioni di Twitter
In un mondo in cui l’accesso alle notizie è privo di restrizioni e in cui gli esseri umani sono resi più forti dalla tecnologia”, scrive oggi Foreign Affairs, “si pensava che gli autocrati non sarebbero più stati in grado di conservare la concentrazione di potere da cui i loro sistemi dipendono”. Nonostante le reazioni al discorso di Hillary Clinton non fossero state unanimi (e tra i critici sbucava già allora Evgeny Morozov), l’immediato futuro sembrò dare ragione all’ex senatrice per lo stato di New York.
Solo pochi mesi dopo, sul finire del 2010, iniziano infatti a farsi largo le primavere arabe. Che, soprattutto in Egitto e Tunisia (com’era già avvenuto durante la fallita Onda Verde dell’Iran), vengono definite anche Twitter Revolutions. È in gran parte merito dei nuovi strumenti digitali, ci viene detto, se i manifestanti riescono a comunicare, scambiarsi informazioni, organizzare le manifestazioni e infine a costringere dittatori come Ben Ali (Tunisia) e Hosni Mubarak (Egitto) a cedere il potere.
Come oggi sappiamo fin troppo bene, la Primavera Araba (anche e soprattutto in nazioni come Siria, Libia o Yemen) non è andata a finire come si sperava in quei giorni. Con il senno di poi, ci si è anche resi conto di quanto la narrazione secondo cui questi movimenti fossero abilitati dai social network fosse fuorviante fin dall’inizio. All’epoca, in Tunisia solo 200 account comunicavano con frequenza su Twitter (che offrirà il servizio in arabo soltanto a partire dal 2012) e meno del 20% dei cittadini del paese utilizzava un qualunque social network. Anche in Egitto gli iscritti a Twitter non superavano quota 130mila. Lo strumento più importante per i manifestanti furono con tutta probabilità i vecchi (rispetto ai social network) SMS.
“Ciò che Facebook, Twitter e YouTube offrirono ai manifestanti dell’élite urbana è stato importante, ma non decisivo per le rivoluzioni in Egitto e Tunisia. Servirono più che altro a far sapere al resto del mondo ciò che stava avvenendo”, ha scritto Siva Vaidhyanathan su Wired. “I tecno-ottimisti ignorarono gli altri fattori che ebbero un ruolo fondamentale: in particolar modo, la grande esperienza organizzativa di attivisti che si stavano preparando da decenni a questo tipo di opportunità e gli errori politici ed economici che avevano indebolito i regimi”.
Con il senno di poi, ci si è resi conto di quanto la narrazione secondo cui i movimenti della Primavera Araba fossero abilitati dai social network fosse fuorviante fin dall’inizio.
Tutto ciò l’avremmo compreso solo negli anni successivi. In quella fase l’ottimismo digitale era invece imperante. Uno dei suoi simboli fu la copertina del 2012 della MIT Technology Review, con protagonista Bono Vox e un virgolettato che recitava: “I big data salveranno la politica – I telefoni cellulari, la rete e la diffusione dell’informazione: una combinazione letale per i dittatori”. Letto oggi, a dieci anni di distanza dalle primavere arabe, questa lettura sembra colpevolmente ingenua. Eppure sarebbe stato difficile pensarla diversamente.
La polizia segreta dei big data
La Stasi, una delle polizie segrete più efficaci di tutti i tempi, era in grado di tenere sotto controllo la Repubblica Democratica Tedesca anche grazie ai suoi impressionanti numeri. “Nel 1989 aveva circa 100mila dipendenti e, secondo alcune fonti, tra 500mila e due milioni di informatori in una nazione con una popolazione di circa 16 milioni”, scrive ancora Foreign Affairs. “Questa manodopera e queste risorse le permettevano di permeare la società e tenere d’occhio virtualmente ogni aspetto della vita delle persone nella Germania dell’Est. Migliaia di agenti riferivano delle loro relazioni personali e familiari, intercettavano i telefoni e infiltravano i movimenti politici clandestini. C’erano agenti posizionati negli uffici postali per aprire lettere e pacchi diretti a, o provenienti da, paesi non comunisti. Per decenni, la Stasi è stata un modello di come un regime autoritario altamente efficace può utilizzare la repressione per mantenere il controllo”.
All’alba dell’epoca digitale, riprodurre un sistema di questo tipo sembrava impossibile. Se era necessario un tale dispiegamento di forze per controllare telefoni, posta cartacea e incontri di persona, come avrebbe potuto una dittatura tenere sott’occhio la proliferazione incontrollata dei canali di comunicazione: social network, instant messaging, email, forum, deep web e altro ancora? La versione di Bono Vox, per così dire, sembrava essere l’unica legittima: internet avrebbe portato al trionfo delle democrazie liberali e avrebbe fornito a tutti l’accesso all’informazione libera.
Si era però sottovalutato un aspetto cruciale, sottolineato qualche anno dopo da Zeynep Tufekci proprio sulla MIT Technology Review: “Il potere impara sempre. E gli strumenti più potenti finiscono sempre nelle sue mani. È una dura lezione di storia che si dimostra sempre valida. Ed è la chiave per capire come mai, negli ultimi anni, le tecnologie digitali sono passate dall’essere accolte come strumenti di libertà all’essere accusate di sovvertire le democrazie occidentali, di facilitare la polarizzazione e favorire il crescente autoritarismo”.
Il potere impara sempre, e negli ultimi decenni ha mostrato con quale spietata efficacia sia stato in grado di trasformare ciò che era considerato uno strumento di liberazione in uno di controllo incredibilmente pervasivo.
I big data non avrebbero salvato la politica. Al contrario: sarebbero diventati in Occidente lo strumento accusato (a torto o a ragione) di aver portato alla vittoria Donald Trump, la Brexit e Jair Bolsonaro. E che nelle dittature si sarebbe dimostrato perfetto per riprodurre una sorveglianza in stile Stasi anche al tempo del digitale. È grazie ai dati prodotti online – anche tramite le comunicazioni digitali e i profili social – che è stato possibile addestrare algoritmi di machine learning in grado di analizzare gli scambi testuali che avvengono online, di estrarre informazioni dai metadati raccolti durante le conversazioni, di monitorare gli spostamenti (potenzialmente) di chiunque attraverso il riconoscimento facciale e di conoscere nel dettaglio gli orientamenti politici, religiosi o sessuali di ciascuno di noi. In un’epoca in cui tutto diventa sempre più polarizzato, non dovrebbe stupire che gli strumenti che hanno consentito un accesso senza precedenti all’informazione libera sono gli stessi che hanno permesso di dispiegare una sorveglianza altrettanto pervasiva.
Nessuno ha imparato a usare questi strumenti con la stessa efficacia della Cina: una nazione in cui la combinazione tra dittatura e avanguardia tecnologica sta dando prova di tutta la sua capacità repressiva. L’analisi del linguaggio naturale da parte delle intelligenze artificiali viene per esempio sfruttata per individuare – e arrestare – gli utenti che criticano il governo su Weibo (il Twitter cinese), mentre il riconoscimento facciale consente di tenere sotto strettissima sorveglianza l’intera regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang. Se non bastasse, l’elaborazione dei big data sta permettendo di creare l’ormai famoso progetto (ancora in fase di implementazione) del social credit system, che attraverso l’analisi digitale delle nostre abitudini – acquisti online, puntualità nei pagamenti, multe ricevute, ore di volontariato eseguite e altro ancora – fornisce una sorta di pagella del buon cittadino; garantendo vantaggi ai meritevoli (tra cui corsie preferenziali per accedere ai concorsi pubblici) e punendo gli indegni (mancato accesso ai finanziamenti o ai mutui, per esempio).
Il miglior alleato delle dittature
Il potere impara sempre, dicevamo. E in questi ultimi decenni ha mostrato con quale spietata efficacia sia stato in grado di trasformare ciò che era considerato uno strumento di liberazione in uno di controllo incredibilmente pervasivo (che peraltro inizia a contaminare anche le nostre democrazie). “Guidate dalla Cina, le autocrazie digitali di oggi stanno usando la tecnologia – internet, social media, intelligenza artificiale – allo scopo di potenziare le loro tattiche per la sopravvivenza autoritaria”, scrive ancora Foreign Affairs.
Il risultato è che le dittature digitali sono molto più durature di quanto non fossero in passato i loro predecessori e di quanto non siano oggi quelle meno capaci di sfruttare le nuove tecnologie. A differenza di ciò che pensavano i tecno-ottimisti all’alba del nuovo millennio, le dittature (e le democrature) non stanno cadendo vittima di internet e gli altri strumenti digitali, ma ne stanno invece traendo importanti benefici.
Da questo punto di vista, i dati raccolti nell’Autocratic Regimes Data Set parlano chiaro: tra il 2000 e il 2017 circa il 60% di tutte le dittature ha subito almeno una protesta antigovernativa con un minimo di 50 partecipanti. I numeri possono sembrare piccoli, ma la costanza delle proteste dimostra come queste possano tenere sulle spine i governi autoritari. E a volte anche provocarne la caduta: nello stesso lasso di tempo sono stati rovesciati, in seguito a manifestazioni di piazza, 10 dei 44 regimi autoritari caduti in quel periodo. Altri 19 regimi hanno invece perso il potere in seguito a elezioni, che però sono spesso state una conquista proprio delle proteste.
Le dittature che hanno imparato a usare le tecnologie digitali hanno dimostrato di resistere più a lungo delle altre.
L’aspetto più importante dello studio è però un altro: le dittature che hanno imparato a usare le tecnologie digitali hanno dimostrato di resistere più a lungo delle altre. Tra il 2000 e il 2017, sono crollati 37 dei 91 regimi con più di un anno di vita, ma quelli che hanno evitato la disfatta erano, in media, dotati di un livello più elevato di “repressione digitale”. Uno degli esempi più emblematici è quello della Cambogia, guidata dal 1985 dal primo ministro Hun Sen.
In seguito alle elezioni farsa del 2013 migliaia di persone scesero in piazza per protestare, mobilitate dalle opposizioni grazie all’utilizzo degli strumenti digitali. La reazione di Hun Sen non si affidò solo alla classica repressione violenta, ma anche alla censura e al controllo di tutti gli strumenti che consentivano all’informazione di circolare liberamente. Nell’agosto 2013 venne temporaneamente bloccato Facebook, pochi mesi dopo furono chiusi 40 internet café nella provincia di Siem Reap e l’anno successivo venne istituita una “internet task force” con il compito di monitorare l’attività antigovernativa online. Nel 2015, infine, è stata varata una legge che consente al governo di sospendere i servizi forniti dalle società di telecomunicazioni.
Risultato? Anche a causa di queste misure, il movimento di protesta si è rapidamente spento, come dimostra il fatto che dalle 36 manifestazioni avvenute nel paese nel 2014 si è passati a una sola nel 2017. Hun Sen è invece ancora oggi saldamente al potere e sta riportando la Cambogia a essere una dittatura in tutto e per tutto. Ovviamente, la repressione digitale non è una forma morbida di repressione, ma una che si aggiunge a quella tradizionale: “Le dittature che aumentano la repressione digitale tendono anche ad aumentare le forme violente di repressione fisica”, si legge ancora nello studio. Non una sostituzione, ma un’aggiunta che – anche attraverso l’analisi delle comunicazioni online – rende ancora più facile capire a quali porte la polizia segreta deve andare a bussare.
A colpire è la rapidità con cui il regime cambogiano è riuscito, nel giro di pochi mesi, ad adattarsi a una situazione che rischiava di sfuggirgli di mano rovesciando il ruolo delle nuove tecnologie: da forza di liberazione a strumento di repressione. Ai tempi della Stasi questo non sarebbe stato possibile: per reclutare un milione di spie, infiltrare i movimenti sotterranei, selezionare le persone da sorvegliare e predisporre migliaia di intercettazioni serve molto tempo. Oggi per assicurarsi una sorveglianza di base è sufficiente acquistare software basati su intelligenza artificiale – progettati da aziende statunitensi, cinesi, israeliane e anche italiane – che sono stati venduti, tra gli altri, ai regimi di Angola, Bahrein, Kazakistan, Mozambico e Nicaragua.
La repressione digitale, sotto forma di censura e controllo, non è una forma morbida di repressione, ma una che si aggiunge a quella tradizionale.
Dai famigerati IMSI Catcher – strumenti in grado di succhiare qualunque informazione dagli smartphone che riescono ad agganciare, arrivando anche a leggere i messaggi privati – ai software di riconoscimento facciale. Dai programmi di analisi dei big data ai più semplici eserciti di bot, che amplificano sui social i messaggi a favore dei governi e diffamano gli avversari. Dai deepfake usati a scopi politici ai trojan di stato.
La moltiplicazione degli strumenti digitali e la mole immensa di comunicazioni e informazioni non ha impedito ai regimi di seguire le tracce degli oppositori. Al contrario: è proprio la straripante quantità di dati digitali che generiamo ogni giorno ad aver permesso l’addestramento degli algoritmi che analizzano le comunicazioni o riconoscono i volti.
Per un Gerd Wiesler che, ne Le vite degli altri, intercetta il solo scrittore e dissidente Georg Dreyman, oggi c’è un algoritmo che può analizzare tutte le opinioni che circolano online. Per un agente del KGB che pedina un solo oppositore oggi c’è un network di telecamere che può seguirci ovunque. Invece di venire sconfitte dall’avanzata dell’epoca digitale, le dittature hanno imparato a sfruttare a loro vantaggio le nuove tecnologie, trovando in esse un prezioso alleato.
Democrazie fragili
Non sono soltanto le dittature a sfruttare questi strumenti in maniera sempre più inquietante: “Le nuove tecnologie sono particolarmente pericolose per le democrazie più deboli, perché molti di questi strumenti possono avere un doppio uso: aiutano ad affrontare minacce come il crimine e il terrorismo, ma – indipendentemente dallo scopo per cui vengono acquistate – possono anche essere usate per mettere la museruola agli oppositori e limitare la loro attività”.
La moltiplicazione degli strumenti digitali non ha impedito ai regimi di seguire le tracce degli oppositori. Al contrario: è proprio la straripante quantità di dati digitali che generiamo ogni giorno ad aver permesso l’addestramento degli algoritmi del controllo.
Un discorso simile vale per la cosiddetta balcanizzazione di internet: la volontà di separare le reti nazionali da quella globale per tenere più facilmente sotto controllo la circolazione della libera informazione. Ancora una volta, l’esempio più famoso è quello della Cina e del suo Grande Firewall. Negli ultimi tempi, però, la tentazione di isolare la propria rete nazionale sta facendo gola a un numero crescente di paesi: Russia e Iran sono gli esempi più famosi, ma anche l’Unione Europea non è rimasta immune a questa tentazione, se si pensa che – in seguito allo scandalo del datagate – nel 2014 la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva invitato i 28 membri dell’Unione Europea a creare una propria internet regionale completamente separata dal world wide web (progetto poi abbandonato).
Dittature più forti e democrazie più deboli: è davvero questo l’esito della rivoluzione digitale? Sarebbe una sintesi riduttiva: quel che è certo è che la rete, i big data e l’intelligenza artificiale hanno fornito agli uomini forti di tutto il mondo strumenti che non avrebbero immaginato nemmeno nei loro sogni più reconditi e hanno permesso loro di fronteggiare agevolmente quella che, un decennio fa, sembrava l’irresistibile ondata di libertà promossa da internet. Nelle democrazie, invece, è sotto gli occhi di tutti come la tentazione di sfruttare le nuove tecnologie a scopi di sorveglianza si stia facendo sempre più largo (sollevando per fortuna anche un certo dibattito) e come ponga nuove sfide in termini di privacy e qualità del confronto politico.
E così, dal mito della “libertà di internet” del 2010 si è passati al timore che internet e le altre tecnologie digitali possano, nel 2020, dare sempre più potere alle dittature e mettere a repentaglio le democrazie. Come non era inevitabile la prima lettura, non è neanche detto che sia irreversibile il processo a cui stiamo assistendo oggi. Ma per chi sognava un mondo digitale senza confini e in grado di superare ogni forma di controllo, il risveglio è stato di quelli bruschi.