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uando uscì nel 2008 il suo saggio Storia Transgender, l’autrice Susan Stryker, storica e attivista americana, non si aspettava il successo e la risonanza internazionale, anche a distanza di anni, che il libro avrebbe avuto. Ideato come saggio introduttivo per un pubblico universitario sulla storia delle soggettività transgender negli Stati Uniti è diventato a poco a poco un testo imprescindibile per i Trans Studies – non solo in Nord America, ma anche in Europa – e da poco è stata realizzata l’edizione italiana, a cura di Gruppo Ippolita, tradotta da Laura Fontanella e Marta Palvarini e pubblicata da Luiss University Press.
Sono diversi i fattori che forse ne hanno determinato la popolarità: da una parte sicuramente è sintomatica dell’influenza culturale e sociale statunitense, e in generale del mondo anglosassone, sugli studi e le ricerche inerenti genere e sessualità, dall’altra è forse dettata dalla necessità di recuperare e trasmettere storie collettive e individuali sulle soggettività trans in Occidente, spesso dimenticate o mai raccontate. In Storia transgender Stryker compie un lavoro situato e intimamente connesso alla sua storia personale, consapevole della posizione che occupa come autrice bianca occidentale in contesto accademico. In una video intervista per la San Francisco University l’autrice racconta proprio la genesi del testo come un bisogno, nato da riflessioni sulla storicità della propria identità trans e su come collettivizzare esistenze, che molto spesso sono rappresentate come un percorso individuale attraversato da difficoltà, dolore, violenza e marginalizzazione. Proprio per questo Storia Transgender è un testo in grado di combinare la voce personale di Stryker alla memoria viva e cruda delle lotte e dei corpi trans, e non solo, perché è un racconto che si intreccia con quello di altre soggettività e comunità che non si conformano alle norme di binarismo di genere, bianchezza e abilismo fisico e cognitivo, mettendo in luce come “i corpi fisici stessi sono spesso più complessi, spesso non binari, e le categorie sociali sono a loro volta mutevoli e non possono essere ridotte, senza problemi, alla carne”.
Così come i corpi, anche la storia e il linguaggio sono estremamente mutevoli e bisogna saperne riconoscere potenzialità e limiti nel loro trasformarsi e riadattarsi ai tempi, cercando di generare nuovi punti di vista, nuove modalità di comunicare e condividere la memoria storica del passato, costruire un nuovo lessico condiviso in continuo mutamento. Nel contesto occidentale contemporaneo, in cui il genere e la sessualità e le questioni ad essi connesse apparentemente non hanno mai contato tanto come ora, al punto da essere diventati il centro di guerre culturali e sociali, dagli Stati Uniti all’Europa, guardare alla storia delle persone transgender significa riflettere in senso più ampio sulla dimensione storica del controllo del disciplinamento dei corpi e della loro autodeterminazione da parte del potere politico.
Per Susan Stryker, rileggere il passato in chiave queer e trans è un modo per offrire alla società un nuovo spazio di cambiamento e di creazione di comunità alternative, riconoscendo le radici lontane e profonde delle lotte, della formazione delle politiche identitarie contemporanee e delle trasformazioni che l’Occidente vive oggi. Con Storia Transgender, l’autrice fa emergere le potenzialità inespresse del passato in grado di alterare il futuro, mettendo in luce come l’esistenza transgender sia strettamente legata ad altri temi attuali e urgenti: dallo sfruttamento capitalista sempre più esasperante dei corpi e dell’ambiente al risorgere di fascismi e populismi di destra violenti ed estremi. Così è nata la nostra conversazione, nel tentativo di analizzare il momento che stiamo attraversando con una prospettiva trans*: trans-storica, trans-disciplinare, trans-genere e trans-generazionale.
Storia Transgender è stata pubblicato nel 2008 e nel corso del tempo ha subito aggiornamenti e ampliamenti. Cosa rappresenta per te oggi questo libro? Quale significato può assumere per unə lettorə contemporaneə?
Quando ho iniziato scrivere
Storia Transgender la mia ricerca si è svolta all’interno di archivi universitari e storici nella sezione dedicata alle soggettività gay e lesbiche – all’epoca molto ridotte. Solo lì trovavo tracce delle esistenze e delle esperienze transgender, perché non esistevano sezioni d’archivio destinate a esse e alla raccolta di materiale e documenti che ne testimoniassero la storicità. In quel momento scrivere una storia sulle vite transgender negli Stati Uniti è diventato per me un modo di mostrare l’esistenza di una comunità complessa, che attraversa e ha attraversato la società, ma anche di riunire diverse esperienze e collettività attorno a un racconto storico comune. Non è mai stata mia intenzione creare un modello storico sulle soggettività transgender, ma l’obiettivo del mio libro era di fornire ispirazione per raccontare altre storie in altri luoghi e tempi. Oggi provo molta gratitudine quando mi accorgo che è ancora uno strumento utile e importante per qualcunə, perché penso che la storia delle persone trans, la nostra storia, è fatta di corpi e movimenti e intercetta ogni aspetto della società. Con il mio editore stiamo lavorando alla terza edizione di Storia Transgender e sto riflettendo su come strutturarla. In questo momento penso molto a un famoso saggio di Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in cui afferma la necessità di guardare il passato alla luce della crisi corrente. In questo caso sto parlando di come la situazione sia cambiata drammaticamente per le persone trans negli Stati Uniti negli ultimi anni, ma soprattutto negli ultimi mesi, con leggi in diversi stati che criminalizzano l’uso dei bagni pubblici in base al genere di elezione e che penalizzano e discriminano le nostre esistenze e la nostra salute, come gli ultimi emendamenti approvati dallo stato della Florida lo scorso maggio. Questo mette sotto una diversa luce la storia e il passato della comunità trans statunitense.
In Storia Transgender c’è un capitolo in particolare intitolato “I decenni difficili”, in cui affronti, dopo i momenti militanti degli anni Sessanta, l’emergere di discorsi anti-trans all’interno dei movimenti femministi e gay a partire dalla fine degli anni Settanta a quella degli anni Novanta circa, in concomitanza con la diffusione dell’HIV e del neoliberismo. Leggendo quel capitolo, mi sono accorta che i tropi transfobici sono sempre gli stessi e che quelli di oggi si ispirano o sono diretta emanazione di quelli di allora. Non c’è nulla di nuovo, insomma.
Si, non c’è niente di nuovo, ma quelle posizioni di oltre trent’anni fa per almeno vent’anni sono state marginali e tenute fuori dal discorso pubblico mainstream. Penso a Janice Raymond, autrice del testo transfobico The Transsexual Empire: The Making of the She-Male del 1979: negli anni Settanta il suo lavoro non aveva molto peso politico e sociale, ma il suo pensiero e quello di altre femministe radicali di allora è stato ripreso da persone e partiti con potere politico, economico e sociale oggi. Intorno al 2013 e il 2014 ho iniziato a vedere il modo in cui questa ideologia anti-transgender è stata adottata e si è diffusa sempre di più. Negli Stati Uniti c’è una piattaforma e media company di estrema destra, The Daily Wire, dove il commentatore politico conservatore Michael Knowles ha invitato più volte a eliminare il transgenderismo – così lo definisce – dalla vita pubblica, affermando che in base a un essenzialismo biologico le persone trans non esistono, ma è pura ideologia. Questo tipo di linguaggio, estremamente violento e genocida, è praticamente una traslitterazione di quello che affermavano Janice Raymond e le femministe transfobiche degli anni Settanta, quando invitavano a eradicare il transessualismo dalla società. In entrambi i casi viene supportata l’idea di eliminare le pratiche politiche, mediche e legali che permettono l’esistenza di una fantomatica ‘ideologia transgender’, invisibilizzando la reale esistenza di persone trans e le loro necessità materiali, condannandoci di fatto alla morte. In maniera simile è quello che sta avvenendo in Florida con le leggi approvate dal governatore Ron DeSantis a maggio 2023: non vengono eliminate direttamente le persone, ma tutte quelle pratiche che rendono possibile la nostra esistenza all’interno della società. Nel corso del tempo all’interno di diverse comunità trans ci si è interrogatз su dove focalizzare le nostre lotte: se avesse più senso contestare i gruppi femministi radicali o se fosse meglio concentrarsi sul risorgere di discorsi di estrema destra a livello mainstream. Mi viene in mente il lavoro critico e culturale che abbiamo fatto con la rivista accademica “TSQ: Transgender Studies Quarterly”, in particolare nel 2014 per l’uscita del libro di Sheila Jeffrey, Gender Hurts: A Feminist Analysis of the Politics of Transgenderism, che riprendeva e attualizzava le teorie transfobiche degli anni Settanta. All’epoca abbiamo voluto rispondere evidenziando quanto la sua posizione fosse marginale rispetto a un movimento transfemminista vibrante e ben organizzato. Con il senno di poi, mi domando se sia stata la scelta giusta, vedendo come quel discorso è diventato molto più virulento e forte oggi, e se non sarebbe invece stata necessaria una risposta più diretta e critica una decina di anni fa.
Come hanno fatto discorsi e posizioni transfobiche marginali negli anni Settanta a diventare così presenti nel dibattito pubblico di oggi al punto da essere adottati da partiti politici, movimenti di estrema destra e figure pubbliche, come la scrittrice J.K. Rowling? Da dove arriva questo panico morale anti-gender?
La storia dei movimenti anti-gender è lunga e complessa e si intreccia con la storia politica dell’Occidente, e non solo, nel corso degli ultimi decenni del Novecento. Alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta il termine ‘gender’ – ‘genere’ in italiano – entra a far parte del linguaggio e del discorso pubblico riguardo i diritti umani attraverso una serie di conferenze organizzate dalle Nazioni Unite sulla condizione della donna nel mondo, la più importante è sicuramente la Fourth World Conference on Women di Beijing del 1995. Questi incontri sono stati fondamentali per definire pratiche politiche antidiscriminatorie globali e la terminologia corrente sui diritti umani, in cui si assiste a uno spostamento dal concetto di ‘diritti delle donne’ a quello di ‘diritti basati sul genere’. Questo cambiamento linguistico è stato avversato dalla Chiesa Cattolica, così come da quelle protestanti e da governi a stampo cristiano di molti Paesi africani. Nella loro visione il termine ‘genere’ è l’epitome di una pericolosa ideologia, legata al discorso politico di élite laiche occidentali, e discriminatoria nei confronti delle donne, della famiglia e, in termini religiosi, dei piani di Dio per l’umanità, divisa in due generi prestabiliti con le loro funzioni e caratteristiche.
Proprio alla conferenza di Beijing le posizioni religioso-conservatrici hanno trovato l’alleanza delle femministe radicali statunitensi anti-transgender. La loro presenza a Beijing è dovuta a ciò che è avvenuto alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti a seguito delle cosiddette ‘feminist sex wars’, una serie di lotte e divisioni interne al movimento lesbico e femminista americano. In quegli anni si è infatti prodotta una frattura insanabile tra una parte di attiviste anti-pornografia, anti-sex work, anti-BDSM, anti-trans, che vedevano in specifiche espressioni della sessualità e dell’industria del sesso una violenza contro la donna, e un gruppo di transfemministe sex positive, che reclamavano il valore liberatorio, creativo e politico della sessualità. Da questa divisione è emersa come posizione dominante quella pro-sesso, mentre quella più conservatrice e radicale è stata marginalizzata all’interno del dibattito pubblico. L’attivismo di queste femministe anti-trans e anti-porno è stato rivolto, quindi, alla lotta contro il traffico sessuale, in particolare nei Paesi del Sud globale. Il loro approccio ideologico alla questione riproduceva una visione femminista, liberal occidentale del ‘salvatore bianco’ che porta soccorso alle donne vulnerabili e oppresse nel resto del mondo. Questo ha, però, dato accesso alle femministe più radicali alle conferenze internazionali sulle donne e sui loro diritti, permettendo loro di costruire alleanze inaspettate con gruppi religiosi e conservatori e trovare fondi per mobilizzarsi nuovamente. Ritengo che la conferenza del 1995 sia stato l’evento che ha fatto incrociare i discorsi anti-trans essenzialisti e biologisti sulla donna a quelli religiosi-cristiani critici dell’aborto, dell’omosessualità e dell’ideologia gender, dando origine a una nuova rete e piattaforma politica, che nel corso dei decenni successivi si è sviluppata ulteriormente.
La cosa inquietante è che oggi vediamo i risultati di questa alleanza e dello sviluppo di una rete conservatrice in diversi contesti, come Stati Uniti, Regno Unito, Uganda, Ungheria, Polonia, Italia. Cosa sta succedendo in questo momento negli Stati Uniti, in particolare in Florida?
Quello che sta avvenendo oggi negli Stati Uniti, con leggi statali e processi che attaccano direttamente le persone transgender, è parte di una strategia a lungo termine molto simile a quella che è stata messa in atto con l’aborto. A partire dalla sua legalizzazione a livello federale con la sentenza della Corte suprema Roe v. Wade nel 1973, i movimenti anti-aborto hanno iniziato a organizzarsi e a muoversi dal basso fino a raggiungere politici e lobby conservatori. Nel giugno 2022 la Corte attuale, a maggioranza repubblicana, ha ribaltato quella storica decisione, lasciando autonomia ai singoli stati di regolare il diritto e l’accesso all’aborto. Si tratta di una vittoria per i gruppi politici più conservatori: è come se avessero concluso una campagna durata oltre quarant’anni e ora il nuovo obiettivo – visto che difficilmente possono toccare il matrimonio egualitario e la presenza di soggettività LGBT nell’esercito – sono le persone trans, tra le fasce di popolazione più vulnerabili, soprattutto quelle nere e razzializzate. Molti stati governati da Repubblicani hanno iniziato vietando la partecipazione ad attività sportive a livello agonistico alle ragazze trans, negando poi l’accesso a molte persone trans in giovane età all’assistenza sanitaria, e ora si stanno espandendo su diversi diritti umani basilari.
L’attivista e scrittrice Erin Reed monitora e mappa l’approvazione di leggi contro le persone trans negli Stati Uniti, mostrando i cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi due anni. Stati come Texas, Arizona, Missouri, Georgia, Montana, Iowa hanno approvato leggi che limitano i diritti delle persone transgender, ma il più reazionario in questo momento è la Florida, con le leggi emanate a fine maggio 2023, dove si vieta: l’accesso a terapie ormonali e a operazioni chirurgiche per le persone trans minorenni; l’utilizzo dei bagni pubblici secondo il proprio genere di elezione; la partecipazione a spettacoli di drag queen per lз bambinз; l’insegnamento di argomenti considerati controversi legati a identità di genere, razza, orientamento sessuale e tematiche LGBTQ+. Questi divieti complicano l’intero sistema d’accesso all’assistenza sanitaria, rendendolo impossibile a circa l’80% della popolazione trans dello stato, dal momento che diminuiscono i centri e il personale medico legittimati a effettuare e somministrare terapie ormonali. La situazione è diventata talmente insostenibile, che non solo organizzazioni gay locali sconsigliano alle persone trans di visitare lo stato, ma anche la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), la più importante organizzazione afroamericana di giustizia sociale e razziale, ha sconsigliato alle persone nere di viaggiare in Florida. Io stessa, quando vengono invitata a parlare nelle università in giro per gli Stati Uniti, ricordo sempre che quello che sto facendo è considerato un crimine in Florida, perché stanno rendendo illegale parlare di qualsiasi cosa riguardi il genere, la razza, la sessualità, l’autodeterminazione del corpo e la libertà riproduttiva.
Ma questo attacco diretto alle persone transgender è parte di un assalto più ampio su tutta la società civile e sul governo democratico. Il partito Repubblicano da anni porta avanti la pratica della soppressione del voto plurale attraverso il gerrymandering, cioè il metodo con cui ridisegna i distretti elettorali in modo tale che siano sempre a maggioranza conservatrice. Sostiene, inoltre, la cultura delle armi e la loro diffusione, soprattutto di quelle d’assalto, con l’espediente del secondo emendamento della costituzione, che sancisce il diritto a difendersi con un’arma in caso di invasione. Dagli anni Novanta, infatti, si sono sviluppate in tutti gli Stati Uniti milizie armate indipendenti di estrema destra – come i Proud Boys, gli Oath Keepers e i Three Percenters – pronte a sostenere un governo autoritario, razzista e suprematista. È fascismo. È semplicemente fascismo.
Tutto questo ha soprattutto a che fare con il suprematismo bianco. Come si collega alla questione trans?
Prima di tutto, ritengo che non ci sia abbastanza pensiero critico sulla bianchezza e sui processi di razzializzazione. E questo è un vero problema. È importante e necessario parlare di bianchezza, non in termini fenotipici, ma come strettamente legata al privilegio, al potere e alla definizione unilaterale delle norme sociali. In altre parole, il suprematismo bianco è il potere di reclamare per sé posizioni di privilegio, decidendo chi può accedervi e quindi chi conta come bianchə e chi no. Penso, ad esempio, alle condizioni di marginalizzazione a cui a lungo sono state ridotte le persone migranti dall’Irlanda e dall’Italia negli Stati Uniti. Ci sarà sempre qualcunə più bianchə, più potente e con maggiori privilegi, che stabilisce chi può far parte dell’élite e quali sono le minoranze razziali o ‘fisicamente degenerate’, come persone queer e trans, da opprimere.
Lo studioso Joseph Pugliese ha sviluppato l’idea di ‘cittadinanza protesica’ per il contesto australiano, ma penso si possa applicare a qualsiasi regime neoliberista occidentale. Per ‘cittadinanza protesica’ si intende il modo in cui uno stato e il potere politico espandono e contraggono la definizione di cittadino, cioè di chi appartiene alla società. È un uso strategico della cittadinanza, che può essere espansivo e includere diverse categorie di popolazione, un tempo escluse: persone LGBTQ+, musulmane, nere e così via. Al contrario, in caso di necessità si restringe il diritto di appartenenza di queste specifiche soggettività. Al centro di questo sistema c’è il cittadino neutro, maschio, bianco, abile, eteronormato che si è sempre visto come il vero corpo politico della società bianca occidentale. Ovviamente questo non è qualcosa che il singolo individuo possiede, ma è qualcosa che viene garantito dal potere e dalle sue trasformazioni. Penso a quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti con la questione trans. C’è stato un momento in cui, grazie ai movimenti politici, all’attivismo e all’organizzarsi dal basso, le persone transgender sono riuscite a espandere la cittadinanza, almeno per i membri più privilegiati della comunità, bianchз e abilз. È sempre stato iniquo e ingiusto questo sistema, perché una maggior visibilità e presenza delle individualità più privilegiate, conduce paradossalmente a una maggiore violenza contro le soggettività più marginalizzate e vulnerabili, in particolar modo donne trans indigene e nere.
Trovo che oggi sia ancora più inquietante: c’è una tendenza generale verso la transfobia, perché, non solo, ci sono movimenti, organizzazioni politiche e partiti, ben finanziati, che prendono esplicitamente di mira le persone trans, ma anche la classe media liberal sembra avvicinarsi alle loro posizioni. Non è apertamente transfobica, ma non ha conoscenza e preparazione, al punto da trovare ingiusta la partecipazione di persone trans alle attività sportive o da ritenere la chirurgia di affermazione di genere come una mutilazione corporea. Non c’è un discorso critico attento e questo rende le persone facilmente manipolabili. Dal 2016, con l’elezione di Donald J. Trump a Presidente degli Stati Uniti, abbiamo assistito a uno slittamento verso destra del discorso pubblico e appare evidente anche dal modo in cui il New York Times o l’Atlantic hanno dato spazio a opinionistз trans-escludenti e transfobichз senza controbattere sistematicamente alle loro affermazioni.
Mi fa pensare a come l’esistenza trans sia strettamente connessa al più feroce potere necropolitico, che non ne riconosce il valore, legittimando l’esposizione alla morte delle persone transgender.
Penso spesso a come in questa fase di capitalismo la morte e l’eliminazione delle persone trans contribuisca al funzionamento di un sistema iniquo. Per Michel Foucault il potere biopolitico frammenta la società in modo che segmenti di popolazione diventano una risorsa da sfruttare o eliminare per il benessere di un’altra parte. Gli strumenti della biopolitica cambiano e quello che vediamo oggi è la maniera in cui queste tecnologie usano la vita delle persone transgender e la consumano, mantenendo intatte le dinamiche di potere all’interno delle nostre società occidentali. Sento che l’essere queer e trans in questo mondo non sia affatto innaturale, perché esprimiamo una capacità che l’esistenza stessa detiene. È una manifestazione della molteplicità del reale. Dobbiamo combattere le costruzioni ideologiche della natura e della realtà che ci rendono impensabili, quando effettivamente esistiamo. Siamo qui perché contraddiciamo le ideologie ontologiche, essenzialiste e naturalizzate, di altre persone, perché osiamo immaginare e realizzare ciò che loro ritengono impossibile o semplicemente che non dovrebbe esistere. Per me questa è l’origine della violenza necropolitica nei nostri confronti ed è profondamente radicata nelle storie del colonialismo, dello schiavismo e dell’espansione del sistema di pensiero eurocentrico in epoca moderna. In questa visione il corpo è concepito, attraverso una logica carceraria, come qualcosa di immutabile: una prigione fatta di pelle, che ci deve tenere al nostro posto. Le definizioni e i significati, connessi alla differenza corporea, ci legano a una specifica posizione all’interno del sistema. Razza, sesso e genere sono correlati all’interno di questo paradigma biocentrico alla base dell’ideologia moderna eurocentrica, che in questo momento è stata messa in crisi da diversi lati. L’esistenza trans, infatti, dimostra la falsità di questa struttura e invita al suo superamento. Per questo siamo presз di mira da coloro che hanno interesse a mantenere intatto l’attuale ordine sociale, o per cinismo deliberato e manipolatorio o perché sentono davvero minacciato il loro contesto onto-epistemologico da ciò che le persone trans rappresentano. Vedono in noi la dissoluzione e la perdita di quello che sono sempre statз ed è così che funziona la transfobia.
Qual è la risposta alla violenza, alla morte e al trauma a cui il potere necropolitico sembra condannare l’esistenza trans? Qual è il ruolo politico del piacere e della gioia?
Per me coltivare a livello personale e comunitario il proprio piacere e gioia nella vita è una risorsa da portare dentro la lotta collettiva. Certo, non sempre è possibile e quindi comprendo e sono d’accordo politicamente con la rabbia. Ma trovo che un certo tipo di rabbia depressiva debba essere rilasciata, perché non deve diventare l’unica forma di potere che si muove attraverso noi. Non mi piace quella mentalità in cui qualunque cosa una persona faccia non è mai abbastanza o è sbagliata e incasinata a priori, perché c’è sempre una posizione più radicale. Mi domando se non possiamo provare a muoverci nella stessa direzione per comprendere la situazione nella sua complessità, invece di combatterci a vicenda. Per questo ricerco il senso di gioia nella lotta, come diceva l’attivista Emma Goldman: “se non posso ballare, non è la mia rivoluzione”. In questo pensiero prende forma il sentimento profondo di libertà, come qualcosa che si sviluppa in noi e, se anche ci imprigionano e ci rinchiudono, non ci può togliere nessunə. Per me questo senso di piacere, gioia e solidarietà va diretto verso l’esterno. C’è un video che circola di una protesta contro l’opinionista e autore conservatore Matt Walsh, che stava promuovendo il suo film transfobico intitolato What Is a Woman? in un’università statunitense, in cui centinaia di attivistз hanno organizzato una festa in strada con bande musicali, cori e canti. Si vedeva euforia e felicità nei volti delle persone, che non erano per niente intimidite dalla situazione.
Questa forma di felicità la collego all’idea politica di futuro queer come la creazione di nuove possibilità e alternative nel presente, per riprendere un concetto espresso da José Esteban Muñoz in Cruising Utopia. L’altrove e l’allora della futurità queer.
Questo aspetto del futuro lo ritrovo molto nelle riflessioni di Deleuze e Guattari sul virtuale e sulla sua presenza nel reale, che collego al saggio di Barad Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics And the Entanglement of Matter And Meaning. Barad è unə fisichə teorichə delle particelle e studiosə di scienze femministe, che ha riunito teorie culturali critiche come quelle di Deleuze e Guattari, Judith Butler e Michel Foucault con la fisica quantistica. Sostiene che la maggior parte di ciò che esiste cosmologicamente è un insieme di fenomeni quantistici di materializzazione e smaterializzazione, come se l’universo giocasse con sé stesso a livello particolare, scoppiando nell’esistenza e poi sparendo nel nulla. Per me c’è qualcosa di trans in questo, cioè nell’idea di entrare e uscire dalla materia in relazione a una serie di potenzialità virtuali. Il virtuale non corrisponde al non-reale, ma al non-materializzato, cioè capace di materializzarsi. Il futuro è questo: la possibilità di un altro mondo nella disposizione imminente delle cose, che possono cambiare orientamento e posizione materiale attraverso azioni e combinazioni differenti. Questo perché ciò che definiamo affetto è parte dell’effettiva esistenza del cosmo, è reale, energetico e ci muove in molteplici direzioni.
Forse possiamo pensare alla transness proprio in questi termini: non un’identità, ma un movimento potenziale e costante verso una diversa relazione con l’universo, che magari ci liberi anche dall’antropocentrismo come unica modalità di esistenza e conoscenza.
Non so se sia possibile liberarsi della figura dell’umano, dell’Anthropos illuminista, perché dovremmo districarci anche dal capitale. Forse abbiamo bisogno di un tropo diverso per definire la relazione tra homo sapiens e mondo più che umano. Penso anche che quello che definiamo Antropocene nasca dalla costruzione coloniale ed estrattivista messa in atto dall’Occidente, sempre a partire dalla figura centrale dell’uomo bianco. C’è il saggio di Kathryn Yussof, A Billion Black Anthropocenes Or None, che invita a considerare questi aspetti da una prospettiva interdisciplinare differente. Guardando come le emissioni di CO2, i tassi di deforestazione e di estrazione della vita marina, l’uso dei fertilizzanti chimici, i dati sulla popolazione hanno subito una crescita esponenziale e continua dal 1945 a oggi, ci dovremmo interrogare verso quale futuro molto prossimo ci stiamo dirigendo, ma invece pensiamo che queste linee di tendenza possano continuare all’infinito e ignoriamo che prima o poi questo stato di cose crollerà. Si tratta di immaginare e realizzare come potrebbe essere la vita altrimenti. E quindi penso alla politica trans proprio come a una rivisitazione dell’Anthropos, anche nel suo fallimento ed estinzione. Nella transness, venendo spesso associata a un’idea di morte biologica e alla mancata capacità riproduttiva,c’è questa potenzialità e vivacità di muoversi oltre il biologico, di guardare alla capacità autogenerativa del cosmo, alle possibilità auto-organizzanti della materia. Per me, l’esperienza di essere trans ha qualcosa di mistico, perché mi dà la possibilità di manifestare un’esistenza potenziale che supera la vita biologica. È qualcosa di confortante, non in un modo religioso, ma è il sentire che ora e qui in me stessa c’è una vita oltre questa vita, al di là del meramente fisico. Mi dà speranza di fronte al fascismo e alla violenza quotidiani.
Quello che dici mi risuona molto, perché penso di aver compreso e di essermi avvicinata alla mia soggettività trans proprio in questi termini, percependo una diversa relazione con ciò che mi circonda e con l’universo. Talvolta sento di far parte di un flusso cosmico ed energetico, che mi offre molteplici possibilità di trasformazione, anche al di là del meramente visibile.
Penso che non ne parliamo abbastanza come persone trans, ma moltз di noi provano questi sentimenti. Semplicemente non lo dichiariamo pubblicamente, forse per il modo in cui la società occidentale crea una netta separazione tra religioso e secolare, ma per me c’è qualcosa di spirituale nell’esperienza trans. E dovremmo testimoniarlo di più, non come un dogma o una religione organizzata, ma in modo da tenere conto collettivamente di quanto questo sentire sia più potente e profondo di quello che definiamo vero e reale. Ci sentiremmo meno solз, forse, ed è questo ciò che mi insegna ogni giorno la mia transness.