I l sole su Gaza city cala presto, il venerdì di preghiera sta per finire. Le famiglie ciondolano sul lungomare, tra chioschi che vendono angurie quasi nere e pesce abbrustolito al momento. I bambini ridono, e corrono a braccia aperte verso giovani madri coperte dal hijab. Ogni tanto passa anche qualche donna nascosta da un niquab, ma non sono molte. L’aria è quella tranquilla di un giorno di festa d’inizio estate. E nessuno pare interessato alle macerie che stanno ancora lungo il marciapiede rotto, né alle voragini che s’aprono tra i compound sull’altro lato della strada. Siamo davanti al campo profughi di Al-Shati, nella pancia di Hamas, ma i gazawi guardano altrove, scelgono il mare che si scurisce in fretta. Il richiamo del muezzin si spegne in lontananza, mentre dalla direzione opposta s’avvicina un gran baccano. Musica, schiamazzi, colpi di clacson e risate. È il corteo di un matrimonio. Una decina di ragazzini ballano sul cassone scoperto di un furgone sgangherato. Segue il codazzo rombante degli invitati. Alcuni si sporgono fuori dai finestrini delle auto, gridano pure loro. Sono tutti uomini, le donne festeggeranno domani, da sole. C’è un ragazzo affianco a me, alto, ben pettinato, vestito a festa. Alza gli occhi, li fissa su un drone israeliano che continua a ronzare in cielo. Li abbassa subito, però. Poi sorride e anche lui saluta il carro. “Questo è Sumud”, dice in un inglese senz’ombra di un accento. Poi “Salam”, e s’incammina per la sua strada.
Andare, tornare
Sumud. Una parola araba piuttosto difficile da tradurre. È scivolosa, sfuggente, cambia spesso significato. Alla lettera, vuol dire “fermezza”, o “perseveranza”. In italiano si potrebbe anche tradurre con “resistenza”, ma non fa necessariamente riferimento alla lotta armata. Qualcuno sceglie la tanto abusata “resilienza”, anche se il Sumud è molto più di questo. Perché riguarda l’azione, s’alimenta di pazienza ma è attivo, è vivo. È vitale. Per i palestinesi è un simbolo nazionale, un valore ideologico e culturale, sia individuale che collettivo. È anche una strategia politica, il Sumud, e una sfida al destino. Ha una lunga storia alle spalle, durante la quale ha spesso imboccato strade sorprendenti. Ogni generazione palestinese, in Cisgiordania, a Gerusalemme e anche qui a Gaza, l’ha sempre fatto suo. Reinventandolo in qualche modo. Secondo la psichiatra e scrittrice palestinese Samah Jabr, costituisce “la base di una vita di resistenza, ancorata alla terra come un ulivo dalle radici profonde, che preserva l’identità, cerca l’autonomia e la capacità d’agire, salvaguarda la storia dei palestinesi e la loro cultura dall’annientamento”. E proprio per non essere annientati del tutto da un assedio che dura ormai da oltre 15 anni, i gazawi s’aggrappano con forza al Sumud. Che oggi si nasconde nella vita di tutti i giorni, e ogni tanto fa capolino dalle strade malmesse, dai cortili scalcinati, dai campi rinsecchiti, dal mare sporco.
Dal 2007 questa sottile striscia di terra ormai brulla è, di fatto, una prigione a cielo aperto. Una prigione parecchio affollata, tra l’altro. È una delle zone più densamente popolate al mondo, ci vivono oltre 2 milioni di persone in appena 360 chilometri quadrati. Israele esercita un ferreo controllo lungo i confini, le coste e lo spazio aereo. E dentro c’è Hamas, col suo regime che stringe forte il cappio militare e religioso attorno alle poche libertà che restano. Per arrivare qui da straniero, si deve passare dal valico di Erez. Si entra solo col permesso delle forze armate dello Stato ebraico e solo se si è diplomatici, operatori umanitari, membri delle agenzie dell’Onu o giornalisti accreditati da Tel Aviv. Poi bisogna uscire indenni da tre check point diversi: quello israeliano, quello dell’Autorità nazionale palestinese, e quello di Hamas. Ci sono blocchi di cemento lungo la strada, sbarre, filo spinato, tornelli, bassi cunicoli. E guardie accigliate col mitra sempre carico. Tra un posto di blocco e l’altro, si transita per la terra di nessuno. Prima si poteva anche a piedi, da qualche tempo è invece obbligatorio prendere un bus. E ancora mostrare per tre volte i documenti, far controllare per tre volte i bagagli, farsi sviscerare da un paio di body scanner.
Sumud, alla lettera, vuol dire “fermezza”, o “perseveranza”. In italiano si potrebbe tradurre con “resistenza”, ma non fa necessariamente riferimento alla lotta armata.
Oltre la prima recinzione, decine di uomini s’accalcano per salire su un piccolo van. Sono lavoratori che tornano a casa. Hanno facce stanche, portano in mano buste di plastica piene zeppe di frutta, prodotti per la casa, ombrelli. Tutta roba che sfilerà a breve sotto i metal-detector. Secondo le stime più accreditate sono 20.000 i gazawi impiegati oltrefrontiera. Perlopiù manovali, hanno ottenuto un permesso non per lavoro ma per “necessità economiche”, solo dopo aver soddisfatto criteri molto severi e aver superato controlli di sicurezza piuttosto rigidi. Secondo l’Ufficio centrale di statistica dell’Anp, tra il 2015 e il 2020, soltanto lo 0,1% dei residenti nella Striscia è stato autorizzato a lavorare fuori dal confine. Dal 2019 in poi, però, le autorità israeliane hanno silenziosamente iniziato a concedere un certo numero di permessi, in quello che alcuni hanno interpretato come un gesto per riportare la calma. Per altri, invece, lo Stato ebraico stava solo tentando di attuare l’ennesima “politica di domesticazione” del popolo palestinese, con l’obiettivo di assoggettarlo ancor di più alla propria influenza economica, e magari reclutare anche qualche spia tra i lavoratori. In ogni caso, poco dopo il flusso è stato interrotto dalla pandemia. Ora sta lentamente riprendendo. Ma quel pezzo di carta che permette ai lavoratori gazawi di attraversare il valico continua a garantire meno diritti e uno stipendio inferiore rispetto a quello dei colleghi israeliani. Tra l’altro, i palestinesi non usufruiscono di assicurazione medica e non accumulano il trattamento di fine rapporto. E’ pur vero che guadagnano circa cinque volte più di chi riesce a trovare uno straccio di lavoro al di qua del muro.
Ma forse Sumud oggi a Gaza è anche questo: ostinarsi a cercare un impiego, pure in Israele. Sopportare questo viaggio snervante, lungo e umiliante per due volte al giorno, una volta all’andata e una al ritorno. Lavorare sotto un padrone che si considera, a ragione, un oppressore. Che umilia, sfrutta e asservisce. Si fa di tutto, qui, per sfamare la propria famiglia e provare a costruirsi un futuro. Quale che sia.
Costruire, ricostruire
Durante i momenti più drammatici della sua storia, però, il Sumud per il popolo palestinese ha sempre avuto il significato di restare. È stato un incoraggiamento a non andarsene, a rimanere radicati sulla propria terra, ben saldi nel quartiere in cui s’è nati. E dopo ogni bombardamento, ricostruire la propria casa, uguale o addirittura più bella di prima. A nord, a un tiro di schioppo dal muro che divide Gaza da Israele e a pochi passi da un’enorme discarica a cielo aperto, sorge il quartiere di Al-Nada, un tempo conosciuto come “Va delle torri”. Oggi però tutti la chiamano la “Piccola Italia”. Perché durante l’operazione israeliana “Margine di protezione” del 2014 è stata rasa al suolo, per poi venire ricostruita proprio grazie alla cooperazione italiana. È un’enclave di Fatah nella striscia governata a Hamas. Infatti è abitata perlopiù da funzionari pubblici dell’Anp, gli unici che hanno qui un lavoro sicuro e ben retribuito. Le torri, nuove di zecca, spiccano gialle nel grigio polveroso del panorama. Le corti sono relativamente pulite, i bambini giocano a pallone su vialetti intonsi. Non sembra nemmeno di stare Gaza, potrebbe essere una qualsiasi periferia europea. Nei cortili interni, al sicuro da sguardi indiscreti, sventola ancora qualche bandiera gialla di Fatah.
L’abitante più illustre del quartiere è senza dubbio Osama Daraibeh, brigadiere generale in pensione e superstite più alto in grado di Forza 17, il servizio di sicurezza personale prima di Yasser Arafat, poi di Abu Mazen. Osama è un eroe di guerra, ha combattuto in Yemen e Libano, qui è un’istituzione. È un uomo alto e ben piazzato, capelli e baffi curatissimi. Gli occhi da ragazzo in perenne movimento. Per tutti, a Gaza, è semplicemente “Il generale”. “Questo quartiere in passato era considerato relativamente sicuro, perché è affianco al confine. Israele non lo temeva, è troppo vicino a loro. Con la guerra del 2014, però, tutto è cambiato. Hanno colpito questi palazzi con raid aerei pesanti, sganciando tonnellate di bombe – racconta con voce piatta, sotto lo sguardo attento dei due figli e di Ibrahim Tata, un altro ex miliziano in congedo -. Quella guerra fu come un messaggio che Israele lanciava a noi e al mondo intero. Ci diceva che non gli importava più niente della pace. Tanto che Abu Mazen li avvertì: quel quartiere è pieno di ex soldati, disse, non ci sono solo contadini. Quindi dovete stare molto attenti a invaderlo. Ma non servì a molto. In tanti sono morti sotto le macerie”. Il generale passeggia per Al-Nada. Tutti lo salutano, i bambini lo circondano in un attimo. Lui ricambia con gesti controllati e un mezzo sorriso. “Gli israeliani pensavano che la gente non sarebbe tornata. Sono rimasti molto sorpresi quando hanno visto centinaia di operai e persone comuni lavorare insieme per tirare su ogni singolo palazzo distrutto. Prima c’erano solo quattro torri, ma con l’aiuto degli italiani ne abbiamo costruite anche altre. Ora abbiamo 111 appartamenti”.
Pure gli interni delle case sono molto dignitosi per gli standard locali. I proprietari accolgono il generale con riguardo. “E’ tornato a vivere qui chi ci stava prima del bombardamento, ma anche altre persone povere hanno trovato un tetto”, dice. E schiva con abilità ogni domanda sui requisiti necessari a prendere possesso di queste case. “Sono tutti poveri”, ripete ancora. Simpatizzare per Fatah, però, ha rappresentato senza dubbio una dote non da poco. Il generale cambia ancora discorso, e il suo sguardo ora s’accende all’improvviso: “Quando gli israeliani hanno distrutto tutto, davanti alle macerie, un giornalista italiano mi chiese: cosa farete ora? Gli ho risposto che costruiremo, e costruiremo ancora. Perché noi viviamo qui, quindi proveremo sempre a ricostruire i nostri palazzi. Non abbiamo altro posto che questo. Questo è il nostro Paese, la nostra casa, la nostra Palestina. È molto semplice, in realtà”.
Vivere, ridere
Tutt’intorno alle torri italiane, ne sorgono altre molto più malmesse. Fatiscenti, scrostate, cadenti, ma comunque animate da decine e decine di bambini. Che si rincorrono, che giocano, che ridono, gridano. S’avvicinano in sciami per chiedere attenzione, per farsi conoscere, per dare un’occhiata a qualcosa di diverso. Hanno tutti meno di 14 anni. Nessuno di loro ha mai vissuto un giorno senza assedio. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam sono oltre 800 mila, più del 40% dell’intera popolazione, i bambini che hanno trascorso l’intera vita senza alcuna possibilità di uscire dalla Striscia, senza accesso alle cure mediche e senza beni essenziali. Save the Children, poi, afferma che l’80% dei minori a Gaza avverte oggi un disagio emotivo grave. Eppure i gazawi continuano a fare figli. Tra le tante sfumature di significato del Sumud, c’è pure questa particolare forma di resistenza non violenta. La chiamano “lotta demografica” e si concretizza nella capacità riproduttiva richiesta alle famiglie. Fare tanti figli vuol dire mantenere una maggioranza di palestinesi sui territori occupati, e così fronteggiare senz’armi l’espansione dei coloni sionisti.
Durante i momenti più drammatici della sua storia, però, il Sumud per il popolo palestinese ha sempre avuto il significato di restare.
Mohammed Almajdalawi ha tre figli piccoli che lo aspettano a casa, nel campo profughi di Jabalya. Ha vissuto per sei anni in Italia, gli piaceva molto ma è dovuto rientrare per soccorrere la sua famiglia. Aveva aperto un bar, poi è fallito. Oggi lavora come segretario in un ospedale, e collabora occasionalmente con le Ong internazionali. Parla un italiano un po’ zoppicante ma si fa capire bene: “Non hanno niente, giocano per strada – dice, circondato da marmocchi schiamazzanti -. Per loro voi occidentali siete un giocattolo”. “Eppure sono contenti lo stesso, vedi – continua Mohammed, inoltrandosi tra i vicoli di Al-Nada -. Giocano con quello che trovano per strada, si arrangiano. Noi in realtà siamo tutti così. Anche se siamo sotto assedio, pure se la nostra casa, la nostra famiglia e la nostra vita sono in costante pericolo, noi vogliamo vivere. E cercare il buono in ogni cosa. È una caratteristica della nostra cultura, forse. Per noi la cosa più importante sono le persone, sono i bambini. Viviamo e ridiamo pure sotto le bombe. Perché se non facciamo così, allora siamo già morti”.
Comunicare, pattinare
Oltre uno stradone attraversato da macchine scalcagnate e carretti trainati dagli asini, sorge un enorme tendone da circo giallo e rosso. Nella polvere di Gaza pare un miraggio. Così come appena caduta dal cielo sembra anche la pista da pattinaggio che gli sta vicina, uno dei più grandi skatepark del Medio Oriente. C’è anche un campo da calcio di terra battuta, e una sala polifunzionale in cui proprio adesso delle donne stanno festeggiano l’ennesimo matrimonio. È il Green Hopes, il parco pubblico inaugurato nel luglio 2022 grazie a un progetto di cooperazione della Ong italiana Acs. Un altro skatepark è stato costruito nel 2014 dall’associazione milanese Gaza Free Style più a sud, vicino al porto. Decine di ragazzi, bambini e bambine, saltano sulle rampe, cadono si rialzano, e pattinano ancora. Provano i trucchi che hanno visto su Youtube. Le rotelle che sfrecciano sul cemento spolverato di sabbia producono un ronzio che non s’arresta mai, da mattina a sera. Così come sembra non aver fine la musica incalzante che si fa strada da una piazzola laterale, dove altri ragazzi fanno break dance. Si creano dei capannelli, si sfidano a chi salta più alto, a chi fa più capriole. Si prendono in giro, ridono. Si divertono, insomma. Vista così, Gaza non sembrerebbe neanche un posto tanto terribile. Forse perché qui anche l’allegria fa parte del Sumud. La danza, l’arte e lo sport per i palestinesi sono meccanismi difensivi che permettono di evadere. Di immaginare qualcosa di diverso, e continuare a sentirsi almeno per un po’ normali, proprio come gli altri.
Ne è convinta Meri Calvelli, l’italiana di Gaza. Cooperante della Acs, è anche direttrice del Centro di scambio italo-palestinese Vik, dedicato alla memoria di Vittorio Arrigoni. Il luminoso appartamento che lo ospita sta sulla collina che domina il porto. È il Rimal, il quartiere più agiato di Gaza city. In città tutti conoscono Meri, perché da anni vive qui, e porta avanti progetti di sviluppo che puntano proprio allo scambio culturale, alla conoscenza e alla comunicazione. “C’è una folta comunità di skaters e di artisti, e ci sono anche tre scuole di circo. Qui dentro ci sono dei talenti straordinari che, a causa del blocco, non possono uscire. Quindi non hanno modo di esprimersi, non possono comunicare. È una grande ingiustizia”. Per aiutare Gaza, quindi, secondo Meri “non basta consegnare derrate alimentari o medicine, bisogna anche mettere le persone in condizione di parlare con gli altri, di potersi esprimere”. Non è un caso se a Gaza tutti, ma proprio tutti, vivono attaccati al telefonino, costantemente connessi ai social network. Sette persone su dieci sopravvivono grazie agli aiuti internazionali. Senza probabilmente morirebbero. Mancano l’acqua, l’elettricità è razionata, mancano i farmaci e le cure mediche, manca il cibo e le attrezzature educative, scarseggiano anche i materiali da costruzione. Ma confrontarsi con gli altri e farsi conoscere, per i gazawi, è una faccenda altrettanto importante. “La chiamano resilienza – continua Meri -, ma è molto di più. A pagare il prezzo più alto sono i giovani e le donne, che vivono un isolamento drammatico”.
Fare tanti figli vuol dire mantenere una maggioranza di palestinesi sui territori occupati, e così fronteggiare senz’armi l’espansione dei coloni sionisti.
“Ci mancano le informazioni, non possiamo andare in una biblioteca a prendere un libro per studiare, non abbiamo neanche un cinema”, conferma Karam Jad, diciannovenne studente di lingue, faccia pulita e occhi neri indomabili. “Il 99 percento dei giovani vuole solo vedere il mondo che sta là fuori. Io non ho mai visto cosa c’è oltre quel muro. Per questo voglio viaggiare e essere in grado di descrivere agli altri quello che vedo. Vorrei fare il videomaker e il regista, proprio per condividere le mie esperienze con tutti, e magari fare in modo che tutti quanti possano viaggiare. Non penso che scappare sia la soluzione, nemmeno la violenza lo è. Solo la cultura può fermare la guerra”.
Non vuole scappare neanche Capitan Rajab, al secolo Rajab Rifi, 26 anni, che tra un trick e l’altro spiega a un gruppo di ragazzini come affrontare la rampa più alta. “Grazie agli italiani ho ricevuto il mio primo skateboard – racconta con un sorriso largo –, ho anche aiutato a costruire questo skatepark. Sono un ragazzo come tanti, ma questo sport è diventato importante per me. Qui abbiamo davvero tante difficoltà, e questa passione mi permette di evadere un po’”. Rajab con le rotelle ci sa fare, tanto che insegna agli altri, anche ai bambini e alle ragazze. “Da quando ho iniziato a skatare, la mia vita è migliorate tantissimo. Mi piacerebbe viaggiare per incontrare atleti e squadre provenienti da altri paesi. Imparare da loro, magari, e diventare un professionista. Così sarei fiero di me, come palestinese e come gazawi. Anche la mia famiglia sarebbe fiera di me, tutti lo sarebbero. Il mio sogno è mostrare al mondo la bandiera palestinese in una mano e lo skateboard nell’altra”.
Lavorare, innovare
Rajab va spesso al porto ad allenarsi. Fa l’idraulico e il manovale, ma in maniera a dir poco saltuaria. D’altro canto, trovare lavoro a Gaza ormai è un’impresa quasi impossibile. Il blocco israeliano ostacola la produzione, impedisce l’ingresso di materie prime e l’esportazione dei prodotti finiti. L’implosione dell’economia è oggi scolpita nei numeri: la Federazione dei sindacati locali stima 250mila disoccupati, e un tasso di povertà che ha raggiunto l’80 per cento anche tra chi un lavoro, bene o male, ce l’ha. Ancora una volta, a pagare dazio sono sopratutto le nuove generazioni. Sempre secondo Oxfam, 6 giovani su 10 sono disoccupati, e 4 donne su 5 non hanno retribuzione. Il tasso di alfabetizzazione è però altissimo. E anche l’istruzione superiore è inaspettatamente diffusa. I giovani di Gaza, insomma, sono istruiti ma vivono in un sistema economico strozzato, che non può in alcun modo mettere a frutto le loro conoscenze. Israele ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Eppure, internet e i social network restano gli oblò attraverso i quali guardare al mondo di fuori. E anche i megafoni con i quali raccontare se stessi. Così, quando il Sumud incontra istruzione e tecnologia, prende strade sorprendenti.
In un appartamento del Ramal, Ali Tayeh digita sulla testiera di un vecchio laptop. Sullo schermo scorrono diagrammi colorati, poi sui suoi occhiali tondi appare il riflesso di una sequenza di donnine seminude stilizzate. Fuori il sole è ancora alto, il fracasso di un martello pneumatico irrompe dalla finestra spalancata. Ali controlla l’andamento globale delle criptovalute, risponde a una telefonata, poi attacca. “In realtà sono un artista, dipingo nudi – e sorride malizioso -. Non lo fa nessun altro a Gaza, perché è haram”. Ali è uno dei molti giovani che da queste parti hanno cominciato a commerciare in bitcoin per racimolare qualche shekel. Da un po’ ha scoperto anche il mondo dei token non fungibili, i certificati digitali di unicità, la nuova frontiera dell’arte online. “L’anno scorso avevo appena perso dei soldi sul mercato, allora ho deciso di capire cosa fossero esattamente gli Nft. Ho cercato su internet e ho scoperto che era un business che interessava gli artisti. Quindi era perfetto per me”. Oggi, dalla sua casa nel centro della Striscia realizza opere d’arte registrate in blockchain, e le vende in tutto il mondo attraverso Twitter e Instagram. “A volte uso pure dei siti americani, come Fine art America – spiega -. Prima li vendevo in bitcoin, che poi cambiavo in shekel in un paio di negozi in città. Poi, ho capito come funzionava davvero il mercato, e adesso ho cominciato a vendere e comprare tramite Usd Coin. Sono dollari veri e propri, però digitali.”
“Le criptovalute si sono diffuse moltissimo negli ultimi anni – conferma Yousef Hammash, trent’anni, giornalista e collaboratore dell’organizzazione umanitaria norvegese Nrc -. D’altro canto qui non si trova uno straccio di lavoro. Quindi l’obiettivo è garantirsi un qualche tipo di reddito”. “A Gaza viviamo giorno per giorno – continua tra una boccata e l’altra di sigaretta elettronica -. L’ultima escalation c’è stata un anno fa, prima di quella abbiamo avuto la Grande marcia del ritorno, prima ancora ci sono state altre guerre. Insomma, qui può succedere di tutto da un momento all’altro. Noi lo sappiamo, quindi proviamo a inventarci qualcosa. Ogni volta dobbiamo creare un nuovo modo per tirare avanti”.
Coltivare, pescare
Tradizionalmente, però, il concetto di Sumud è da sempre legato alla terra. L’immagine più diffusa è quella del contadino che si rifiuta di lasciare i suoi terreni, e che frappone il suo corpo tra gli ulivi e le ruspe israeliane. A Gaza, tra l’altro, l’agricoltura è uno dei settori economici più rilevanti. Oggi occupa circa 60.000 persone, ma deve fare i conti con la lotta per l’acqua che è da anni al centro del conflitto con Israele. L’acqua da queste parti non è un diritto, è un privilegio. Le strutture idriche vengono costantemente danneggiate e sono ormai contaminate dal mare. Per desalinizzare l’acqua servono grandi quantità di energia elettrica, ma a Gaza l’elettricità è razionata. Oltre il 90% dell’acqua quindi non è potabile senza trattamenti, e la maggior parte della popolazione dipende dai venditori privati. Lo dimostrano la selva di serbatoi neri che spunta da ogni singolo tetto, e le autobotti che circolano in continuazione, diffondendo una strana musichetta da carillon per richiamare i clienti. La situazione è ormai drammatica, in molti casi i gazawi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata, e si trovano così esposti al rischio di diarrea, vomito e disidratazione. “Anche l’agricoltura deve fare i conti con questa crisi, oltre che con il blocco delle esportazioni”, dice Mohammad Al Bakri, presidente dell’Unione dei comitati di lavoro agricolo palestinese. “I contadini soffrono della salinità e della scarsa qualità della nostra acqua. Questo incide sia sull’economia che sulla sicurezza alimentare”. “E poi – continua, – Israele ci ruba la poca acqua che arriva dalla conduttura che attraversa il confine est, e la dirotta alle colonie. Da 10 anni conviviamo con questo problema, ma non sappiamo come risolverlo, non abbiamo risorse”.
Sette persone su dieci nella Striscia di Gaza sopravvivono grazie agli aiuti internazionali.
Il profilo inquietante delle ciminiere della centrale a carbone israeliana di Askelon domina l’orizzonte. Ma sulle colline di Beit Lahia si continuano a coltivare sopratutto fragole. Younis Abu Khousa, 47 anni, è il responsabile di una cooperativa agricola. La sua fattoria è un vero gioiello. Campi ordinatissimi, serre immacolate, pannelli fotovoltaici, addirittura un punto ristoro per sedersi a bere un frullato all’ombra dei gazebo. Younis ha trovato un modo per risparmiare acqua e incrementare la sua produzione: piantare le fragole fuori suolo in lunghi vasi di polistirolo sospesi. “È il primo esperimento di questo tipo, qui, ci lavorano 5 famiglie, per un totale di 31 persone. Le fragole pendenti sono pulite e la loro produzione è abbondante. In un dunum (1000 metri quadri ndr) riusciamo a coltivare circa 21.000 piantine e produrre 9 tonnellate di frutto, il triplo rispetto alle fragole piantate a terra”. Ma soprattutto “si risparmia l’80% di acqua”. Se la produzione a Beit Lahia è ottima, resta però il problema delle esportazioni. “Prima del 2007 trasportavamo le fragole direttamente all’aeroporto di Ben Gourion, e arrivavano direttamente in Europa. Dal blocco in poi, invece, le possiamo portare solo in Cisgiordania. E pure lì per arrivare ci mettono due giorni. Spesso il ministero dell’Agricoltura israeliano ferma i nostri carichi, sostenendo che non soddisfano gli standard sanitari. Ma le nostre fragole sono coltivate senza pesticidi, sono biologiche e perfettamente sicure.”
Se continuare a coltivare la propria terra, centellinando l’acqua per rendersi indipendenti da Israele, è sicuramente Sumud, a Gaza pescare è diventato un vero e proprio atto di fede. Durante la notte il mare è illuminato da decine e decine di lampare. Sono vicine alla costa, puntini luminosi che avanzano lenti. Alla mattina le barche rientrano alla spicciolata, scaricando sulla banchina il frutto del lavoro di circa 4.000 persone. “Dieci shekel, forse dieci shekel. Una nottata intera di lavoro, abbiamo faticato come cani. E non portiamo a casa neanche un tozzo di pane”, si lamenta un ragazzo nerboruto tirando su una cassetta di plastica semivuota. “Oggi è andata proprio male – commenta più calmo un pescatore anziano con uno zuccotto rosso calato sulla testa -. Il pesce è poco, il mare è chiuso. Per pescare bene dovremmo andare oltre le 15 miglia”. Israele non lo permette, però. Il controllo dei confini si estende anche alle acque costiere, e alle barche palestinesi non è consentito superare le tre o le quattro miglia nautiche, a seconda della zona. Così la pesca da queste parti è diventata una delle professioni più pericolose al mondo. Non passa settimana senza che qualche peschereccio finisca sotto il fuoco delle navi israeliane che pattugliano costantemente la costa. Zakaria Baker, un omone alto e grosso con la faccia quadrata, è il direttore del dipartimento affari dei pescatori di Gaza. Secondo il suo ufficio, nei primi sei mesi del 2022, Israele ha arrestato 41 persone in mare e ha sequestrato 10 barche. Ci accompagna nelle baracche dove decine di uomini stanno districando le reti. Poi ci presenta un tizio alto con il volto scavato incorniciato da una folta barba nera: “Gli israeliani lo hanno arrestato due mesi fa, insieme al figlio che doveva sposarsi qualche giorno dopo. Poi li hanno rilasciati, ma la barca è ancora sotto sequestro. Adesso sono tutti e due senza lavoro”. S’avvicina lento un altro pescatore. È più vecchio, indossa una logora tuta acetata, sulla testa un berretto scuro: “Gli israeliani hanno ammazzato mio figlio in mare, m’hanno sequestrato la barca. Ora non posso più pescare. Sopravvivo grazie agli altri, che mi aiutano quando possono”. Zakaria guarda le decine di barche ormeggiate lungo la banchina, comincia a contare sulle sue grosse dita: “A Gaza ci sono circa 4.000 pescatori. Finora ne sono morti 13, e ne sono stati feriti altri 250. 850 sono stati incarcerati, 350 sono falliti. A conti fatti, tutte le famiglie che vivono di pesca, qui, hanno avuto problemi con Israele”.
Essere donne, lottare
Forse, però, ad aver bisogno del Sumud più di tutti, oggi a Gaza, sono le donne. Oltre al peso dell’assedio, la popolazione femminile vive in una società oppressiva, patriarcale e conservatrice, governata da un regime politico e religioso che sostanzialmente nega loro ogni libertà. Nonostante Hamas, però, qui sono nate diverse associazioni femministe, che promuovono con forza il ruolo centrale della donna nella società gazawi e nella lotta per la liberazione dell’intera Palestina. Hanno nomi che sono veri e propri manifesti programmatici: “Associazione per la protezione delle donne e dei bambini”; “Centro donne creative per democrazia e diritti dei lavoratori”; “Associazione delle donne palestinesi per lo sviluppo”; “Comitati delle donne palestinesi”; “Non siamo numeri”; “Ragazze del Green hopes”. Nel giugno 2022 tutte queste realtà hanno dato vita a un Forum internazionale, organizzato grazie all’impegno del Centro Vik, del Gaza Free Style, del Mutuo Soccorso Milano e della Casa delle donne di Roma. All’incontro hanno partecipato oltre 100 donne, quasi tutte giovani o giovanissime, per confrontarsi e scambiare esperienze. Quello che colpisce, ancora una volta, è la consapevolezza, e la determinazione nel far sentire la propria voce. Oltre a un’incrollabile fiducia in un futuro diverso.
“Le donne di Gaza sono piene di passioni, sono colte, hanno idee, ma non hanno nessuna opportunità. Io, ad esempio, ho studiato amministrazione d’azienda ma non ho mai trovato un lavoro – racconta Mariah Hassouna, 22 anni, occhiali da sole tondi sotto un elegantissimo velo bianco e nero -. Anche per questo ho cominciato a praticare il pattinaggio a rotelle. Mi piacerebbe molto lavorare nello sport, perché qui non abbiamo insegnanti di pattinaggio per le ragazze. Gli uomini però continuano a pensare che dovremmo solo stare a casa, a cucinare. E questa cosa qualche volta mi deprime un po’. Perché noi siamo come tutti gli altri, e vorremmo vivere pienamente la nostra vita”. “Le ragazze di Gaza sono molto più attive dei ragazzi – racconta Shahd Raed, 16 anni di pura energia e ottimismo -. A me piace programmare, amo gli scacchi e il ping pong, mi piace recitare. In realtà mi piacciono un sacco di cose, ora non le ricordo tutte. Sono una ragazza con tanti talenti, insomma”. Shahd gesticola molto, si volta a guardare tutto, non riesce a stare ferma un attimo. “Penso che avrò un futuro radioso e viaggerò. Voglio studiare le applicazioni dell’intelligenza artificiale nella medicina. Non è possibile farlo qui, quindi viaggerò quando sarà possibile. Ne sono sicura, perché se qualcuno ha una grande passione e sogna qualcosa con forza, alla fine ci riesce”. Shahd pare davvero non avere dubbi: “Se lo sogno, lo posso fare. Quindi ci riuscirò”.
Oltre al peso dell’assedio, la popolazione femminile vive in una società oppressiva, patriarcale e conservatrice.
Forse sono proprio queste poche, semplici parole le più utili a capire cos’è il Sumud oggi a Gaza. Le pronuncia con un filo di voce una sedicenne minuta, che guardandoti dritto negli occhi ti dice che vuole vivere, non solo di sopravvivere. Che non vuole smettere di sognare, fare programmi, e credere ancora in un futuro diverso. Perché anche il solo fatto di continuare a esistere e riuscire a raccontarsi, qui, vuol dire resistere, conservare la propria dignità e ribellarsi all’oppressione. Il muezzin adesso richiama al salāt al-maghrib, la preghiera del tramonto. La sua nenia un po’ stonata rimbalza di moschea in moschea. Il cielo si sta scurendo in fretta, i droni hanno smesso di ronzare già da un po’. Allo skatepark del porto un gruppo di ragazzi continua a fare su e giù per le rampe polverose, anche perché l’aria s’è fatta finalmente un po’ più fresca. Shah si sistema il suo hijab giallo sui capelli, s’è fatto tardi. Deve andare. Saluta con la mano, sorride ancora. Riprende la via di casa, convinta che domani sarà un giorno migliore.
Tutte le fotografie sono di Alessandro Levati.