A lexander Langer si uccide impiccandosi il 3 luglio del 1995 vicino Firenze. Ha 49 anni, lascia un biglietto in cui cita il Vangelo di Matteo. David Foster Wallace si ammazza anche lui impiccandosi, il 12 settembre 2008, a 46 anni, nella taverna della sua casa di Claremont. Mark Fisher si toglie la vita il 13 gennaio 2017, a 48 anni. S’impicca anche lui.
L’attivista Langer, lo scrittore Foster Wallace, il critico Fisher sono i tre pensatori politici che più mi hanno aiutato a comprendere la crisi politica di una civiltà (bianca, occidentale, culturalmente imperialista) in un’era di grandi trasformazioni della psicologia collettiva, nei miei venti, trenta, quarant’anni.
È vero che ogni suicidio è una scelta così personale – misteriosa e ovvia al tempo stesso; Karen Green, la vedova di David Foster Wallace, ha scritto più volte come fosse arrabbiata nel leggere interpretazioni da critica letteraria del suicidio di suo marito: era un uomo depresso, sotto cura da decenni per la depressione, aveva cambiato farmaco da poco e questa transizione gli è stata fatale, non c’è altro. Ma è vero anche che non ci viene in mente nessuno che come Foster Wallace sia riuscito a fare una letteratura così alta della depressione e del suicidio. E non c’è nessuno che come Mark Fisher ci abbia aiutato a pensare che si dovessero mettere insieme la politica e la questione della depressione. In Realismo capitalista scrive: “La pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere adeguatamente compresa, o curata, se vista come un problema privato sofferto da individui danneggiati.”
In Good for nothing (Buono a nulla), un testo confessionale pubblicato nel 2015, pochi giorni dopo la vittoria elettorale del partito conservatore in Gran Bretagna, afferma ancora più esplicitamente che la depressione è una malattia della classe.
La
depressione collettiva è il risultato del progetto di re-subordinazione messo in opera dalla classe dirigente contemporanea. Per qualche tempo, abbiamo accettato l’idea che non eravamo il tipo di persone che possono muoversi, agire. Non per una mancanza di volontà, ma perché la ricostruzione della coscienza di classe è un processo assai arduo, e la soluzione non può essere preconfezionata. Ma, a dispetto di ciò che la nostra depressione collettiva ci indica, si può fare. Inventare nuove forme di coinvolgimento politico, facendo rivivere istituzioni che sono diventate decadenti, convertendo la disaffezione individuale in rabbia politicizzata: tutto questo può accadere. E quando accade, chi lo sa che cosa può succedere?
Settant’anni prima, nel 1942 Albert Camus scriveva che c’è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. È uno degli incipit più importanti, e noti, di sempre. Albert Camus traccia di fatto un prima e un dopo nella storia della filosofia; pone al centro della riflessione l’esistenza, il mio essere qui e ora. Il resto, dice, se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie, viene dopo; questi sono giochi: prima bisogna rispondere. Ecco una gerarchia inedita tra gli ambiti della disciplina filosofica. Prima rispondere al problema del (mio) suicidio, poi l’ontologia, l’ermeneutica, l’etica, la politica. Prima la (mia) risposta seria alla domanda seria, poi tutto il resto.
Camus riscrive la questione del suicidio da un punto di vista soggettivo, se ne riappropria, e con lui il suo secolo, di grandi movimenti di massa e di responsabilità individuali sconfinate, come quelle che spettano a Mersault nello Straniero. Risponde così al trattato di Durkheim, Il suicidio, che nel 1897 ha provato a spiegare in termini sociologici una scelta così intima. Tra i maestri del sospetto (Nietzsche, Freud, Marx), almeno sulle questioni di vita e di morte, sceglie Nietzsche.
Leggo per la prima volta Il mito di Sisifo per l’esame di filosofia teoretica all’università nel 1995. Langer ha ancora un mese di vita; io ho vent’anni, sono intemperante e incolto, come ogni ragazzo, non so chi sia Alexander Langer. Qualche mese prima Berlusconi tiene il suo discorso di discesa in campo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Le possibilità che gli stravolgimenti della caduta del muro, delle manifestazioni per la legalità provocate dallo sdegno e il dolore per gli attentati a Falcone e a Borsellino, e la decapitazione di un’intera classe politica con Tangentopoli, possano portare verso una palingenesi si dimostrano illusioni crudeli nel giro di pochi mesi.
Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Albert Camus pone al centro della riflessione l’esistenza, il mio essere qui e ora.
Due giorni prima dell’esame, una settimana dopo il suicidio di Langer, l’11 luglio 1995, sgomberano il centro sociale occupato La Torre, a villa Farinacci (la fu residenza del gerarca fascista), con una delle operazioni di polizia più demenziali e repressive mai avvenute a Roma; un dispiegamento di forze da puntata speciale di Narcos. Io sono tra quelli che la frequenta la Torre, ho dato una piccola mano all’occupazione che è iniziata il 4 giugno 1994, il giorno in cui muore Massimo Troisi. Viale Rousseau, la sede del centro sociale, è a duecento metri da casa mia. L’11 luglio 1995 sto tornando verso casa dall’università; sono molto indietro con lo studio dell’esame, e non sono riuscito a andare in biblioteca.
L’accesso alla Torre e quindi a casa mia è impedito da due giganteschi blocchi di polizia: uno alla fine di viale Rousseau sulla Nomentana, l’altro all’altezza di via Spinoza. Gli occupanti della Torre sono asserragliati dentro. Per tornare a casa prendo una scorciatoia nel parco, evitando i posti di blocco. Sopra la Torre, e quindi sopra di me che taglio il parco da solo, volteggia a nemmeno cento metri da terra un elicottero. A un certo punto un gruppo di poliziotti mi viene incontro: mi urlano Che cazzo ci fai qua? Gli rispondo quieto Ci abito. Gli mostro i documenti. Mi frugano nello zaino, e ci trovano La dialettica dell’illuminismo di Theodor Adorno e Max Horkheimer, Vita Activa di Hannah Arendt, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale di Simone Weil, e Il mito di Sisifo di Albert Camus. Sono alcuni testi dell’esame di filosofia teoretica con Lucio Colletti e Paolo Flores D’Arcais. Ho anche una Bibbia con me.
Mi lasciano andare, mi dicono smamma. Rinfilo tutto nello zaino e mi riavvio verso casa. Ma ho appena fatto due passi, quando mi arriva un sonoro sputo addosso. Allora mi volto e dico: No, gli sputi no! Basta questo perché mi tornino addosso in cinque, e mi placchino a terra. Poi mi trascinano verso una macchina della polizia. Mi spingono dentro, mi intimano di stare con la faccia sul sedile. E dopo una decina di manovre schizzano via con le sirene spiegate facendo lo slalom, tra poliziotti, manifestanti, gente del quartiere. Devo apparire, agli occhi di chi mi scorge dal finestrino, il militante esaltato che hanno fermato, o forse semplicemente un cretino.
Per arrivare al commissariato di San Basilio, sbagliano strada almeno quattro volte; alla fine gliela indico io, mi hanno permesso di tirare su la faccia. Passando per viale Marx (sembra sì una Topolinia filosofica, il mio quartiere) scorgo mio padre. Sono le sei, torna dall’ufficio e l’hanno bloccato lì anche lui. Chiedo ai poliziotti se si possono fermare, non mi va di sfrecciare in una macchina della polizia davanti alla faccia di mio padre senza potergli parlare; non esistono ancora i cellulari. Si fermano, e mio padre comincia a fargli una specie di paternale. È stato sempre così, ha sempre cercato di essere persuasivo con la dialettica. Gli dice che non possono tenere sotto scacco un quartiere intero così, che lui deve tornare a casa e ha già perso mezz’ora, che io ho un esame qualche giorno dopo e mi stanno facendo perdere tempo. I poliziotti lo ascoltano, sembrano quasi convinti, balbettano che non è colpa loro, sono obbligati a portarmi al commissariato. Mio padre sbuffa, li guarda con pena.
Negli ultimi 45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del 65% in tutto il mondo.
Al commissariato di San Basilio mi fanno spogliare completamente, mi frugano nel culo. E poi mi lasciano andare in una stanzetta. Per ore. Io provo a leggere e studiare. Ogni tanto arriva nella grande stanza accanto un gruppetto di poliziotti spaventati e eccitati, si allarmano e si fomentano a vicenda, in vari dicono: Qua ci scappa il morto. Qualcuno ha anche messo in giro la notizia che un morto c’è già stato. Io ho telefonato a casa, mio padre mi ha ripetuto: Cerca di fare presto. Teme che mi trattengano per la notte. C’è la cena da riscaldare.
La sera, quando tutto si è placato, resto ad assistere dalla stanza accanto alla scena di un gruppo di dieci poliziotti che stendono il verbale. Si incagliano su come si scrive viale Rousseau: “Russò con l’accento”, “No, Roussot con la t finale”. Sono talmente stanco che non riesco a notare nemmeno l’ironia della cosa. La volontà popolare, la rivoluzione francese, i diritti. Lo sgombero finisce la mattina dopo in pratica, dopo quasi ventiquattr’ore di guerriglia urbana.
All’esame di filosofia teoretica sono bocciato, lo ripeto alla sezione successiva e prendo 30. Villa Farinacci da ventiquattro anni è un luogo chiuso, spento, inutilizzato. F., il fratello di un mio amico, si butta dalla finestra che ha vent’anni, a piazzale Montesquieu, l’anno dopo lo sgombero. La mia compagna di università S. si butta da un’ambulanza in corsa nel trasferimento da un ospedale psichiatrico all’altro. Il mio amico M., con cui a diciannove anni avevo fatto il provino per entrare all’accademia d’arte drammatica, si butta da un palazzo a Tor Tre Teste. Possiamo, oggi, porre il tema del suicidio in termini non solo esistenziali, non solo psicologici, ma politici?
Nel 2012 – ultimo dato dell’organizzazione mondiale della sanità – si sono suicidate 800.000 persone, una ogni quaranta secondi. Negli ultimi 45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del 65% in tutto il mondo. Oggi il suicidio è considerato una delle tre principali cause di morte fra gli individui di età compresa tra i 15 e i 44 anni, in entrambi i sessi. Senza contare i tentati suicidi, che sono fino a 20 volte più frequenti. Nel 2020 il numero dei suicidi, secondo l’organizzazione mondiale della sanità, potrebbe salire a un milione e mezzo di persone. L’età più bassa in cui ci si ammazza è intorno ai dieci anni.
Parlare di ragioni di un suicidio sembra una contraddizione in termini.
Parlare di ragioni di un suicidio sembra una contraddizione in termini. Se ci si uccide è perché viene a mancare anche l’ultimo pezzo di ragione, quella che ci permette di mettere la vita prima di ogni altra cosa. Per questo i libri, le ricerche, gli studi, gli interrogativi sul suicidio provano a esplorare le zone d’ombra o ad aggirare quello che è un paradosso: ogni 40 secondi un essere vivente sembra decidere qualcosa che va contro le leggi della sopravvivenza, sovverte il darwinismo (“la natura non produrrà mai in un essere qualcosa di dannoso per sé stessa, poiché la selezione naturale agisce esclusivamente da e per il bene di ciascuno”, si legge ne L’origine delle specie). Perché? La gamma dei tentativi di risposte si suddivide in due sottoinsiemi. Quelli che affrontano il paradosso scavando nel cuore di tenebra dell’uomo, e quelli che cercano di conciliare il paradosso suicidario con le leggi di natura sull’evoluzione. La si fa finita perché non si è riusciti a adattarsi. Oppure: la si fa finita perché in questo modo la specie si adatta meglio (espellendo un individuo con problemi di adattamento). Il suicidio sarebbe dunque una resistenza a un mondo in cui è sempre meno facile adattarsi, oppure un gesto paradossalmente congruo con un’evoluzione che non richiede forse la nostra presenza.
In Suicidal. Why we kill ourselves (2018), Jesse Bering sostiene che il 43 per cento dei suicidi ha cause genetiche, il 57 per cento cause ambientali; il 90 per cento di chi si toglie la vita soffre di disturbi psichici gravi. Il suicidio ha certo ha che fare con la depressione, ma solo il 5 per cento dei depressi muore per suicidio. Questo ci aiuta a districarci nella questione o è soltanto un modo per nominarla diversamente?
Lo studioso Edwin Shneidman, che per tutta la vita si è occupato del suicidio da un punto di vista scientifico, ha coniato un termine per descrivere le ragioni per cui le persone si ammazzano, psychache, che in italiano può essere tradotto come dolore mentale. Quella del dolore mentale è un’immagine che ci fa venire in mente la celebre metafora con cui Foster Wallace ha parlato del suicidio.
La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.
È una metafora così terribile e potente che quando abbiamo visto le immagini in diretta e poi le fotografie delle persone che si buttavano dalle Twin Towers dopo gli attentati dell’undici settembre, abbiamo come riconosciuto l’atto disturbante di un suicidio che in qualche modo contiene in sé un istinto di sopravvivenza al dolore più che alla morte che ci è parso raccontare un’epoca più che un tragico episodio.
Detto in termini più scientifici e letali, quelli che usa Anton Leenaars, in Rational suicide: A psychological perspective (1999): “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto cosciente di annientamento autoindotto, meglio compreso come un malessere multidimensionale in un individuo bisognoso, che definisce un problema per il quale il suicidio è percepito come la migliore soluzione.”
Sul New York Times di qualche mese fa Clay Routledge collegava l’incremento dei suicidi a una crisi esistenziale estrema che attraversa la società occidentale, senza un’idea del trascendente e senza figli. È una società sempre più feroce, sempre meno a misura d’uomo, è per questo che la vogliamo far finita? Per conservare qualcosa di umano? Perché semplicemente non ce la facciamo?
Il suicidio in qualche modo contiene in sé un istinto di sopravvivenza al dolore più che alla morte.
Ho sempre diffidato delle spiegazioni riduttive, ma il senso di tristezza lancinante che una generazione umana sente non ha qualcosa di comune? Possiamo trovare immagini diverse per questa crisi di civiltà. Quella che usa Lars von Trier in Melancholia, un pianeta che si viene a schiantare contro il nostro; oppure la metafora del film I figli degli uomini, dove accanto a un mondo in cui non esistono più donne fertili si immagina anche la possibilità per ognuno di disporre di un kit per la propria eutanasia.
La delusione umana che porta al suicidio viene raccontata da Bering in termini di standard sociali così disattesi che la vita perde totalmente di senso. La mancanza di un successo sociale assomiglia nella descrizione del suo testo Suicidal a una condizione di impossibilità di sopravvivenza. È la vita quotidiana come concepita nel mondo attuale a produrre quello stato di psychache?
Sembra una domanda da ragazzi, letteralmente, se il profondo senso di inadeguatezza può essere una ragione per farla finita. All’inizio di Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Bifo riporta le lettere di giovanissimi mass-killer, quelli delle stragi scolastiche. Quella di Seung-Hui Cho, autore del massacro al Virginia Polytechnic Institute nel 2007 (33 persone morte come lo stesso Cho che si è sparato alla fine), è particolarmente significativa perché sembra molto sincera (qui la versione integrale). Scrive Cho:
Voi avete distrutto il mio cuore, avete violentato la mia anima e avete dato fuoco alla mia coscienza. Pensavate di annullare la vita di un ragazzetto patetico. Grazie a voi io muoio come Gesù Cristo, per ispirare generazioni di persone deboli e indifese. Sapete cosa si prova a ricevere sputi in faccia, sapete cosa si prova a dover mandare giù spazzatura che ti viene spinta in gola? Sapete cosa si prova a doversi scavare la fossa? Sapete cosa si prova quando ti tagliano la gola da un orecchio all’altro? Sapete cosa vuol dire essere bruciati vivi? Sapete cosa si prova a essere umiliati e inchiodati su una croce? E lasciati lì a sanguinare per il divertimento altrui? Non avete mai provato un solo grammo di dolore nella vostra vita.
Volevate iniettare nelle nostre vite tutta la miseria possibile giusto per il piacere di farlo? Non avrei dovuto farlo. Avrei potuto lasciar perdere. Avrei potuto fuggire. Ma no, io non scapperò più. Non è per me. Per i miei figli, per i miei fratelli e sorelle che voi inculate, io l’ho fatto per loro… Quando è venuto il momento io l’ho fatto. Dovevo farlo. Avreste avuto un miliardo di modi per evitarlo ma avete deciso di succhiare il mio sangue. Mi avete spinto in un angolo e non avete lasciato che una sola possibilità. La decisione l’avete presa voi. Adesso avete sangue sulle mani e non potrete mai lavarlo via. Avete avuto quello che volevate. Non bastavano le vostre Mercedes, i vostri ragazzini viziati, i vostri cravattini dorati, la vostra arroganza. Non bastavano la vostra vodka e il vostro cognac. Tutte le vostre debosce non bastavano. Non bastavano a soddisfare i vostri lussi edonistici.
La tesi di Bifo è che negli ultimi decenni l’angoscia determinata dalla violenza di classe esercitata sulla psiche sia la causa di una sorta di istinto planetario di morte. La lettera di Cho è una chiamata al suicidio-omicidio a tutti gli sfigati del mondo. Quanti sono gli sfigati del mondo?, si chiede Bifo, ed è una domanda molto pertinente.
Lo sfigato è una figura costitutivamente solitaria, essere sfigati coincide proprio con l’essere isolati: l’una condizione porta all’altra. Nessuno può immaginarsi una generazione collettiva di sfigati, una politicizzazione della sfiga. Eppure sempre di più le forme di autocommiserazione e l’esibizione della propria sfiga o l’ambizione di una condivisione di una condizione di sfiga si riflette in fenomeni quantomeno prepolitici.
Quello degli incel è il più clamoroso, si tratta di una sorta di caso di sovranismo di genere. Nostalgici del patriarcato, violenti nei giudizi contro le donne, l’ideologia incel corrisponde a una reazione al neoliberismo sessuale, descritto bene da Michel Hoelleubeucq in Estensione del dominio della lotta o Le particelle elementari. Si dichiaravano incel due degli assassini di massa, e si possono leggere attraverso la prospettiva incel anche alcune pratiche violente dell’Isis, quelle dei suicidi, gli shadid che interpretiamo sempre legate a una disciplina religiosa, ma che potremmo invece forse riconoscere come una soggettivazione politica estrema determinata dal non poter trovare un posto proprio nel mondo dei vivi.
In contesti sociali, religiosi, culturali diversi, la descrizione della rabbia data dalla frustrazione ha molti tratti comuni: uno su tutti la prevalenza del maschile. La maggior parte dei suicidi è maschio, con proporzioni nette, tre su quattro, un catalogo di uomini schifosi come li descriverebbe Foster Wallace, o di impostori (inadeguati che si mascherano per fingere adattamento) come nel suo “Caro vecchio neon”, quasi un manifesto di questo genere di narrativa dell’inadeguatezza, che si conclude non a caso con il racconto dettagliato di un suicidio.
In questo saggio Francesca Coin parla di come questa condizione di lacerazione condizioni ormai una parte sempre più consistente di quella comunità mondiale rappresentata dai ricercatori universitari, quella che dovrebbe essere l’avanguardia intellettuale del mondo sviluppato è un esercito di fragilità e lacerazioni. Coin cita le ricerche di Stephen Buckley, capo dell’organizzazione per la salute mentale Mind per cui
I costi universitari, il debito, il mercato occupazionale e la paura di non farcela sono tutti fattori determinanti per spiegare ansia e depressione. La relazione tra la depressione, la percezione di inadeguatezza e la competizione neo-liberale torna qui a rendersi manifesta, come scriveva Mark Fisher, in un’interpretazione che ancora una volta allontana le origini della depressione da un trauma familiare o da uno squilibrio chimico per tornare a evidenziare un contesto sociale problematico nel quale il singolo individuo si trova dalla parte sbagliata del potere sociale.
Lo studio che cita invece Fisher per avvalorare una posizione per cui le ragioni dell’epidemia di depressione o quelle che spingono al suicidio sono sociali è il libro di David Snail, The origin of unhappiness.
Questo è uno degli esempi che fa Snail:
James è un giovane intelligente, sensibile e dotato. Da ragazzo andava alla Grammar School locale, che odiava. Terrorizzava i suoi genitori diventando “scuolafobico”, facendoli disperare che tutti i loro sacrifici per migliorare la sua sorte nel mondo stessero per essere vanificati da un fallimento di cooperazione e gratitudine che loro non riuscivano proprio a capire. Ma riuscirono a lusingarlo e mandarlo a scuola, dove conduceva una vita isolata, cercando di nascondersi da uno sguardo ubiquitario della classe media che, non appena lo vide, lo identificò come un corpo estraneo. Sviluppò un intenso interesse per l’arte e diventò un pittore dilettante molto abile. A diciassette anni sfidò l’accettazione supina dei suoi genitori di un ordine sociale che ha funzionato quasi interamente contro i loro interessi e ha persino persuaso il padre sconcertato a unirsi al Partito Laburista.
Ma dopo quello ha perso l’entusiasmo. Essere padre di suo padre gli toglieva troppo da lui per poter sostenere il coraggio di affrontare il proprio mondo e non ha mai trovato un lavoro che potesse tollerare. Un senso di irrealtà e non appartenenza, di frode e artificialità, un odio amaro per il fatto di sentirsi come in una corsa di topi combinato a una totale mancanza di fiducia nella sua capacità di avere un impatto su di essa lo ha portato a profonde depressioni. Non è che non riesca a esplorare le ragioni delle sue difficoltà, anzi ha sviluppato una critica intelligente e molto articolata del suo mondo interiore. Il problema è che non crede nel suo diritto di fare una simile critica ed è acutamente sprezzante nei confronti delle sue stesse motivazioni, che considera fondate esclusivamente sulla debolezza. Si aggrappa all’idea di essere “malato” come principale baluardo tra lui e il suicidio.
La prospettiva di Coin, Fisher, Bifo è che possa esserci persino nelle istanze suicidarie un principio di soggettivazione politica, un depressi di tutto il mondo unitevi, che possa farci leggere la condizione di inadeguatezza come una malattia del neoliberismo e la depressione una reazione del corpo a una violenza di classe.
Questo tipo di prospettiva politica si oppone all’ipotesi dell’aumento dei suicidi come pratica geneticamente adattiva del genere umano. La parte più interessante del libro di Bering è quella in cui enumera le teorie evoluzioniste per applicarle a un neodarwinismo sociale. Il saggio del 1963 di William Donald Hamilton conteneva la teoria sulla selezione parentale – divulgata dal bestseller di Richard Dawkins Il gene egoista, per cui tra gli animali un comportamento apparentemente autodistruttivo è funzionale alla sopravvivenza e all’evoluzione della propria comunità genetica. Il neuroscienziato Denys deCatanzaro nel 1981 applica queste teorie alla sua sul suicidio, “Human Suicide: A Biological Perspective”.
Se è improbabile che un individuo si riproduca, sia incapace di sostenere se stesso e la sua famiglia in modo adeguato, e incapace di contribuire al benessere di altri individui riproduttivi che condividono i suoi geni, la sua morte potrebbe non influenzare la frequenza dei geni che trasporta. Di conseguenza, il suicidio non eliminerebbe dal pool genetico alcun gene che non fosse già stato eliminato. Pertanto, nelle condizioni ecologiche limitate in cui sembra verificarsi il suicidio, potrebbero non esserci pressioni selettive per prevenirlo. Ciò potrebbe agire contro la propria sopravvivenza quando si consumano risorse senza essere produttivi. Dove non c’è “nessuna ragione per vivere”, qualsiasi ragione altrimenti banale per non vivere potrebbe influenzare il comportamento.
Chi ha poche chance riproduttive o risorse per contribuire alla propria famiglia potrebbe sviluppare un pensiero suicida, o meglio potrebbe liberare quei vincoli che non permetterebbero un pensiero suicida.
L’impressione che resta, leggendo gli studi sul suicidio, anche ad esempio quello di Marzio Barbagli Congedarsi dal mondo, è che si sia intrappolati ogni volta in un determinismo disciplinare, che sia psicologico o sociologico, e che la via d’uscita camusiana – oggi che le condizioni mentali sono sempre meno un mistero insondabile – non sia sufficiente per restituire il senso soggettivo a un atto così personale come il suicidio.
Ma se è vero, su questo concordano tutti gli studi, che le motivazioni sono multifattoriali, non è possibile che la questione non sia trattata come profondamente politica. È quello che spesso urlano le lettere dei suicidi – implorano una collettivizzazione del problema, una presa in carico da parte della comunità di un dolore, di una frustrazione, di un’istanza che è dolorosa e angosciante spesso perché è solo personale.
Nel rispetto per chi decide di farla finita, ma soprattutto nella giusta cura che dovremmo mettere tutti perché le percentuali di casi di suicidio e di diagnosi di depressione grave e depressione siano sempre più basse, quel grido sarebbe bene ascoltarlo.
I pesi mi sono diventati davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti anche per questa dipartita. Un grazie a coloro che mi hanno aiutato ad andare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. “Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati”. Anche nell’accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.
Alexander Langer