A settembre sono iniziate le udienze del processo che vede parte lesa Gisèle Pelicot. La vicenda è nota ma si può riassumere così: nel 2020 Gisèle Pelicot, a seguito di una convocazione in caserma per un reato del coniuge, ha scoperto di essere stata vittima di ripetute violenze sessuali tra il 2011 e il 2020 per opera di uomini (51 quelli identificati, ma si tratta di una settantina in totale) reclutati da quello che all’epoca era suo marito, Dominique Pelicot. Gli uomini venivano contattati tramite il sito francese Coco.fr (oggi chiuso) e invitati a fare sesso con la donna che versava in stato di incoscienza – era Dominique a somministrarle i farmaci durante i pasti. Si tratta di individui tra i 26 e i 70 anni, rappresentativi di tutti gli strati della società francese: si va dal giornalista al pompiere, dal falegname al militare di professione. Una realtà così variegata che i giornali francesi hanno usato l’espressione di Monsieur tout le monde, signor chiunque, per dire che quegli uomini, che non ricevevano alcun compenso ma che dovevano attenersi scrupolosamente alle regole imposte da Dominique Pelicot, sono persone qualunque, padri di famiglia, colleghi di lavoro, vicini di casa.
Da quando sono uscite le prime notizie, più volte mi è capitato di cliccare e aprire gli articoli che la riguardavano; e più volte li ho richiusi: come se una specie di pudore mi impedisse persino di procedere nella lettura; come se i dettagli raccapriccianti offerti dalle testimonianze non fossero soltanto parole sullo schermo ma una lordura insopportabile e contaminante. Tuttavia, sbirciando e ritraendomi, non ho potuto, in quel miscuglio perverso di curiosità ed empatia, non soffermarmi sull’aspetto mite e deciso di Gisèle Pelicot. Il caschetto con la frangetta, ordinato, a nascondere la fronte; gli occhiali tondi, scuri, a proteggere gli occhi: sembrano essere queste le uniche cortine che la settantaduenne francese ha deciso di tenere calate tra lei e il mondo. Rimuovendo i diaframmi che la separano dallo sguardo dei giornalisti, degli avvocati e soprattutto degli imputati, questa donna ha saputo dare corpo allo slogan “La vergogna deve cambiare campo”.
“La honte doit changer de camp”: rimandare la vergogna al mittente significa rovesciarla. Questo ribaltamento è un imperativo dei nostri tempi, sostiene il filosofo francese Frédéric Gros nel suo lavoro La vergogna è un sentimento rivoluzionario. “Cambiando campo, la vergogna cambia anche natura: non è più l’angoscia per qualcosa d’innominabile che mi accade, bensì la proclamazione pubblica dell’ignominia dell’aggressore”, scrive. Il libro ricostruisce una genealogia e una tassonomia della vergogna, e oltre a dedicare molte pagine alla vergogna sociale, per esempio quella verso le proprie, rinnegate, origini, che accomuna due transfughi di classe come la scrittrice Annie Ernaux e il sociologo Didier Eribon, declina anche il particolare tipo di vergogna legato alla sfera sessuale. Didier Eribon ebbe a dire che era stato più facile per lui scrivere della vergogna dell’omosessualità che di quella delle radici proletarie (ed Annie Ernax chiosò che, in effetti, dopo aver avuto accesso al mondo dei libri e dei giornali, era più facile dichiararsi gay che figlio di operai).
Se prendiamo l’etichetta della vergogna sessuale e la applichiamo alle donne, però, le cose assumono una sfumatura differente. Per secoli lo stupro consumato nelle società d’onore macchiava la reputazione delle donne violate, e stava ai mariti, che detenevano la “proprietà” delle mogli, vendicare quel delitto. Oppure il gesto riparatore doveva provenire dalla donna stessa. Certo non poteva restare impunito.
Per secoli lo stupro consumato nelle società d’onore macchiava la reputazione delle donne violate, e stava ai mariti, che detenevano la “proprietà” delle mogli, vendicare quel delitto.
Esemplare il racconto dell’atto di Lucrezia, discusso per secoli, raccontato per primo da Tito Livio. La bella e morigerata matrona romana moglie di Collatino si ritrova assediata e minacciata da Tarquinio: egli le dice che, se non cederà alle sue avances, ucciderà lei e un servo, allestendo la messinscena di una notte d’amore e dei conseguenti omicidi come un favore verso Collatino: una volta morta Lucrezia, solo la vergogna le sopravviverà. Piuttosto che avere la reputazione infangata, Lucrezia cede alla violenza di Tarquinio, ma poi si suicida. Con in mano il pugnale, esclama: “Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”. Il suicidio qui è ambiguo: da un lato reclama l’insopportabilità della violenza, dall’altra incatena tutte le donne a imitare Lucrezia se vogliono conservare la loro immagine di purezza e castità.
Prendiamo poi il caso di Palla di sego. Nel racconto di Maupassant, la giovane prostituta non riesce a smarcarsi dallo stigma legato al suo corpo pur agendo nell’interesse del prossimo. Siamo a Rouen, nel 1870: la città è stata assediata dai Prussiani e i cittadini si danno alla fuga. Alcuni borghesi, due religiose e la prostituta che dà il titolo al racconto si trovano a condividere l’angusto spazio di una diligenza e un viaggio impervio. Nessuno, tranne Palla di sego, ha pensato, nella fretta di scappare, a portarsi del cibo: per quanto tutti la sdegnino, di fronte alla fame non si fanno troppi problemi ad accettare le vivande che lei generosamente decide di mettere in comune. Così come non si faranno troppi problemi il giorno successivo, quando la ripartenza del gruppo è condizionata dalla richiesta di un ufficiale prussiano: Palla di sego deve concedersi a lui, altrimenti la diligenza non partirà. Eccoli, tutti quanti, a infastidirsi, insistere, accantonare qualunque remora morale: non è del resto il suo lavoro? Cosa sono ora questi scrupoli patriottici? Non se la prendono con le voglie dell’ufficiale prussiano ma con la meretrice che non vuole accondiscendere.
Passano i giorni, monta il nervosismo; spinta dal desiderio di essere accettata, Palla di sego cede: il gruppo può ripartire. Ma le ultime scene ci mostrano i compagni di viaggio, i quali stavolta hanno fatto in tempo a fare scorta di cibo, mentre mangiano rumorosamente e ostentatamente di fronte alla donna che, sola, avvilita, rimane in un cantuccio a piangere. Lo ha fatto per il bene di tutti, ma nessuno le è riconoscente. I borghesi sembrano spostare su di lei, vittimizzandola ulteriormente, l’orrore e la colpa di quello che loro hanno fatto. Un meccanismo non dissimile da quella che viene chiamata “vittimizzazione secondaria”, ovvero l’infierire sulla vittima da parte di altri soggetti diversi da quello che ha perpetrato la violenza.
Difficile anche solo denunciare quando si teme che le conseguenze saranno solo per sé e non per gli aggressori. In questa disamina della vergogna dello stupro, prendiamo un caso di cronaca. Siamo negli anni Settanta: due donne, Anne Tonglet e Araceli Castellano, campeggiano in una baia di Marsiglia; vengono avvicinate da tre uomini e si ritrovano a subire violenza per ore. I tempi erano diversi e non ci fu immediata solidarietà, anzi: il percorso giudiziario fu ostico, la reputazione e i gusti sessuali delle due vittime messi sotto scrutinio (praticavano il nudismo, erano omosessuali, femministe); il fatto stesso che avessero ceduto alle violenze gettava una luce fosca sulla loro verità, come se al dunque cedere significasse acconsentire (e non, semplicemente, sopravvivere: ecco lo spettro di Lucrezia di cui abbiamo parlato).
Difficile anche solo denunciare quando si teme che le conseguenze saranno solo per sé e non per gli aggressori.
Sarà grazie a un’altra Gisèle, Gisèle Halimi, attivista per i diritti umani e avvocata, che si arriverà al processo. Halimi ricorre in appello contro la decisione del tribunale di Marsiglia e trasforma la fase processuale in una battaglia culturale e politica: la mediatizza. Nella sua arringa, a un certo punto, centra il punto dolente della confusione circa il consenso generata dal silenzio, chiedendo retoricamente: “Fino a che punto una donna stuprata deve resistere? Fino alla morte?”. Non solo: è lei che sposta il faro dell’attenzione dalla vittima al reato (e quindi a chi lo ha perpetrato) quando afferma: “Ciò che è scandaloso non è denunciare lo stupro, ciò che è scandaloso è lo stupro stesso”.
Negli anni Trenta già Ferenczi si era occupato, a partire dall’analisi dei traumi infantili, del rapporto poroso che può legare vittima e carnefice, specie laddove ci si trovi in una condizione di minorità, di sudditanza. Secondo Ferenczi, la vittima reagisce, anziché difendendosi, “con l’identificazione per paura e l’introiezione di colui che minaccia o aggredisce”. Ovvero, la vittima, in vista di un’unica possibilità di salvezza, abdica a sé stessa, si consegna all’aggressore. Spesso ci vuole coraggio, e sostegno da parte della società, per rovesciare questo transfert. Di sicuro ebbero bisogno di molta forza Anne Tonglet e Araceli Castellano: non solo dovettero combattere contro i pregiudizi dell’epoca sulle donne, ma anche quelli sull’omosessualità.
Arriviamo a oggi. La storia di Gisèle Pelicot è stata raccontata come la trasmutazione della vittima in eroina. A partire da questa costruzione simbolica, intimamente connessa alla “migrazione” dell’idea di vergogna, mi sono ritrovata, con un certo spaesamento, a maneggiare le mie diverse impressioni e suggestioni – diverse nel senso di varie ma anche contraddittorie. L’enorme riverbero dello slogan “La vergogna deve cambiare campo”, così come la bella e partecipata accoglienza riservata a Giséle Pelicot a ogni udienza, le manifestazioni in suo nome, sono tutti segni di un innegabile progresso: oggi, nessuno si sognerebbe di difendere i violentatori, certo non con i toni e le argomentazioni di cinquant’anni fa; oggi, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione l’innocenza di Gisèle Pelicot; o di sindacare sui suoi comportamenti (quando gli avvocati degli imputati nel processo c’hanno provato, la loro strategia è parsa perdente). Finalmente si parla apertamente di cultura dello stupro; c’è più sensibilità e attenzione.
La vergogna, forse, ha già cambiato campo? Eppure. Mi resta addosso la sensazione che questo progresso ci sia, sì, ma che ne resti fuori qualcosa. Che un certo atteggiamento sia divenuto, per così dire mainstream, ma che permangano degli angoli bui: quei sottoscala nei quali i media e la pubblica opinione esitano – o evitano – di andare. Ed è qui che mi vengono in mente altre considerazioni più urticanti, perniciose, con le quali io stessa fatico a venire a patti. Non hanno a che fare con la vittima in sé, ovviamente, ma con il racconto della vittima che ci è stato offerto come paradigmatico. Gros usa un’espressione ardita, quasi offensiva: parla di stupro “buono”: cioè dello stupro che, a certe condizioni, raccoglierà la condanna e la compassione degli uomini per bene. Tra le condizioni, c’è il fatto che la vittima sia una donna sposata, che la assenza di consenso sia manifesta (tramite un’eroica resistenza o a causa di un’oggettiva impossibilità di esprimersi), e che lo stupro sia commesso da un estraneo.
Fino a che punto una donna stuprata deve resistere? Fino alla morte?
Gisèle Pelicot è una donna della classe media, è una madre, una nonna: e coerentemente con questo ruolo, si presenta con dignità e sobrietà, come tutti i resoconti sottolineano parlando del suo coraggio e della sua compostezza. La questione del consenso per lei non si pone: Gisèle era drogata, praticamente catatonica, difficile sostenere che poteva aver prestato il suo assenso a ciò che le stava accadendo. L’impossibilità di reagire la accomuna a una creatura inerme, una bambina maltrattata dall’orco. La sua innocenza è palese.
Il ruolo dell’estraneo: è vero che qui non c’è il classico indiziato (lo straniero – vedi Salvini pochi giorni fa – o l’outsider), ma a rendere la vicenda ancora più conturbante ci sono schiere di sconosciuti convocati dal marito, letteralmente invitati a violare la sua stanza da letto e la moglie.
C’è poi un altro elemento che mi ha fatto riflettere. Può apparire secondario a un primo sguardo, ma forse non lo è: l’età della vittima. Fin dall’inizio della triste sequela di abusi, Gisèle era una donna adulta, prossima a essere definita anziana. Questo dettaglio aumenta il potere della sua denuncia (un abuso verso un’anziana è disgustoso quanto quello contro un minore), ma nello stesso tempo la depotenzia perché rende la sua figura quasi eterea, astratta, e soprattutto asessuata, la priva del desiderio – almeno nella visione dominante riguardo alle donne in menopausa. Quello che voglio dire è che il corpo di una donna non più in età riproduttiva è, al pari di quello di un bambino, meno “minaccioso” per l’opinione pubblica, meno problematico, si dà per scontato che nessuna pulsione tentatrice sia partita da lei.
Ecco, immaginiamo che al posto di Gisèle Pelicot ci sia una donna meno integrata nella società, meno “rispettabile”, che magari non ha delle relazioni stabili, e i cui atteggiamenti possano apparire meno “irreprensibili”: riceverebbe la stessa onda generosa di supporto e solidarietà? Ne dubito. Non ha senso fare la storia con i se, si può obiettare; ma basta guardare alle cronache di altri processi per accorgersi che alcune vittime restano controverse, non ricevono unanime supporto, i loro comportamenti vengono ancora e infinitamente messi sotto la lente di ingrandimento (se avevano bevuto, assunto droghe, se avevano urlato durante le violenze – sic!). Questo non dovrebbe accadere. Questo non accade per altri reati, quando si cerca di ricostruire lo svolgersi del crimine, non come si è comportata la vittima. È come se, subito dopo una rapina, si chiedesse conto al derubato del fatto che indossava un rolex vistoso, troppo attraente per il ladro.
Daniele Giglioli ha scritto anni fa un libro complesso e densissimo in cui discute del cosiddetto “dispositivo vittimario”: si intitola Critica della vittima. “La vittima è l’eroe del nostro tempo”, esordisce Giglioli, fornendo subito al lettore i parametri della sua articolata analisi. Il suo oggetto è l’utilizzo della nozione di vittima nelle società contemporanee: spesso chi detiene il potere ne fa un uso surrettizio, cinico, spregiudicato, che mina alla base la possibilità di una azione politica. La vittima promette identità, garantisce innocenza e – questo è l’aspetto su cui mi vorrei soffermare – offre una storia.
Immaginiamo che al posto di Pelicot ci sia una donna meno integrata nella società, meno “rispettabile” e i cui atteggiamenti possano apparire meno “irreprensibili”: riceverebbe la stessa onda generosa di supporto e solidarietà?
Una buona storia ha le sue costanti, le sue stereotipie, le sue certezze, le sue semplificazioni: lo storytelling può essere così accecante nella sua perfezione da rischiare di lasciare in ombra tutto quello che non si allinea. Ecco perché mi resta il dubbio che l’apoteosi di una vittima, per quanto in buona fede, possa produrre il paradossale effetto di fare un torto ad altre vittime; a tutte quelle non pienamente conformi al modello che l’opinione pubblica ha scelto di innalzare a simbolo. Forse, come sostengono anche altre attiviste, ci si può astenere dall’utilizzo della parola eroina per Gisèle Pelicot: certo non per sminuirne i meriti, ma per lasciare la libertà alle altre vittime di assomigliare solo a sé stesse.