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uello dell’antimafia è uno scenario affollato che potrebbe giustificare qualche contro-polemica ‘alla Sciascia’. Nel complesso, penso che l’antimafia rappresenti una grande risorsa civile e istituzionale del paese, il lascito positivo di un drammatico passato” scrive lo storico Salvatore Lupo in Mafia (pubblicato dall’editore del Tascabile, Treccani Libri, 104 pagine, 10 euro), introdotto da una riflessione di Gaetano Savatteri.
Riflettere sulla memoria della lotta alla mafia non è semplice. La prima cosa che si può fare è parlarne con chi è rimasto, come Tina Montinaro, la moglie del caposcorta del giudice Falcone, con cui parlo nella sua abitazione a Palermo, mentre versa il caffè. Ha trascorso gli ultimi trent’anni a lenire il dolore, muovendosi sul confine che delimita la memoria personale, quella pubblica e la Storia. “Alla notizia della strage scappai in Questura. La sera del 23 maggio 1992, tornando a casa, trovai una fila di persone davanti al portone che mi sorprese. I palermitani si erano assuefatti alla violenza mafiosa. Quel giorno s’indignarono e qualcosa iniziò a cambiare. I funerali di mio marito Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo e Vito Schifani scossero la coscienza della città, della Sicilia e dell’Italia, segnando una reazione civile”.
“Nel 1992 Antonio aveva trent’anni e non era un eroe – dice –. Proveniva dalla Questura di Bergamo e chiese l’aggregazione per il Maxiprocesso a Cosa nostra. Ammirava Falcone e aveva giurato alla Repubblica italiana. Scelse consapevolmente l’impegno della protezione del magistrato più esposto nella lotta alla mafia e lo mantenne dopo il preavviso di morte del fallito attentato all’Addaura. Non cambiò idea neanche quando lo Stato tolse l’indennità di rischio”.
Fino al 1997 Tina ha coltivato in forma strettamente privata la rielaborazione di una ferita intima e tuttora aperta della storia repubblicana. Quando ricorda il marito, non dimentica mai chi condivise la stessa sorte, come fosse un’orazione collettiva. I magistrati e gli agenti uccisi erano uomini concreti e fallibili. La beatificazione è una maledizione, perché rende queste figure estranee a noi. Invece erano “semplicemente” persone che sapevano commisurare la paura con il coraggio, che presero atto della situazione in cui si trovavano fino all’ultimo e seppero agire come le circostanze richiedevano.
“Trentenne con due figli piccoli mi sono ritrovata dentro a una vicenda molto più grande di me – riflette Tina –. Sono cresciuta in fretta. A trent’anni di distanza dalla stagione del terrore stragista manca ancora una piena verità. Ti rendi conto che esistono dinamiche difficili anche solo da immaginare. Dopo gli anni del silenzio, ho dovuto mettermi in gioco in prima persona, perché lo Stato non ha saputo coniugare la giustizia con la memoria”. Dove sono finiti i resti della macchina divelta nell’attentato? Il viaggio in Italia di Tina Montinaro è cominciato, ponendo questa domanda che l’ha spinta fino all’autoparco della Polizia di Stato a Messina: “Nelle lamiere della vettura, la Quarto Savona 15, sono rimaste tre vite, tre passioni e tre famiglie. Non mi hanno potuto mostrare il poco che restava del corpo di Antonio. Guardando l’auto, nessuno può essere indifferente”.
Dove sono finiti i resti della macchina divelta nell’attentato? Il viaggio in Italia di Tina Montinaro, moglie del caposcorta del giudice Falcone, è cominciato ponendo questa domanda.
Senza questa iniziativa personale e la successiva collaborazione dei vertici della Polizia, un simbolo fondamentale per comprendere la portata e il significato della strage di Capaci verserebbe in stato di abbandono. Solo cinque anni fa la teca con il groviglio di rottami della Quarto Savona 15 ha trovato una collocazione a Palermo. Non scordiamo che la prima statua in memoria di Falcone è stata eretta in America a Quantico nell’accademia dell’Fbi, nel 1994. In Italia per avere una lapide commemorativa al ministero di Giustizia si è aspettato fino al 2002.
Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia…finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca
scrisse Gesualdo Bufalino nella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie.
Scavando nelle storie e memorie dei sopravvissuti alla Tombstone italiana, che spesso hanno pianto in solitudine i “propri” morti per la nazione, si trovano le tracce della resistenza descritta da Bufalino. Una resistenza che si fonda sulla ricerca e conoscenza dei fatti. Cosa nostra, distribuendola dappertutto, ha reso la morte il suo volto pubblico. Mostrandola ostentava il suo potere. Dopo la scomparsa di De Mauro, dal 1979 in poi gli omicidi eccellenti (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e quanti altri) hanno lasciato una traccia in ogni strada. Cosa nostra si era impossessata della morte e della possibilità di darla.
“Quale impasto sociale e umano ha potuto tollerare che tre kalashnikov sparassero a Cassarà sulle scale di casa, mentre la moglie con la bambina piccola urlava, bussava alle porte per salvarsi e nessuno le aprì – osserva l’ex giornalista de L’Ora e scrittore Piero Melati –. Quella dell’autobomba di Chinnici che città è? Leggevamo nei giornali ‘Palermo come Beirut’ sul terrazzino della casa di famiglia, mangiando il gelo di mellone. Poi ti abitui a tutto, le dittature sono così. La fine è solo l’annientamento, perché arriviamo a tollerare tutto. Vedo una relazione con la parola totalitarismo e persino con il regime concentrazionario.”
Prima dell’attentato più eclatante su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso Palermo, con la potentissima deflagrazione di oltre cinquecento chili di tritolo che creò un cratere, l’omicidio (29 luglio 1991) di Libero Grassi, imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente gli estorsori, animò una rivolta. Apparvero i lenzuoli bianchi sui balconi e le scritte contro i boss sui muri. La città cominciò a ribellarsi, ad aprire una strada per il futuro, e l’Italia a percepire quanto la questione sia parte della biografia nazionale, non una storia solamente siciliana.
Scavando nelle storie e memorie dei sopravvissuti alle stragi, che spesso hanno pianto in solitudine i “propri” morti per la nazione, si trovano le tracce della resistenza a Cosa nostra.
Il 30 gennaio 1992 alla conclusione del Maxiprocesso, istruito dai giudici del pool antimafia di Palermo, con la condanna all’ergastolo in Cassazione della cupola di Cosa nostra, fu confermata l’esistenza di un’organizzazione criminosa caratterizzata da una struttura verticistica e dall’aggregazione di diversi nuclei operativi uniti dalla ricerca di profitti illeciti con metodi di sopraffazione e intimidazione. Questo è stato uno spartiacque decisivo sul fronte dell’opinione pubblica, giudiziario e in parte di quello politico. Non si poteva più negare la sua esistenza ed erano state gettate le fondamenta del movimento che possiamo chiamare antimafia, affermatosi nella prima metà degli anni Novanta. La questione mafie entrò finalmente nell’agenda nazionale.
All’inizio del decennio degli anni Ottanta ancora si metteva in discussione l’esistenza stessa della mafia, spesso definita come una semplice associazione per delinquere, quando Rocco Chinnici, padre del futuro pool antimafia, oltre ad aver definito l’essenza del potere di Cosa nostra, ne aveva delineato l’unitarietà e l’interdipendenza fra le famiglie mafiose. Il fenomeno necessitava di una lettura non più frammentaria. Scrisse Falcone un anno prima della sentenza definitiva della Cassazione relativa al Maxiprocesso: “È risultato di grande rilievo che sia stata autorevolmente confermata dai giudici di secondo grado, l’esistenza e l’unicità di un’organizzazione criminale che, per numero dei suoi membri e per pericolosità, non ha uguali nel mondo occidentale. La precisazione è d’obbligo: finalmente si è giunti a una incontestabile identificazione della natura e delle dimensioni del ‘nemico’ da combattere”.
Dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Chinnici, a Palermo il decennio di lotte che aveva prodotto il Maxiprocesso entrò in una fase di reflusso o “normalizzazione.” Il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura per la carica di guida dell’Ufficio Istruzione, al posto di Caponnetto, indicò per questione d’anzianità Antonino Meli, scartando la candidatura autorevole di Falcone non raramente accusato di protagonismo giudiziario. L’apice della stagione dei veleni fu l’attentato mancato all’Addaura: 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa, presa in affitto da Falcone, e il mare. Il giudice, che aveva come ospite la collega Carla Del Ponte, qualificò come raffinatissime le menti che lo avevano progettato e fu l’anticipazione della strage di Capaci.
Dopo la conferma in sede giudiziaria della validità dell’impianto accusatorio del maxiprocesso con il progressivo smantellamento del pool, l’azione repressiva del fenomeno mafioso perse di slancio e d’efficacia. Alla sentenza del Maxiprocesso del 16 dicembre 1987, che inflisse 2665 anni di carcere ai mafiosi, Falcone segnalava invece la necessità di un ulteriore salto di qualità nella strutturazione del lavoro antimafia. Un’urgenza che lo portò da Palermo a Roma, dove ricoprì la carica di Direttore generale degli affari penali del Ministero di giustizia, subendo violente accuse dalla stessa magistratura come se avesse ceduto alle lusinghe della politica. “Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini. Riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto, rendendo ancora più pericolosa la sua vita”, ha sottolineato la sorella Maria, che attraverso la Fondazione Falcone ha realizzato numerose iniziative, innanzitutto con i giovani, per trasmettere il senso di questo sacrificio.
Nelle stanze del museo Falcone-Borsellino si trova la prima banca dati relativa alla criminalità organizzata, uno strumento chiave per assemblare e condividere le informazioni tra gli investigatori.
A Palermo è nato un luogo prezioso per ricostruire la memoria di queste esistenze con i documenti e gli atti che determinarono quella stagione. Varcando la soglia del Palazzo di giustizia e percorrendone i lunghi corridoi, si scopre la cura con la quale Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto all’attentato del 29 luglio 1983 per uccidere Chinnici e successivamente collaboratore tecnico informatico del pool antimafia, tutela il Museo Falcone – Borsellino.
Durante la visita si entra nelle stanze del bunker dei giudici arredate con le carte delle indagini e dei processi e loro oggetti personali. I luoghi sono fatti anche della materia di chi li animati, delle cose che sono accadute e la loro presenza si avverte forte. Come Tina Montinaro, Paparcuri evoca la fatica del fare memoria pubblica: “Questi uffici erano diventati una discarica di carte, nonostante si conoscesse il loro valore storico. Nel dicembre del 2015, l’allora presidente della Corte di appello e il Presidente della giunta distrettuale della ANM mi proposero di far rinascere questo spazio anche con la documentazione che avevo conservato nel periodo di lavoro condiviso con i giudici”.
Paparcuri, che dopo il doloroso recupero fisico e psicologico dalle ferite della strage Chinnici era stato assegnato alla Sezione contro ignoti, collaborò con il pool dal 16 aprile 1985: “Quando dal ministero della Giustizia mandarono al Tribunale i computer e altre apparecchiature tecniche, nessuno aveva le competenze per usarli e furono messe da parte. Falcone e Borsellino notarono le mie capacità e mi dissero: ‘Ti piace l’informatica? Aiutaci a digitalizzare gli atti’”. Nelle stanze del bunker si ammira la prima banca dati relativa alla criminalità organizzata, uno strumento chiave per assemblare e condividere le informazioni tra gli investigatori, rendendole velocemente reperibili. Chinnici dovette appellarsi a Sandro Pertini per vederla realizzata e arrivò solo in seguito al suo assassinio: “È necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica urgenza che abbiamo rappresentato anche al capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Questo centro di raccolta delle informazioni deve metterci in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci tra di loro”.
Nel 1979, quando Falcone arrivò a Palermo nella sesta sezione penale, ufficio istruzione, trovò in Chinnici una guida fondamentale. Il consigliere istruttore gli affidò inchieste complesse sulla mafia che riguardavano la nuova frontiera dell’eroina, il riciclaggio. Queste inchieste coglievano il sistema di relazioni proprio dell’organizzazione mafiosa. Solo in una visione complessiva e globale del fenomeno si possono studiare e approfondire le singole strategie di contrasto, ci ha spiegato innanzitutto Falcone. Follow the money era il suo metodo. Seguire le tracce dei soldi, perché il riciclaggio di denaro costituisce il cuore dell’attività mafiosa. Falcone inaugurò una strategia investigativa innovativa per l’Italia che rivoluzionò la storia della lotta a Cosa Nostra.
Follow the money era il metodo di Falcone: solo in una visione complessiva e globale del fenomeno si possono studiare e approfondire le singole strategie di contrasto.
Nella prefazione di una raccolta di scritti e testimonianze di Chinnici, Borsellino ricostruì con queste parole la genesi del pool antimafia palermitano nel quale lavorò con Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta: Chinnici scelse uno per uno noi magistrati che, solo dopo la sua morte, avremmo costituito il cosiddetto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà e i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: poiché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro.
E ancora: Chinnici credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di un’idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Chinnici e ne realizzò il disegno.
Le memorie dirette di Paparcuri evocano la solitudine e le avversità che il pool affrontò. Il magistrato Leonardo Agueci, che sentì per l’ultima volta Falcone in una telefonata di ringraziamento per il sostegno della candidatura a Procuratore nazionale antimafia, le descrive nitidamente: “Dopo la morte c’è stata una grande corsa a rivendicare la vicinanza da parte di chi lo aveva ostacolato all’interno dello stesso Palazzo di giustizia palermitano. Falcone aveva garantito un salto di qualità a tutta l’attività giudiziaria e suscitava invidie. Lui rese la mafia un fatto nazionale e aveva stabilito relazioni internazionali. Gran parte della magistratura lo attaccò, perché si sosteneva che volesse sacrificare l’autonomia dei Pubblici ministeri, accentrando le indagini sulla materia. In realtà lui, nello spirito collaborativo del pool, voleva rendere più coeso e funzionale il sistema per opporsi efficacemente alla mafia. Gli strumenti che lui aveva prefigurato si sono concretizzati dopo la strage di Capaci”.
Nel nome della lezione di Chinnici, Falcone e Borsellino trovarono una intesa unica nella individuazione dell’obiettivo, della comune analisi della realtà e degli strumenti operativi necessari. Le esperienze vissute insieme cimentarono l’amicizia capace di sopravvivere alla morte. Nel racconto Paparcuri si sofferma giustamente sulla figura di Francesca Morvillo, che non era soltanto la moglie di Falcone, ma una magistrata di grande preparazione, capacità e straordinaria umanità. Nel bunker colpisce un suo biglietto: “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me, così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore”. Nella stanza di Falcone è appesa una lettera emblematica, nella quale il giudice spiegava così al Rettore dell’Università di Palermo le ragioni della rinuncia a un impegno di carattere accademico (anno 1988/’89) e formazione per gli studenti: “L’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa, però, rischia di snaturare gli scopi di questo corso che dovrebbe costituire, non già passerella per chicchessia, ma mezzo di approfondimento serio di una materia la cui importanza è superfluo sottolineare. E già dai primi articoli di stampa riaffiora, anche stavolta in maniera distorta e strumentale, la solita polemica sui professionisti dell’antimafia e sui riconoscimenti di cui costoro godrebbero”. Falcone concluse il messaggio, asserendo che sarebbe stato meglio mettersi da parte, con la speranza che servisse a qualcosa, per non distogliere l’attenzione dai problemi reali con le solite polemiche su mafia e antimafia. Questo era il clima che lo accompagnò verso la fine violenta dell’esistenza. Le polemiche, richiamate dal giudice, ebbero un caposaldo nell’interpretazione, spesso strumentale, di un articolo che Leonardo Sciascia scrisse nelle colonne del Corriere della sera. Il suo utilizzo dell’espressione professionisti dell’antimafia era profetico in alcuni sensi, ma come ricordò Borsellino, quel giorno Falcone iniziò a morire.
L’utilizzo da parte di Sciascia dell’espressione professionisti dell’antimafia era profetico in alcuni sensi, ma come ricordò Borsellino, quel giorno Falcone iniziò a morire.
Che cosa è diventato e quali sono le prospettive del movimento sociale e culturale nato dalla reazione al terrorismo di stampo mafioso? “Questa domanda mi suscita un senso di disorientamento – testimonia Tina Montinaro – seppure dopo le stragi sia stato realizzato un cambiamento reale. Il vestito della legalità, indossato da molte figure che sono state erroneamente elette a simboli antimafia, ha aperto le porte anche ai disonesti e ha fatto perdere lungo la strada la partecipazione di molte persone che avevano interessi sinceri. L’antimafia deve recuperare credibilità ed energia, perché quando la mafia non spara sembra che non esista, mentre permea sempre a maggiori profondità i gangli vitali della società”.
Nei due saggi che compongono il volume di Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo tra i massimi studiosi della materia, tesse il mosaico dell’evoluzione del fenomeno mafioso dall’unità d’Italia all’inedito periodo stragista. “Già in passato le cosche o famiglie mafiose si erano date strumenti di coordinamento, ma la Commissione creatasi nei primi anni Sessanta sul modello statunitense divenne, sotto la guida di Luciano Liggio prima e poi di Salvatore Riina, cioè dei cosiddetti corleonesi, un potere a sé stante che pretendeva di dettare legge non solo ai singoli gruppi di mafia, ma anche agli interlocutori della politica e degli affari”.
Un aspetto interessante e decisivo che lo storico analizza, è la novità della sfida terroristica di Cosa nostra. Lupo illustra con precisione come il terrorismo entrò a far parte degli strumenti utilizzati dalla mafia per contrattare con le istituzioni e gli esiti controproducenti sul lungo termine: “Quella dei primi anni Ottanta, più che a una ‘guerra di mafia’, potrebbe in questo senso essere assimilata a un golpe perpetrato dalla Commissione, che in quella fase sembrò credere veramente di poter somigliare a un contro-Stato nemmeno tanto sotterraneo, più forte dello Stato vero perché
di esso più pronto e spietato”. Una scelta che costrinse lo Stato a una reazione altrettanto inedita che non riguardò più soltanto i magistrati al fronte, ma sollevò l’opinione pubblica. Dal disordine e dalla rottura creati dalla strategia dei boss corleonesi emerse la svolta delle collaborazioni con la giustizia, come quella di Buscetta, che offrirono uno spaccato razionale di strutture, dinamiche, interessi e alleanze di Cosa nostra.
Dal disordine e dalla rottura creati dalla strategia dei boss corleonesi emerse la svolta delle collaborazioni con la giustizia.
Dopo la prima serie di delitti eccellenti, culminati con la fine di Carlo Alberto dalla Chiesa, andato a morire a Palermo senza alcun sostegno dello Stato, l’Italia si è dotata della legislazione che definisce come reato l’organizzazione di tipo mafioso. Dopo le stragi la repressione sul versante militare è stata alimentata dagli arresti dei latitanti storici da Riina a Provenzano. È arrivata la carcerazione speciale per i detenuti di mafia ed è rimasto il nodo oggi più che mai determinante per intelleggere l’influenza ed estensione delle mafie del “concorso esterno”, ovvero la possibilità di colpire figure che favoriscono le organizzazioni mafiose.
La fine dello stragismo non equivale a quella della mafia, bensì l’ha ricondotta a una dimensione carsica simile alla sua lunga storia che pone sfide nuove anche all’antimafia. “La mafia è nata per convivere con lo Stato. L’anomalia sono le stragi non il suo silenzio. La mafia è una storia di relazioni intessute con la politica, l’imprenditoria e i cittadini. Essa ha vissuto sempre di questi legami che non necessitavano dell’attacco allo Stato. Quella è stata una parentesi che ha provocato la reazione delle istituzioni”. A parlare è la procuratrice di Palermo Marzia Sabella, la prima donna a capo di uno degli uffici giudiziari più strategici del Paese, protagonista dell’inchiesta che portò all’arresto di Bernardo Provenzano. Nelle librerie è arrivata da pochi giorni la sua interessante ricostruzione della figura complessa ed emblematica di Serafina Battaglia che ruppe, dopo l’assassinio nel contesto di una faida mafiosa del marito e del figlio, il legame con Cosa nostra e affidò la propria testimonianza contro la mafia al giudice Cesare Terranova, pioniere negli anni Sessanta delle indagini in materia. Il titolo è Lo sputo ed è pubblicato da Sellerio.
Nella stanza di Paolo Borsellino posa lo sguardo sul passato, presente e futuro di Cosa nostra. Le chiedo qual è la traccia che vi ha lasciato il pool antimafia. “Falcone e Borsellino con il Maxiprocesso hanno osato. Il successo ha consistito proprio nella capacità di osare, di comprendere dei fenomeni, o meglio la cosiddetta precomprensione dei fenomeni. Cosa nostra non faceva solo morti, creava potere, relazioni con la politica e l’economia. Loro due sapevano leggere ciò che gli accadeva intorno e sono riusciti a riportare tutto ciò in chiave giudiziaria. Grazie a loro non ci muoviamo più nell’ignoto. Oggi abbiamo le strade spianate, a differenza di ciò che hanno dovuto inventare”.
Sabella giunse a Palermo nel 1993 nella condizione di emergenza post Capaci e Via D’Amelio. Il clima intorno ai magistrati era cambiato. Nessuno si lamentava più per il rumore delle sirene delle scorte o proponeva di trasferirli a vivere fuori dalla città, perché la loro presenza incuteva timore per eventuali attentati: mettevano a rischio la sicurezza dei cittadini. Le parole di Sabella lo testimoniano: “Dopo le stragi lo Stato ci ha dato ciò che serviva: forze dell’ordine specializzate, i computer, le macchine blindate, la carta per stampare… Se la mattina dicevi di sentire caldo, l’indomani vedevi montate le pale per l’areazione delle stanze. Nelle indagini di mafia s’incontrano sempre delle difficoltà, ma nel 1993 ho trovato un’autostrada che continuiamo a percorrere”. Quale? “All’inizio degli anni Novanta andavamo a sostenere i processi con i faldoni del Maxiprocesso, perché quella sentenza passata in giudicato dimostrava l’esistenza di Cosa nostra. Diversamente in ogni procedimento avremmo dovuto ricominciare da capo. Tuttora se vai a fare un processo, trovando un atto firmato da Giovanni Falcone ti commuovi, ne apprezzi la lungimiranza. Insegnava a come giocarsi le carte, la strategia del fare il magistrato inquirente. Recentemente ho rivisto qualche sua archiviazione che con sapienza evitava una successiva assoluzione”.
La mafia è nata per convivere con lo Stato. L’anomalia sono le stragi, non il suo silenzio.
La disarticolazione dei vertici di Cosa nostra ha dato il senso più tangibile e visibile della reazione dello Stato. Tra le figure più iconiche dell’organizzazione resta latitante Matteo Messina Denaro, condannato in primo grado come mandante delle stragi, che deve continuare a godere di una potente rete di protezione. Per anni è rimasto sullo sfondo dell’attenzione generale, quando il suo ruolo era già dirimente. Sabella si è occupata anche della sua ricerca e dice: “Va arrestato indipendentemente dal peso specifico attuale, perché lo Stato non può permettersi di non esercitare le proprie funzioni. È il latitante più importante rimasto libero. La sua latitanza rafforza Cosa nostra, perché continua a mantenere quell’aura seppure ridotta e indebolita d’imprendibilità e invincibilità. È un capo sempre più assente che ha difficoltà a comunicare. Negli anni passati si era avvalso per la gestione del territorio di soggetti di massima fiducia soprattutto famigliari. Persone con cui non aveva bisogno neanche di parlare. La sua famiglia è stata decimata dall’attività investigativa”.
E ancora: “All’interno delle dinamiche mafiose è difficile oggi determinare il ruolo di Messina Denaro. Nei processi è emerso che, pur non assumendo la carica di capo della provincia di Palermo, ricoprì la figura di consigliere. Il suo pensiero aveva un peso specifico nelle decisioni dei palermitani. Una sentenza gli ha attribuito il ruolo direttivo anche nei confronti dell’associazione palermitana. Nelle regole di mafia lui non è il capo di Palermo. Rimane il capo della provincia di Trapani e una figura carismatica su Palermo”.
Cosa nostra esercita sempre, seppure in modo meno eclatante del passato, il caratteristico controllo del territorio con le estorsioni che servono anche per il mantenimento delle famiglie dei detenuti dell’organizzazione. Ha ripreso il controllo delle piazze di spaccio che aveva demandato. La struttura rimane verticistica con le proprie regole ataviche. Lo dimostra il tentativo di ricomporre la commissione provinciale. Esistono ancora i mandamenti con i rispettivi capi e i capofamiglia.” Abbiamo arrestato e riarrestato i capi storici di Cosa nostra – spiega Sabella –. L’affinamento dell’attività investigativa non dà più il tempo di ristrutturare l’associazione, nonostante sopravviva, faccia le estorsioni, cerchi di entrare nelle competizioni elettorali. Gli omicidi sono rari. Non esiste una Commissione che possa deliberare sui delitti eccellenti. I tentativi di ricomporre la Commissione provinciale sono stati stroncati”.
I nodi del passato non sono stati tutti sciolti. La strage di via D’Amelio è il più grave depistaggio scoperto nella storia della Repubblica. Le modalità inedite per Cosa nostra della strage di Capaci lasciano aperte le porte alle letture degli interessi esterni all’organizzazione criminale convergenti nella fine di Falcone. “Il depistaggio delle indagini sull’attentato per eliminare Borsellino è una certezza – afferma Sabella –. Bisogna lavorare per determinare la ragione. Era solo l’interesse di Arnaldo La Barbera nel dare una qualsiasi risposta rapida e colpevoli al Paese o c’è dell’altro? Una risposta va data”. Quali sono le prospettive? “Non so quanto la macchina giudiziaria a distanza di trent’anni possa ricostruire tutto – conclude la Procuratrice –. Mi auguro che prima o poi avvenga. A chiusura dei processi ci vuole una commissione parlamentare per la verità storica. Non possiamo accontentarci di qualche sentenza fatta in extremis che non sia soddisfacente per capire quanto è avvenuto in quegli anni e chi c’era dietro”.