I numeri della contea di Miami-Dade sono stati il primo segnale che qualcosa non andava. Sulle prime, il crollo verticale di Joe Biden è sembrato dipendere dalle oligarchie latino-americane in esilio, con annessi discorsi sul conservatorismo inscalfibile dei votanti cubani, ma andando avanti nella serata è stato chiaro che si trattava di un fenomeno più vasto dai contorni ancora vaghi. In città Biden stava andando peggio del previsto tra i votanti latino-americani e neri, mentre Trump macinava punti nelle zone rurali. L’umore non ha mai raggiunto i livelli drammatici di quattro anni prima, ma per tutta la serata delle elezioni è circolata una sensazione di delusione al limite del disastro. Le vittorie in Georgia e in Arizona e il notevole distacco nei voti popolari non hanno dissipato le domande febbrili di molti: com’era potuto succedere dopo tutto quello che aveva fatto Trump; come avevano fatto i Democratici a mandare tutto all’aria; chi mai, dopo aver sopportato le sofferenze del 2020, poteva voler ripetere tutto da capo; come potevamo rapportarci a queste persone per andare avanti?
Viviamo in una società? Se consideriamo quest’anno brutale e ingrato, è facile pensare di no. Nel suo ottimo libro uscito di recente, In the Ruins of Neoliberalism, Wendy Brown prende sul serio la celebre dichiarazione di Margaret Thatcher che “non esiste la cosiddetta società. Esistono individui uomini e donne, e le famiglie” e la prende seriamente come fosse un programma politico più che una descrizione empirica. Senza la sfera sociale, ovviamente, non c’è alcun bisogno di protezione sociale: è il neoliberalismo che conosciamo bene. Ma, osserva Brown, la sfera sociale è anche l’ambito principale delle gerarchie e dunque il luogo dove si organizza la resistenza alle gerarchie:
La sfera sociale è il luogo dove cittadini provenienti da contesti e dotati di risorse profondamente inique possono riunirsi e pensare insieme. È il luogo dove i beni pubblici permettono di emanciparsi politicamente e di riunirsi (non soltanto di essere assistiti) e dove le diseguaglianze prodotte storicamente diventano evidenti nella disparità di accesso politico, voce e trattamento, ma anche il luogo dove queste disuguaglianze possono essere in parte affrontate.
La sfera sociale è un livello della realtà; è il tessuto dei rapporti umani – rapporti effimeri o duraturi, istituzionalizzati o consuetudinari, gerarchici o egualitari – non automaticamente riducibile alla sfera economica, sebbene ne sia intrecciata. Per capire la sfera sociale, pensate alle scuole, luoghi di segregazione e oppressione, ma anche di dinamismo sociale e appelli alla giustizia; o ai quartieri, dove le persone si aggregano trovando una voce, ma al tempo stesso si danno relazioni di dominio e di sfruttamento. O pensate al vostro coinquilino o collega – a tutti i modi in cui la vostra conoscenza, il vostro rapporto, il vostro legame non è riducibile alla condivisione dello stesso padrone di casa o datore di lavoro. Se la società non esiste, allora rimarcare e resistere all’ingiustizia è semplice isteria – continua a piangere, lib. “L’attacco neoliberista alla sfera sociale” scrive Brown, “è il segreto per generare una cultura antidemocratica dal basso, mentre si costruiscono e legittimano forme statali di potere antidemocratico dall’alto. Tra le due esiste una sinergia profonda”.
Questo spiega certamente alcuni aspetti chiave del fenomeno Trump e in particolare la malevolenza che contraddistingue il trumpismo da cima a fondo, con il rifiuto del dovere sociale di riconoscere l’altro. Ma la dichiarazione di Brown racchiude un paradosso: di che sostanza si nutre questa “struttura antidemocratica”, se non della sostanza sociale? Un nuovo partecipante deve ereditare le abitudini, i modi di pensare e di parlare, dei più anziani. Come può un popolo atomizzato, privo di società, condividere una cultura, qualcosa cioè che si propaga lateralmente? Una popolazione desocializzata non sarebbe troppo divisa perché ciò possa succedere? Le condizioni non sarebbero troppo sterili?
Sterile non è il primo aggettivo che viene in mente per descrivere il nostro habitat condiviso, che è invece umido e infetto. Se gli americani, per citare il famoso studio di Robert Putnam negli anni Novanta, “giocano a bowling da soli”, non sono forse connessi in altri modi? Ovviamente conosciamo la risposta – è praticamente l’unica cosa che conosciamo. Tra scuole prive di fondi e quartieri segnati dalla gentrificazione, dalla mancanza di investimenti, o da entrambe le cose, esistono ancora residui della sfera sociale – privatizzata, digitalizzata, politicizzata. La noia di Facebook e Twitter potrebbe convincerci del contrario, ma cos’altro sono i social media se non l’ultimo rifugio della società?
Le piattaforme digitali ovviamente stanno assorbendo da anni la vita sociale, ma l’isolamento forzato e spaventoso del 2020 ha ingigantito il processo. Le persone si riuniscono, parlano, provano a comprendere il mondo e a sentire una certa agency, ossia la capacità di modificarlo. Da questo sostrato, sono emersi il trumpismo e i fenomeni associati. E anche questi fenomeni hanno caratteristiche distintamente, marcatamente sociali: il ruolo dei comizi di massa nella campagna di Trump, per esempio, indica come raccogliere e condividere un’emozione intensa sia importante nell’esperienza dei partecipanti quanto in quella dell’oratore. La diffusione di false notizie di destra nelle catene su WhatsApp è stata proposta come spiegazione parziale dello spostamento di voti a favore di Trump tra i latino-americani nel 2020. Persino il culto di QAnon, per quanto disgustoso, funziona alla perfezione come salotto online dove milioni di individui collaborano freneticamente per dare al mondo una qualsiasi forma coerente. Il loro motto “Where We Go One, We Go All” – dove va uno, andiamo tutti – è solo una versione più sinistra e malata di “se attacchi uno attacchi tutti”.
Lottare per uno sconosciuto è un’idea magnifica; lottare per qualcuno che conosci è il modo per vincere.
Commentare un post Facebook oppure prendersi la COVID allo stadio ascoltando Donald Trump Jr. che chiacchiera con la folla non è equiparabile a fare il segretario di un’associazione genitori-insegnanti o il rappresentante sindacale. A dire il vero, dove va un seguace di Q, vanno solo pochi altri. Ma persino una forma ridotta di socialità è una connessione sufficiente per creare un’ideologia e, in certi casi, azione.
Il discorso politico non raggiunge gli individui come punti di una rete economica, dirigendoli verso il partito o il politico con la piattaforma che meglio si adatta alle loro preferenze astratte. Li raggiunge, invece, nel contesto di mondi e vite specifiche. E se le dinamiche di classe formano la base dell’azione politica, devono comunque manifestarsi nell’organizzazione della vita sociale, che a sua volta diventa vera e propria cultura. Questo spiega in certa misura come mai così tante persone abbiano potuto votare per Trump e il suo partito, nonostante nei sondaggi una vasta maggioranza appoggi gli obiettivi politici progressisti.
Come ha osservato Alex Pareene a novembre su New Republic, la promessa di un salario minimo di quindici dollari l’ora fatta da Joe Biden vale poco per un dato elettore, se chiunque intorno a lui pensa che Biden sia un pedofilo e un truffatore, e Trump il paladino della classe lavoratrice. Le chiacchiere del primo sul salario minimo suoneranno ipocrite, anche se le ripete mille volte. La situazione è ancora più semplice di così – se nella tua esperienza del mondo non c’è più alcuna traccia materiale del concetto di potere del popolo, e nessuna traccia materiale di quel potere ha migliorato in qualche modo la qualità di vita tua e dei tuoi vicini, è naturale che queste promesse sembrino false. Anche togliendo gli strati in eccesso di teorie cospirazioniste e lamentele isteriche, le parole dei politici funzionano soltanto se trovano un riscontro nel vissuto della realtà sociale.
L’annientamento di quelle istituzioni che in passato davano una dimensione di realtà sociale alla classe lavoratrice – sindacati, quartieri abbordabili in città, un’equa distribuzione del rischio da parte della previdenza sociale – significa che là fuori non c’è nessuno che si possa trattare da salvatore della patria, almeno a livello delle politiche elettorali nazionali. Se il grande socialista americano Eugene Debb tornasse dalla tomba troverebbe scarso consenso. Gran parte della classe lavoratrice continua a esistere, ovviamente, ma solo come categoria economica – non sociale. Allora non è un caso, come ha suggerito il saggio Mike Davis, che i risultati migliori ottenuti dai democratici si intreccino alle storie di attivismo politico: la deposizione del corrotto repubblicano Joe Arpaio in Arizona, gli scontri con la polizia a Minneapolis, il rifiuto di accettare i tagli ai sindacati a Philadelphia.
Le parole dei politici funzionano soltanto se trovano un riscontro nel vissuto della realtà sociale.
Ma nell’assenza diffusa di questi movimenti e istituzioni sociali, le alternative emerse possono generare ostilità attiva nei confronti delle politiche egalitarie. Nella Rio Grande Valley in Texas, per esempio, dove Trump ha ottenuto alcune delle vittorie più marcate, l’assenza di qualunque organizzazione democratica ha permesso agli attivisti conservatori locali di guadagnare terreno. (Certo gli sforzi primaverili del Partito Democratico di reprimere l’eroica campagna per il Congresso condotta a livello locale da Jessica Cisneros contro un senatore in carica amato dalla polizia di frontiera non hanno aiutato.) Come ha riportato il Washington Post riguardo alle attività di un leader repubblicano del posto,
Aaron Peña e la sua famiglia hanno cambiato partito nel 2010, aiutando a formare le basi di una rinascita popolare repubblicana nella Rio Grande Valley. Hanno organizzato gruppi pro-armi, gruppi di genitori degli Scout, gruppi di studio della Bibbia e hanno dato il via a una branca del College Republican per la formazione dei candidati conservatori al governo. Hanno incoraggiato i gruppi parrocchiali a votare per i valori anziché per i partiti, promuovendo in particolare istanze antiabortiste e mobilità sociale in una delle regioni più povere e più religiose del paese.A volte i Repubblicani si fanno beffe di Obama per il suo passato di attivista a livello di comunità”, ha detto Peña. “Ma li correggo perché lui ha avuto l’idea giusta. Qui abbiamo applicato quel manuale Democratico”.
In un’altra contea, un altro attivista repubblicano ha spiegato: “È difficile essere repubblicano qui, perché sei l’eccezione”. Difficile, ma non impossibile: i suoi “vicini sono la polizia di frontiera e gli agenti della dogana, veterani e lavoratori nell’industria del petrolio e del gas, che a suo parere sono conservatori per natura. Per di più molti latino-americani qui si ritengono bianchi e non si riconoscono in altra identità pan-etnica che quella texana”. Se non ci si rifà alla dimensione della vita quotidiana, affinità vaghe e astratte come “latino-americano” o “lavoratore” impallidiscono al confronto dell’effetto sociale che ha un lavoro da appaltatore per una compagnia petrolifera o da agente della polizia di frontiera. Forse impallidiscono anche al confronto dei messaggi che ricevi nel gruppo a cui ti ha aggiunto tuo cugino.
Se non ci si rifà alla dimensione della vita quotidiana, affinità vaghe e astratte come “latino-americano” o “lavoratore” impallidiscono al confronto dell’effetto sociale che ha un lavoro da agente della polizia di frontiera.
Nelle aree del paese dove è più forte il peso della classe lavoratrice, le organizzazioni repubblicane hanno sfruttato la socialità esistente e l’hanno investita di una carica reazionaria mentre i democratici sopravvivono grazie a “norme” anacronistiche e già esistenti, quasi un’eredità spesa al ribasso. Basti pensare a come il Congressional Black Caucus ha sostenuto Eliot Engel, lo sventurato parlamentare bianco in carica nel Bronx, sfidato da Jamaal Bowman: un tentativo detestabile (e fallimentare) di schierare l’alleanza fra ranghi locali neri e leadership di partito, approfittando delle vittorie della lotta per i diritti civili e del New Deal, per proteggere la leadership da qualunque responsabilità proprio nei confronti del genere di movimenti sociali che avevano ottenuto quelle vittorie. Questo non significa che i Repubblicani sono diventati, o diventeranno, “il partito della classe lavoratrice”. Significa che quel partito non esiste – nemmeno nella pallida forma offerta storicamente dai Democratici, certo non dopo la sconfitta di Bernie Sanders lo scorso inverno. In effetti, Eugene Debb è tornato dalla tomba – ma non ha funzionato.
La tromba socialista, bisogna ammetterlo, in gran parte del paese ha squillato poco. Ma in alcuni posti invece l’ha fatto con forza: nei posti dove sacche di organizzazioni già esistenti l’hanno accolta e amplificata. Nel Queens, la Bangladeshi Tenant Union e la sua lotta contro i locatari negligenti e gli affitti sproporzionati è diventata il volto nazionale della richiesta di Sanders per un canone equo e i diritti degli inquilini. In Iowa, un immigrato etiope impiegato in uno stabilimento sindacalizzato di lavorazione suina ha fatto campagna per Sanders ai suoi colleghi in amarico (erano anche i suoi vicini di casa), ottenendo una vittoria nel caucus del suo posto di lavoro, uno dei primi della zona a votare per le primarie, dando così il tono al resto della serata. Tra i votanti latino-americani in tutto il paese, ma in particolare in California, la campagna di Sanders si è innestata su reti organizzative già esistenti e ha assunto rilevanza per uno strato di persone solitamente poco inclini alla mobilitazione – segnando una netta distinzione rispetto al comportamento del resto del Partito Democratico. “Credo che gli altri candidati ci stiano trattando come ci trattano di solito, cioè come pedine” ha dichiarato Belem Orozoco, attivista e beneficiaria del DACA, al New Yorker. “Bernie ci vede… Non stiamo lottando per lui, stiamo lottando con lui”. Forse nessun gruppo ha incarnato questa logica meglio dei lavoratori dei casinò di Las Vegas, a cui il sindacato aveva inculcato così a fondo i principi di solidarietà da ignorare gli sforzi di applicare quel principio in modo limitato alla leadership di sindacato, aggregandosi invece a favore del candidato che considerava l’intera nazione come un grande sindacato da plasmare.
In Florida, i Dream Defenders – un’organizzazione radicale di giovani di colore che lottano per l’abolizione della polizia e del carcere (soprattutto privato) – si sono battuti sul territorio per Sanders e il loro cofondatore Phillip Agnew è diventato uno dei surrogati più in vista della campagna a livello nazionale. Agnew ha tenuto il miglior discorso pronunciato durante l’intero ciclo elettorale del 2020, il 24 gennaio in Iowa. In quell’occasione, prima ha chiesto ai membri del pubblico di prendersi per mano, se i loro vicini acconsentivano. Poi Agnew ha catechizzato:
Se siete cresciuti in una casa felice, stringetevi la mano. Se siete cresciuti in una casa poi non così felice, stringetevi la mano. Se vi siete mai chiesti dove avreste trovato il prossimo pasto, stringetevi la mano. Se siete mai stati molestati o infastiditi per strada, stringetevi la mano. Se vi hanno mai detto di smetterla di piangere, che le lacrime sono una crepa nella vostra armatura e un segno di debolezza, stringetevi la mano. Se vi siete mai ammalati e curati da soli oppure avete fatto finta di niente perché il conto poteva essere più doloroso della malattia, stringetevi la mano. Se rimanete svegli la notte chiedendovi se vostro figlio o vostra figlia torneranno a casa sani e salvi, stringetevi la mano…Ora alzatele… Ripetete dopo di me: con queste mani [con queste mani] ricostruiremo le nostre comunità [ricostruiremo le nostre comunità]. Con queste mani [con queste mani] libereremo la nostra gente dalle carceri [libereremo la nostra gente dalle carceri]. Con queste mani [con queste mani] lotteremo per una nazione di cui i nostri nonni e i nostri nipoti possano andare fieri [lotteremo per una nazione di cui i nostri nonni e i nostri nipoti possano andare fieri]. Con queste mani [con queste mani] costruiremo potere e cambiamento [costruiremo potere e cambiamento]. Con queste mani [con queste mani] faremo miracoli [faremo miracoli]. Adesso ripetete dopo di me: potere, cambiamento, miracoli [potere, cambiamento, miracoli]. Lo vogliamo [lo vogliamo], lo richiediamo [lo richiediamo], lo esigiamo [lo esigiamo] – ora [ora], ora [ora], ora [ora], ora [ora], ora [ora]. Ringraziate il vostro vicino.
La notte dei caucus in Iowa, mi sono ritrovato in un appartamentino di Somerville, in Massachusetts, zeppo di gente, una dozzina di amici, per fare phonebanking, le chiamate dell’ultimo minuto per trovare democratici in bilico e spingerli a varcare la soglia delle palestre delle loro scuole di quartiere finché erano in tempo. Qualcuno di noi era riuscito a convincere una persona a mettersi in macchina negli ultimi minuti disponibili – urlandogli “schiaccia su quell’acceleratore, dude” al telefono. Poi ci è toccata quella lunga, nervosa pausa prima di sapere com’era andata. Così abbiamo deciso di mettere il discorso di Agnes su YouTube. Ci siamo presi per mano quando l’ha chiesto, abbiamo ripetuto dopo di lui.
Perché la campagna funzionasse, doveva superare i contesti che l’avevano creata, diventare qualcosa di più grande della somma degli affittuari nel Queens, dei lavoratori degli hotel di Las Vegas, degli accademici di Somerville. Le parti da sommare in questo modo non erano sufficienti; Sanders ci aveva chiesto di “lottare per uno sconosciuto” e l’abbiamo fatto. Per la prima volta milioni di americani avevano sentito un messaggio di solidarietà politica radicale; alcuni potevano trovarvi un significato personale. In migliaia l’hanno ripetuto a qualcun altro.
Migliaia, ma non abbastanza. Non era stato ripetuto in un numero sufficiente di contesti dove poteva avere senso perché rispecchiava i fatti del mondo – e in particolare, è stato questo il dolore più grande, non è stato ripetuto abbastanza tra i membri della classe lavoratrice nera, senza la quale il socialismo americano è un progetto assolutamente impossibile. Siccome la classe lavoratrice nera si appoggia in prevalenza a un’organizzazione sociale composta dalle chiese, dall’impiego pubblico, dalle reti delle famiglie estese, dalle associazioni civiche – che in modo distinto legano i propri membri agli ingranaggi del Partito Democratico – il messaggio di Sanders e il suo sforzo organizzativo non potevano attecchire, in particolare tra i votanti più anziani per cui le forme di organizzazione di vecchia data sono importanti. Ricordo una campagna per il diritto alla casa a cui ho lavorato nel 2016 a New Haven insieme a un gruppo di membri neri di un sindacato, attivi in politica a livello locale. Seduti aspettando che iniziasse una riunione, chiacchieravamo in tre delle primarie. Uno, che lavorava come addetto alla manutenzione, era stato eletto come sindacalista ed era un membro attivo sia di una fraternity sia della parrocchia, si lamentava in modo affettuoso che sua figlia, al college, insisteva che votasse Bernie; feci dei versi incoraggianti. “Però non so” disse. “Io sono un democratico”. L’altra, un’addetta ai servizi di ristorazione e rappresentante sindacale, concordò. “I Clinton sono responsabili delle incarcerazioni di massa” disse. “Ma Bernie è pazzo”.
Il messaggio di Sanders non è stato ripetuto abbastanza tra i membri della classe lavoratrice nera, senza la quale il socialismo americano è un progetto assolutamente impossibile.
Per quanto sia più probabile che i membri della classe lavoratrice nera – in particolare dove l’organizzazione industriale è più avanzata – siano convintamente di sinistra rispetto a qualsiasi altro gruppo in America, si sono dimostrati paradossalmente chiusi rispetto agli attacchi di sinistra all’establishment centrista, perlomeno tra le fila dei più anziani. Dire che “Bernie è pazzo” significa dire, con quasi perfetta concisione, che “non ha alcun senso, visto dal mio posto nel mondo”. È la stessa logica per cui i conservatori in politica possono diventare sindacalisti militanti se hanno una percezione del loro potere collettivo al lavoro o viceversa gli accademici radicali spesso si comportano da meschini baronetti. Questi orientamenti non sono riconducibili alla semplice retorica o al dibattito, così come nessuno dei nostri orientamenti lo è. Funzionano proprio come funziona l’ideologia: come espressione del rapporto che definisce la concezione personale del mondo esistente e delle sue possibili configurazioni. Questa convinzione cambia soltanto quando cambia il mondo attorno alla persona. Lottare per uno sconosciuto è un’idea magnifica; lottare per qualcuno che conosci è il modo per vincere.
Forse il progetto socialista avrebbe avuto più successo in elezioni presidenziali determinate e modellate dalla pandemia, perché il messaggio di Sanders, amplificato dall’inclusione in un partito di maggioranza, avrebbe squillato più forte e si sarebbe infiltrato nelle sacche di resistenza della società americana. O forse avrebbe respinto molti benestanti di provincia che il partito aveva avidamente inseguito, senza produrre in contrappeso una mobilitazione. Quest’ultima possibilità è sempre stata impugnata come strumento per punire la sinistra: ignorare la sensibilità dei nervosi centristi, spalancare la porta al fascismo.
Se dopo il 2016 “Bernie avrebbe vinto” era diventato una specie di mantra e di teoria politica universale, questa volta, considerata l’indicibilità di un secondo mandato Trump, il dibattito di sinistra sembrava accademico più che elettorale. Bernie avrebbe vinto? Forse. Ma Trump era un fascista? All’improvviso la domanda vera era questa, una domanda lasciata irrisolta dall’elezione. Nel 2020 Trump ha fallito, al suo solito, di cogliere le opportunità che gli sono cascate in grembo. Se mai un’emergenza nazionale ha aperto lo spiraglio a un’eventualità simile all’incendio del Reichstag, quella è stata l’epidemia di COVID-19. Trump è riuscito a esacerbare una situazione terribile e a trarne il peggio, ma oltre ad aver apposto il suo nome agli assegni di sussidio di 1.200 $, non si può dire che abbia sfruttato la crisi. La sua incapacità di farlo – frutto della stessa combinazione di pigrizia, malevolenza e idiozia che ha contraddistinto gran parte della sua amministrazione – dà credito a chi ultimamente ha sostenuto che Trump non sia un fascista, che il trumpismo non sia fascismo.
L’analisi più accurata del carattere del regime di Trump, e la critica più rigorosa alla tesi del fascismo, è stata avanzata due anni fa dal sociologo Dylan Riley su New Left Review. Riley ha notato che Trump non stava guidando un partito di massa statale, ma al contrario governava con uno stile “patrimoniale” premoderno, in cui fondeva lo stato con la sua famiglia – generando così le frizioni che riconosciamo nel flusso di notizie caotico degli ultimi quattro anni.
Persino il culto di QAnon, per quanto disgustoso, funziona come salotto online dove milioni di individui collaborano per dare al mondo una qualsiasi forma coerente.
La combinazione di un leader carismatico che comanda con uno stile patrimoniale su uno stato burocratico legale-razionale, in un sistema politico largamente oligarchico pur entro le sue forme democratiche, è costitutivamente contraddittorio — e in molti modi diversi. L’inconsistenza di Trump come regnante è pertanto non solo (ma anche) un fallimento caratteriale. È l’effetto strutturale della combinazione tra il tipo di figura che rappresenta, e il fatto che una figura tale presieda sul tipo di ordine politico-culturale che è l’America postmoderna. L’estrema forma di ibridità che incarna indica quanto sia futile assegnargli una qualunque classificazione generale come fascismo, autoritarismo o populismo, sebbene possa esibire tratti quantomeno del terzo, se non del secondo — e di nazionalismo, razzismo e sessismo. Nato da circostanze uniche e casuali, la sua forma di gestione è un composto troppo instabile per avere la forza di durare. Non esiste una ideologia o “causa” trumpiana a cui i lealisti possano votarsi nel momento in cui Trump lascia il suo incarico.
Secondo questo modo di vedere, chiamare Trump fascista è utile poiché costringe la sinistra a ordinarsi in un fronte popolare coatto al seguito del Partito Democratico. E adesso, con Biden avviato verso un governo di restaurazione, l’alleanza è sospesa e la sinistra può essere braccata e marginalizzata in sicurezza.
Le critiche alla tesi del fascismo di Trump si concentrano quasi sempre sul personaggio di Trump-al-governo — individuato al meglio dall’idea di “Patrimonialismo” di Riley — liquidando l’allarmismo liberal per cui saremmo di fronte ai prodromi dell’uomo forte; e quasi sempre operano per confronto con l’Europa interbellica. Ma come ha osservato di recente Alberto Toscano sulla Boston Review, questo paese e il resto del mondo atlantico hanno conosciuto un’analisi molto più navigata e più intellettualmente e politicamente impegnata del “fascismo razziale”: si tratta di un’analisi che emerge dalla tradizione radicale nera. Il comunista panafricanista George Padmore sosteneva già negli anni Trenta del Novecento che il colonialismo fosse stato il germe e il Sudafrica l’archetipo del fascismo. Negli Stati Uniti, i radicali neri identificavano il fascismo con le leggi Jim Crow negli anni Trenta e Quaranta e con l’emergente stato carcerario negli anni Sessanta e Settanta. Secondo Toscano,
Come dice [Angela] Davis, il fascismo è “in prima istanza limitato all’uso dell’apparato poliziesco-giudiziario-penale per arrestare le tendenze rivoluzionarie esplicite o latenti tra gli oppressi della nazione, e domani potrebbe attaccare la classe lavoratrice in massa e infine perfino i democratici moderati”. Ma è improbabile che questi ultimi percepiscano in pieno questo fenomeno per via della invisibilità tecnica del sito della massima presentazione fascista dello stato, vale a dire le prigioni con le loro “aspirazioni totalitarie”.
Paradossalmente oggi i “democratici moderati” hanno identificato una minaccia a loro diretta senza afferrarne la sua vera origine, la sua base e i suoi obbiettivi, aprendosi così allo scorno di marxisti come Riley. Eppure il fascismo non è solo caratteristica dei leader, lo è pure dei seguaci. Nel suo The Civic Foundations of Fascism in Europe, libro molto tranchant, Riley effettua una “ricostruzione” gramsciana di Tocqueville per fondare il suo discorso. Esaminando l’emergenza del fascismo in Italia, Romania e Spagna, mostra lo sviluppo, in questi paesi, di ricchissimi mondi associativi nel tardo Ottocento e nel primo Novecento: cooperative, organizzazioni di contadini, raggruppamenti religiosi e molto altro. Questa fioritura fece sorgere impulsi democratici, perché le associazioni davano un senso di agency ed empowerment. I sistemi politici nazionali non furono in grado di accogliere e incorporare questi impulsi. La società civile senza l’egemonia, secondo Riley, portò al fascismo. Trasponendo le idee di Tocqueville — il grande scopritore e ammiratore della società civile americana — sull’Europa, e passandolo al setaccio gramsciano, Riley sgonfia la boriosa pretesa liberal che la società civile, regno dell’associazione civica volontaria, sia necessariamente la culla della libertà umana universale. Il fascismo non è l’Altro esterno del liberalismo ma piuttosto viene coltivato quasi sempre entro la società liberale.
Cosa succede invece se reimportiamo questa idea negli Stati Uniti? Sulla New Left Review Riley vede il trumpismo come un fenomeno atomistico, anonimo, esportato dalla Casa Bianca tramite mass media e social e consumato da seguaci fondamentalmente storditi in una relazione unidirezionale. “L’unità dei sostenitori di Trump consiste nell’immagine di Trump, proprio come l’unità di chi sta in fila per l’autobus consiste nel numero dell’autobus che aspettano. Ma questo è un format postmoderno standard, esemplificato prima di Trump da Obama e Berlusconi”.
Ma davvero questa sarebbe la sola base dell’unità dei sostenitori di Trump? Per crederlo bisogna fare una lettura naïf e depoliticizzata di Tocqueville nel contesto americano: lettura che Riley non tollererebbe mai se si parlasse di Europa. L’egualitarismo del progetto americano, tanto ammirato da Tocqueville, non si è verificato in un vuoto storico. Piuttosto, come sostiene Aziz Rana in The Two Faces of American Freedom,
Questa ideologia fonde nazionalismo etnico, teologia protestante e repubblicanismo per combinare la libertà come autodeterminazione con un impegno a mantenere un impero territoriale… Per i coloni, al cuore delle idee repubblicane di indipendenza economica esisteva una divisione di base tra lavoro libero e lavoro coatto. Gli americani risolsero il problema impiegando gruppi esterni subordinati, soprattutto gli schiavi africani, per potersi dedicare ai modi di produzione più oppressivi. E giustificarono sia l’espropriazione della terra dei nativi che il controllo di comunità di lavoratori dipendenti mediante l’argomento della superiorità etnica e religiosa.
L’utopia di Tocqueville, in altre parole, era egualitaria non a dispetto di quanti escludeva ma proprio grazie a coloro che subordinava. La libertà e uguaglianza dei coloni era l’asservimento stesso e la conquista delle loro vittime. Il fattore primario di coesione sociale nell’America di Tocqueville non era altro che suprematismo bianco. Data la resistenza di questa struttura — non inalterata ma innegabilmente intatta — ha poco senso immaginare che la nostra società sia stata un tempo ricca di attività associative ma oggi non più. I McCloskey che brandiscono le armi a St Louis lo scorso giugno presumibilmente non sono membri di quello stesso tipo di fraternity molto popolari nell’Ottocento, ma sono membri di associazioni di proprietari di case. Lo stesso essere bianchi è una specie di gel associativo ancora informe da cui possono crescere una varietà di associazioni più specifiche in una data congiuntura storica.
Come può il fenomeno Trump basarsi su questo tipo di vita civica razzializzata? Tanto per cominciare, ha goduto di un chiaro predecessore a livello di movimenti sociali: il Tea Party, forma denying di associazione politica di massa, basata sulla piccola borghesia, che ha dato prominenza a figure come Sarah Palin, Michele Bachmann, Kris Kobach, Ken Cuccinelli, Steve King, Mark Meadows, Mick Mulvaney, Tom Price e Mike Pence: tutte versioni minori di Trump, molti di loro poi entrati nella sua amministrazione. Come hanno capito Theda Skocpol e Vanessa Williamson, nonostante le accuse liberali di “astroturfing” [ossia fingersi un movimento “grassroots”, dal basso – l’astroturf è un’erba artificiale, NdR] e una patina evidente di cash miliardario sulla superficie, il movimento del 2009 e 2010 è stato cosa autentica. “Le sezioni locali del Tea Party si incontravano nelle chiese, le biblioteche e i ristoranti, e raccoglievano piccoli contributi o vendevano libri, spille, adesivi e gadget assortiti su commissione per coprire i pochi costi”, ha scritto Skocpol su Dissent. Capitava che il movimento si intersecasse con formazioni paramilitari come i Minutemen o ne sviluppasse di nuove, come escrescenze, è il caso degli Oath Keepers e dei Three Percenters, prefigurando i vari gruppuscoli armati del nostro momento attuale. La sostanza dell’ideologia del Tea Party – battersi per le protezioni sociali della middle-class bianca e credere che le razze outsider e i giovani stessero ricevendo dal welfare state ingiusti vantaggi – assomiglia quasi del tutto alla retorica della campagna di Trump nel 2016, che però allarga la base sociale del movimento precedente, in particolare incorporando un numero maggiore di membri bianchi della classe lavoratrice.
Lo stesso essere bianchi è una specie di gel associativo ancora informe da cui possono crescere una varietà di associazioni più specifiche.
Un secondo aspetto è che lo stato carcerario in sé ha una base sociale molto importante. Sono tantissime le persone che lavorano nel sistema carcerario in modo diretto: oltre un milione tra poliziotti, sceriffi e annessi, e secondini; più i ventimila che lavorano per ICE e i ventimila che lavorano per la polizia di confine. Siccome gli impiegati da questo sistema dispongono di un’importante organizzazione a livello di settore, e siccome le loro mansioni sono state molto politicizzate negli ultimi anni, è cresciuta la militanza dei loro sindacati: forme di associazionismo per la solidarietà, per esempio, spesso ai limiti della coercizione. (Da cui gli adesivi che le associazioni della polizia regalano ai donatori perché li attacchino in bella vista sulle loro automobili. Essendo cresciuti i movimenti per abolire ICE e definanziare la polizia, abbiamo potuto intravedere cosa succede nei mondi social degli agenti, scoprendo un dialogo attivo tra cattiveria razzista e fantasie violente. Esistono interi dipartimenti di forze dell’ordine, ormai è noto, saturi di gang di suprematisti bianchi. L’apparire, nel mondo reale, di merchandising Blue Lives Matter e del simbolo di Punisher [personaggio Marvel il cui teschio è stato appropriato da polizia e militari, NdR] è la traccia visibile della cosa più simile che abbiamo avuto in questo paese ai Freikorps. La loro opera, collettivamente, è il mantenimento violento dell’ordine sociale razzializzato mediante un programma di internamenti, espulsioni e abusi di massa.
E infine, torniamo alle forme tecnologicamente mediate di associazione. C’è sicuramente una forma di passività, come suggerisce Riley, nello spettatore standard di Fox News o in chi segue Trump su Twitter. Ma gli ambienti online dell’estrema destra sono diventati immensamente più ricchi e partecipativi a confronto, come mostra il nuovo libro di Talia Lavin, Culture Warlords. QAnon arruola follower per fargli fare da segugi, preparandoli perché possano essere schierati per la battaglia politica. Le diverse comunità online di destra presentano somiglianze: gli incel si compiangono e scambiano consigli, per poi a volte fare molto molto peggio; i neo-nazi giocano ai giochi di guerra razziale – a volte solo a parole, a volte invece incontrandosi di persona, per superare il piano del gioco.
Due anni fa, nel suo saggio su New Left Review, Riley fece notare che il declino di lungo periodo dell’affluenza alle urne è una prova contro la tesi del fascismo. Ma oggi sappiamo che le elezioni del 2020 hanno segnato un drammatico rovesciamento. In un recente pezzo su come sono andate le elezioni, Riley chiama in tal senso l’alta affluenza repubblicana “l’enigma delle elezioni 2020”. La sua spiegazione è che lo schema dello sviluppo economico come gioco a sommma zero, dove il potere di stato decide chi prospera, ha spinto membri della coalizione repubblicana a considerare il controllo dello stato come una questione esistenziale. È un’idea che ha senso, ma stride con il rifiuto a priori della tesi del fascismo, per cui ogni conflitto che abbia una posta in gioco esistenziale sia una buona prova di tale tesi. Riley gira intorno al problema coniando l’espressione “neomercantilismo macho-nazionale”.
Trump è un fattore di coesione e mobilitazione non in assenza di un sostituto ma a ragione del fatto che sono numerose, per quanto frammentarie e frequentemente non allineate, le forme sottostanti di composizione sociale che vanno a costituire il trumpismo – e che hanno cominciato a comporlo negli anni precedenti alla sua entrata esplosiva sulla scena politica. Queste forme a loro volta sono dovute alla storia ben più longeva del suprematismo bianco patriarcale, che non si esprime solo in un’unica forma, immutabile oppure unitaria. Ma in certe circostanze – per esempio il conflitto economico a somma zero – alcune delle tante forme di socialità dei coloni bianchi convergono, e i loro membri cominciano a formare i ranghi.
Negli ultimi quattro anni, mentre gli argomenti sul fascismo di Trump occupavano un minuscolo strato del discorso intellettuale, il mercato dei libri su tirannia, populismo e autocrazia è esploso, e intanto i lettori e i commentatori liberal hanno cercato di afferrare i confini di una crisi che resisteva al loro apparato metodologico. Sei settimane dopo l’inaugurazione, Timothy Snyder – rinomato studioso di guerra e genocidio nell’Europa orientale del Ventesimo secolo – ha pubblicato un libro dal titolo On Tyranny, organizzato in “venti lezioni dal Ventesimo secolo” su come resistere. Molte di queste lezioni sono ottime nei loro termini: “non obbedire a priori”; “credi nella verità”; “contribuisci alle buone cause”. Personalmente, cerco di seguirle tutte. Ma come codice di condotta è impotente, e la ragione è ovvia: il destinatario è l’individuo, di conseguenza è apolitico. È nice essere nice, ma non impatta sulla disposizione del potere politico. “Fatti dei nuovi amici e marcia insieme a loro”, dice Snyder. Certamente! Ma chi dovrei farmi amico, e dove marciare? E cosa fare se ci attacca la polizia? Sono queste le domande decisive, a cui On Tyranny non forniva alcuna risposta. Ma è stato numero uno nella classifica del New York Times.
Ora, con Trump espulso dalla Casa Bianca per procedura legittima, gli sforzi conservazionisti hanno registrato una vittoria. Hanno prevalso i luoghi comuni. Ma il paese rimane paralizzato in un bel casino, ce lo segnala la maniera in cui il Partito Repubblicano continua a sostenere che i suoi avversari non sono cittadini legittimi e i loro voti non sono validi. Quel che Gramsci ha definito “crisi organica” persisterà a prescindere da quanto gli anziani del Partito Democratico vorranno scacciarla con le buone intenzioni per rivivere invece i propri ricordi preferiti. “A volte una crisi può durare decenni”, ha scritto Gramsci.
Questa durata eccezionale significa che si sono rivelate contraddizioni strutturali incurabili e che nonostante ciò le forze politiche che si battono per conservare e difendere la struttura esistente stanno facendo ogni sforzo per curarle entro certi limiti e per vincerle. Questi sforzi indefessi e persistenti (d’altronde nessuna formazione sociale concede mai di essere stata superata) formano il terreno del congiunturale, ed è su quel terreno che l’opposizione si organizza.
È nice essere nice, ma non impatta sulla disposizione del potere politico.
Questo passaggio è stato scritto per parlare dell’Italia interbellica ed è stato poi preso con grande successo da Stuart Hall per spiegare l’ascesa del thatcherismo in Gran Bretagna, ma è difficile non riconoscerci anche il momento che stiamo attraversando. Nella lettura di Riley, una crisi organica è una dissociazione politica sistematica tra rappresentato e rappresentante. La leadership politica rinuncia alla legittimità riconosciuta del suo elettorato. Uno scenario simile potrebbe evocare una nuova formazione politica come pure non farlo, secondo lo sviluppo della società civile — che lui tratta come materia autonoma e contingente.
Hall però aggiunge un elemento: distingue fra il “congiunturale” e l’“organico”, osservando che una crisi passa solo dal meramente congiunturale all’organico quando gli “sforzi” descritti da Gramsci cessano di essere restauratori e assumono un carattere innovativo che ha lo scopo di stabilire una nuova “egemonia” sulla base di un nuovo blocco sociale. Per Riley, ciò è possibile soltanto sulla base dell’associazionismo civico, che lui trova largamente assente su tutto lo spettro politico.
Lo scetticismo sulla possibilità della risoluzione della crisi è certamente giustificato. Perfino l’improbabile vittoria di entrambi i candidati democratici nella corsa al senato della Georgia a gennaio non trasformerà un fatto fondamentale della politica americana: l’ingovernabilità del paese. Ciò, a sua volta, può solo significare che la crisi non verrà risolta in tempi brevi. È vero che gli sforzi per risolvere la crisi da destra sono stati, per il momento, respinti. Ma l’incapacità di Trump di compattare quel che Gramsci chiamerebbe un “blocco storico” egemonico lungo le divisioni di classe non è garanzia che la destra non produrrà con successo una simile formazione nel futuro prossimo: se ne possono vedere abbozzati i contorni nella sconfitta di misura della coalizione trumpiana e nella fervida, seppure inefficace, resistenza al risultato delle elezioni – si può immaginare facilmente come avrebbe potuto vincere in assenza di COVID-19.
Guardando dall’altra parte, non serve sottolineare che i leader attuali del Partito Democratico sono fondamentalmente incapaci di risolvere l’impasse. Come hanno rivelato le settimane successive alle elezioni, il direttorato del partito desidera disperatamente mostrare al suo pubblico una volontà di accontentare la polizia e il sistema del suprematismo bianco di cui sono il volto visibile e contestato. Non è altro che l’annuncio di un’intenzione di non battersi per l’egemonia – visto che l’egemonia rivale dell’estrema destra si compatta precisamente intorno allo slogan “Blue Lives Matter”.
Al tempo stesso, e in modo più promettente, degli elementi disarticolati di un’egemonia di sinistra sono altresì apparsi nel 2020 – non uniti, quanto piuttosto in sequenza. La campagna di Sanders prima, l’insurrezione di primavera estate contro la polizia poi, hanno espresso ciascuna un frammento di un nuovo blocco storico. La relativa disconnessione sociale tra le diverse parti di questo blocco ipotetico, a sua volta emerso dalla disorganizzazione della classe lavoratrice americana, è la ragione per cui è apparso in due parti invece che una sola. Ciascuna metà ha le sue strutture organizzative interne. Praticamente ogni città d’America e tante delle sue cittadine ospitano ormai una panoplia nazionale di organizzazioni di attivisti neri, emerse o cresciute quest’estate, alcune associate direttamente a grandi gruppi nazionali, altre prettamente locali. Capacità, profondità, radicalismo variano caso per caso, ma dobbiamo ancora digerire pienamente la scala dei loro successi di quest’anno in termini squisitamente organizzativi. Similmente, i Socialisti Democratici d’America e gruppi locali annessi come le tenants’ unions emerse nelle città, il Sunrise Movement, Reclaim Philadelphia, Reclaim Rhode Island, Lancaster Stands Up – e anche i cugini moderati come il Working Families Party, Justice Democrats e Indivisible hanno visto un allargamento della partecipazione attiva negli ultimi quattro anni. Sono questi i punti di intersezione tra le due metà, particolarmente promettenti fra i giovani latini e nella lotta contro la macchina della deportazione. C’è chi sta a cavallo tra le due in modo stabile, e votanti e attivisti di un gruppo scendono in piazza per l’altro. Ma lo schema complessivo di separazione a livello associazionistico è innegabile.
Nei minuti di celebrazione dopo l’annuncio della vittoria di Biden, però, si poteva avvertire l’emergere di un nuovo livello di unità. Mentre la gente scendeva in strada per difendere il risultato delle elezioni per esultare, un nuovo blocco cominciava a mostrare il suo volto. I sindacati, largamente assenti dai movimenti di tutto il 2020, sono stati protagonisti delle manifestazioni a Philadelphia, come avevano fatto durante la campagna elettorale. L’energia e la solidarità della sollevazione estiva erano altrettanto presenti, trasposti in una chiave più gioiosa. Il ruolo decisivo di città come Philly, Detroit e Minneapolis nella sconfitta della destra indica la possibilità che le emergenti politiche socialiste e abolizioniste frutto dei centri di giovani attivisti di queste città possano guidare il cambiamento, incarnate poi sul palcoscenico elettorale da Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Cori Bush, Alexandria Ocasio-Cortez, Jamaal Bowman, e ovviamente da Nikil Saval [ex editor di n+1, eletto al senato della Pennsylvania NdR]. Un programma socialista che affronti il suprematismo bianco come suo obiettivo immediato — invece di provare a cercare una maggioranza girando intorno all’edificio del suprematismo bianco — è il principio di unità di questo blocco. La sua base sociale risiede in un’alleanza di lavoratori dai salari bassi e lavoratori indebitati, giovani in stragrande maggioranza, che si concentrano nelle città e sempre di più anche nei sobborghi. Non che in sé un’alleanza siffatta costituisca una maggioranza; è che forma fondamenta potenzialmente solide da cui cominciare a fornire risposte razionali ai problemi strutturali della società americana, e dunque a reclutare i tanti elementi diversi necessari per risolvere la crisi. Unite queste tre parti, e avrete una cassa di risonanza abbastanza grande.
Ma ottenere quel comportamento causerà enorme conflitto – con le forze della repressione diretta nelle strade, che non saranno scoraggiare dalla transizione presidenziale, e con i democratici conservatori. La questione è l’organizzazione: la costruzione di relazioni e fiducia che oltrepassi le forme di differenza sociale che hanno finora impedito al messaggio socialista di risuonare con la vastità di cui potrebbe essere capace. Per questo, Snyder pare avere un consiglio, anche se forse scrivendo non si è reso conto di cosa intendeva dire: “Mettete i vostri corpi in posti estranei e con persone estranee”. O, come l’ha messa Phil Agnew – sapendo esattamente cosa intendeva – “stringete la mano di qualcuno”.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su n+1 il 12 dicembre 2020. Traduzione di Alessandra Castellazzi e Francesco Pacifico.