D a quando esiste, ma oggi forse un po’ di più – la pandemia ha davvero agito da detonatore – il lavoro autonomo ha un potere molto particolare: con la sua esistenza ha fatto e fa vacillare alcune certezze tradizionalmente legate al modo di concepire il lavoro. Come in Teorema di Pier Paolo Pasolini, similmente al giovane enigmatico che irrompe e attira l’attenzione e il desiderio di tutti i componenti della famiglia, il lavoro autonomo arriva, sconquassa gli equilibri e pone dei temi. Da quello dell’autonomia che sempre di più interessa (nel senso duplice di affascina e pertiene a) chi lavora come dipendente, a quello dello smart working, che sembra un’inevitabile tendenza nel mondo post-covid, il lavoro autonomo ha una capacità prismatica tutta sua di sviluppare questioni.
Per questi e altri motivi che sono l’oggetto del dialogo che segue, a volte sembra difficile affidare la ricognizione di alcuni settori lavorativi a indagini istituzionali come quelle dell’ISTAT (e non solo), che nell’impostazione sembrano rimanere ancorate a un orizzonte in cui il lavoro odierno – fluido, precario, variabile – si definisce ancora per similitudine o per contrasto al lavoro dipendente. Di contro, in diversi reparti del cosiddetto terziario avanzato abbiamo un fiorire di inchieste portate avanti dai lavoratori per i lavoratori, i quali rintracciano nello strumento dell’auto-inchiesta un primo passo per riconoscersi, dirsi uguali e unici allo stesso momento e mobilitarsi collettivamente. È quello che vuole fare, ad esempio, il sondaggio di Redacta, per tutte le persone che lavorano nell’editoria libraria.
Questa conversazione è l’estratto di una lunga e ricca chiacchierata tra Anna Soru (fondatrice ed ex presidente Acta), Annalisa Murgia (Sociologa presso l’Università di Milano e coordinatrice del progetto ERC SHARE), Giulia Carini e Mattia Cavani (Redacta), sul lavoro autonomo, ancora oggi un UFO.
Mattia Cavani: Annalisa Murgia e Rossella Bozzon stanno facendo ricerca sul questionario Istat Forze di Lavoro e, in quanto freelance, me ne hanno fatto compilare uno per vedere cosa manca, cosa non funziona, eccetera.
Facendolo, e confrontandomi con loro su come migliorarlo, mi sono reso conto che, come Redacta, stavamo affrontando gli stessi problemi con il nostro sondaggio. E un po’ mi ha consolato questa cosa, nel senso che a quanto pare ci sono oggettivamente degli snodi complicati anche per un istituto come l’ISTAT… Mettere in piedi un sondaggio che differenzia gli inquadramenti (partita iva, cococo, stage, lavoro dipendente, cessione di diritto d’autore etc.), le mansioni (redazione, grafica, comunicazione, scrittura etc.), e gli ambiti all’interno del settore (editoria scolastica/accademica/varia/tecnica, ragazzi/adulti, narrativa/saggistica e così via) è stato particolarmente complesso, ma per offrire un quadro realistico è stata una fatica necessaria.
Mi sembra non ci sia proprio la più pallida idea di che cosa sia il lavoro autonomo, forse perché non si è mai pensato di doverlo davvero monitorare.
Anna Soru: Io sono molto critica sul questionario dell’ISTAT perché sul lavoro autonomo ha ancora una classificazione che credo risalga a cinquant’anni fa. Individua le categorie del “lavoro in proprio”, “lavoro professionale” e “lavoro imprenditoriale” (oltre a qualche voce residuale). Non c’è nessun elemento oggettivo che permetta di distinguere tra queste tre categorie ed è tutto affidato all’autopercezione del rispondente. Per questo, da un’impostazione del genere secondo me non può venirne fuori nulla di buono: se 40 anni fa aveva ancora un senso – il lavoratore in proprio era il classico artigiano o commerciante, mentre il professionista era avvocato o notaio –, oggi questa classificazione non serve a nulla. Sono più delle categorie mentali che non delle categorie oggettive.
Mi sembra non ci sia proprio la più pallida idea di che cosa sia il lavoro autonomo, forse perché non hanno mai pensato di doverlo davvero monitorare. L’unico interesse verso il lavoro autonomo è per quello “finto”, che una volta viene definito come monocomittente, una volta come economicamente dipendente, un’altra volta ancora come etero-organizzato.
È da vent’anni che si parla solo di finto lavoro autonomo, anche noi come ACTA facciamo fatica, a volte, a far capire che vogliamo far valere il lavoro freelance per quello che è senza riportarlo sotto il cappello del lavoro dipendente…
E poi ti domandi: ma perché l’ISTAT, l’ILO, l’Eurostat hanno impostato la rilevazione sull’individuazione dei finti lavoratori autonomi? Se l’obiettivo è capire se uno lavora e ha un reddito adeguato, ha delle condizioni di lavoro dignitose, siamo sicuri che sia questa la chiave di interpretazione principale?
Tra l’altro andando verso lo smart working, che vuol dire la caduta di molti degli elementi che tradizionalmente differenziano tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, questa cosa diventa sempre più complicata. Perché il fatto di lavorare da dove si vuole, coi tempi che si vuole, anche con un margine di autonomia nella gestione del lavoro sono ormai caratteristiche di molta parte del lavoro dipendente.
Annalisa Murgia: Da parte nostra, quello che abbiamo provato a fare è un’analisi non tanto di tipo statistico, ma di interrogazione dello strumento stesso, e l’abbiamo fatta a partire dalla European Labour Force Survey, lato Eurostat, in cui confluisce l’ISTAT insieme al resto dei paesi europei. Chiaramente c’è un problema perché, per essere comparabili, i dati hanno necessità di essere armonizzati e nel passaggio dal livello nazionale a quello europeo si perdono delle informazioni. È vero che il questionario ISTAT ha molti problemi, è anche vero però che raccoglie più informazioni sul lavoro autonomo di quanto non facciano altri questionari a livello europeo.
Sulle rilevazioni a livello europeo, sono perfettamente d’accordo con quanto dice Anna: in primo luogo, non è pensabile che una categoria possa essere trattata sulla base di una dicotomia. Sembra ci sia solo il “finto” lavoro autonomo e quello “vero”; solo che queste categorie sono inutili in termini euristici, di analisi sociologica. La questione secondo me sta proprio nel superare la dicotomia vero/falso, ma anche rivedere la definizione di lavoro autonomo cosiddetto “economicamente dipendente”.
Ovvero: quando parliamo di lavoro economicamente dipendente sappiamo di cosa stiamo parlando? Perché, per esempio, il modo in cui lo definisce Eurostat – che di fatto segue ILO – se paragonata al modo in cui lo definisce Eurofound, European Working Conditions Survey, dà conto di un gruppo di soggetti piuttosto diversi fra loro. E ancora: i ricercatori, così come chi si occupa di policy making e chi fa lobby e advocacy, sanno come sono costruiti gli indicatori che portano alla definizione del lavoro autonomo economicamente dipendente?
La nostra proposta è cercare di inserire alcune nuove domande, anche se sappiamo benissimo che l’ISTAT non può stravolgere il questionario da un giorno all’altro.
E allora ci siamo dette: andiamo a vedere come sono costruiti questi dati. Per farlo abbiamo prima condotto un’analisi – pubblicata su Social Indicator Research – basata sulla Labour Force Survey ad-hoc module 2017 di Eurostat e sulla European Working Conditions Survey, per poi addentrarci nell’analisi a livello nazionale. È venuto fuori quello che sospettavamo: innanzitutto ci sono una serie di dimensioni che non vengono proprio raccolte relative ad esempio al luogo e agli strumenti di lavoro, così come ai pagamenti.
C’è un problema iniziale, una sorta di domanda-filtro che chiede ai soggetti se si definiscono autonomi o dipendenti e da lì si prendono due percorsi differenti. Ma è pur vero – come diceva Anna – che, come nel lavoro dipendente abbiamo sì l’eteronomia ma anche forme di autonomia, così nel lavoro autonomo siamo pur sempre in presenza di un rapporto asimmetrico con margini di dipendenza dettati dal committente. Le condizioni si sono fluidificate sempre di più, le contaminazioni tra una condizione e l’altra sono innegabili e per questo è anacronistico tenere ancora buona la distinzione così netta e prevedere ramificazioni di domande a seconda che uno risponda l’una o l’altra.
Un’impostazione del genere non può spiegare il lavoro contemporaneo oggi; la nostra proposta è cercare di inserire alcune nuove domande anche se sappiamo benissimo che l’ISTAT non può stravolgere il questionario da un giorno all’altro, perché così facendo perderebbe le analisi storiche e longitudinali. Il questionario chiaramente non può essere cambiato in modo profondo però possiamo proporre l’inserimento di domande come: “Dove lavori?”, “Dopo quanto tempo vieni pagato?”, “Fai parte di sindacati e/o altri tipi di associazioni, e quali?”, così come sarebbe importante avere maggiori informazioni non solo sul primo lavoro, dato che per gli/le autonomi/e è spesso difficile indicare qual è il lavoro principale perché svolgono due o più lavori al contempo.
AS: A mio parere c’è un problema della rilevazione dell’ISTAT che, temo, corre il rischio di non riuscire più a rappresentare davvero quello che sta succedendo.
Vi faccio un esempio: dal punto di vista quantitativo, se vado a vedere i dati dell’Istat Forze Lavoro, risulta che ultimamente il lavoro autonomo sta diminuendo anche con riferimento al lavoro professionale. Però se vado a vedere i dati dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS o degli ordini professionali non risulta. Allora mi domando: com’è possibile che l’ISTAT parli di questa diminuzione? Che cosa c’è dentro?
Ecco una provocazione: secondo me bisogna ripartire dalla dichiarazione dei redditi. Perché nella dichiarazione dei redditi hai tutte le informazioni che servono, hai proprio tutto lo spacchettamento per tipologia di reddito, quindi si distingue bene tra reddito da lavoro, reddito da capitale, etc.
AM: Varie ricerche poi, ad esempio, hanno mostrato che chi lavora non conosce il proprio contratto, il proprio inquadramento…
AS: Esatto! Non ti puoi basare sull’auto-percepito, questo dico: tutto il questionario ISTAT è basato sull’auto-percepito. C’è tantissima gente – anche tra le persone intervistate negli anni per le nostre ricerche – che ti dice: “Sono assunto a partita IVA”.
A mio parere l’ISTAT dovrebbe cercare di formulare domande che usino il più possibile degli elementi oggettivi perché ci sono aspetti che sono veramente complicati da dirimere in sede di sondaggio. Ad esempio “Quanto del tuo fatturato deriva dal principale cliente?” è un dato oggettivo; mentre chiedere “Quanto sei autonomo nel prendere le decisioni?” è un interrogativo al quale probabilmente due persone che hanno la stessa autonomia potrebbero rispondere in maniera completamente diversa.
Il ragionamento deve essere sui diritti del lavoro e sui diritti sociali a cui poter accedere, perché il problema è che li stiamo perdendo tutti, anche chi ce li aveva.
Giulia Carini: Nei giorni scorsi ho cominciato a dare un’occhiata al nostro sondaggio e ho notato che l’impostazione di partire dall’inquadramento, come diceva prima Mattia (che è quello che di solito non interessa a nessuno, non solo in editoria) secondo me è interessante proprio perché sono costretti a rispondere quello che è il loro inquadramento.
Ci sono risposte come queste di cui parlate voi, però è anche vero che incrociando quel dato “sporco” dell’inquadramento con altri riusciamo a “costringere” le persone a dire quello che ci interessa per fotografare veramente la situazione.
AM: In tutto ciò, non dovremmo dare per scontato che facciamo un favore agli autonomi a volerli riportare sotto al lavoro subordinato, perché il lavoro subordinato – anche lo stesso tempo indeterminato – de facto non è una garanzia di molto, soprattutto dal Jobs Act in poi. E non si può ignorare il fatto che ci sono lavoratori e lavoratrici che non chiedono di diventare subordinati, ma chiedono il riconoscimento di diritti, che è un discorso differente. A me sembra che il ragionamento debba essere sui diritti del lavoro e sui diritti sociali a cui poter accedere, perché il problema è che li stiamo perdendo tutti, anche chi ce li aveva. Insomma, non dovremmo dimenticare di dire che il lavoro dipendente è molto cambiato: non esiste più appunto l’idea per cui fai un lavoro e lo fai per tutta la vita, e quindi auspicare al lavoro dipendente diventa il regno della tutela in aeternum.
C’è un altro automatismo che bisogna cercare di disinnescare: perché per poter godere di qualche forma di protezione sociale bisogna rinunciare ad essere lavoratore autonomo? Questa è una costruzione storica, non è una differenza data in natura e quindi, come tutto, si può cambiare.
MC: La retorica velenosa che sostiene l’immobilismo sui diritti degli autonomi sembrerebbe essere quella per cui il lavoro autonomo non ha bisogno di protezioni né di contrattazione collettiva perché il “vero” lavoro autonomo è forte, è imprenditoriale, e quindi non c’è nessun bisogno che i sindacati se ne preoccupino…
AM: Da sociologa qualitativa, poi, a me interessa ovviamente anche capire quali sono i desideri e le aspirazioni dei soggetti. In alcuni eventi dal vivo cui ho partecipato negli ultimi anni mi è capitato di chiedere: “Ma voi aspirate al lavoro dipendente? Rivendicate la volontà di diventare subordinati?”. E quello che viene fuori spesso è che non sia questa l’aspirazione, e che però si abbia la sgradevole percezione di essere in un vuoto cosmico senza nessun tipo di supporto e protezione. Secondo me questo è il punto da scardinare per parlare del lavoro contemporaneo, una serie di diritti non possono essere collegati al tipo di contratto o al lavorare come autonomi o dipendenti.
Nelle interviste con lavoratori e lavoratrici autonomi, non è raro sentire dire “Il mio è un caso specifico” – però poi ti raccontano dei casi che si assomigliano tutti tantissimo.
MC: Lavoro contemporaneo che, a volte, sapendo di non essere oggetto dei radar istituzionali, si affida ad analisi di altro tipo per guardarsi e auto-comprendersi…
Mi viene in mente che realtà come noi di Redacta, Mi riconosci? (professionisti dei beni culturali), AWI (Art Workers Italia), MeFU (Mestieri del Fumetto), e ultimamente anche MAni – Mestieri dell’Animazione, la prima cosa (o quasi) che hanno fatto queste associazioni di rappresentanza è un’auto-inchiesta. Quello che voglio dire è: ok, c’è una mancanza da parte di ISTAT però il lavoro di coalizione, in ogni caso e necessariamente, parte da una ricostruzione del quadro frastagliato del proprio settore…
AM: Anche la storia vi dà ragione! Se guardiamo al passato e andiamo indietro all’auto-inchiesta operaia, parliamo proprio delle prime forme di un certo “riconoscersi” anche collettivamente. È eminentemente una questione anche identitaria: ogni soggetto è attraversato da due pulsioni complementari. Da una parte, la volontà di volersi riconoscere in un gruppo e dall’altra la necessità di essere riconosciuto nella propria unicità. Se siamo soltanto omologati agli altri non vediamo riconosciute le nostre specificità e di fatto si va verso l’alienazione, mentre se ci sentiamo unici in un certo tipo di condizione, può sopraggiungere una sensazione di isolamento e atomizzazione.
Nelle interviste con lavoratori e lavoratrici autonomi, non è raro sentire dire “Il mio è un caso specifico” – però poi ti raccontano dei casi che si assomigliano tutti tantissimo. Nel caso di Redacta mi viene da dire che il primo sondaggio era proprio teso a questo riconoscersi, c’era un po’ la voglia di chiedersi “Chi siamo?”, “Quanti siamo?”, e invece in questo secondo sondaggio che avete lanciato c’è uno scatto diverso. Non è più solo “Cerchiamo di capire” ma “Cerchiamo di capire per agire”. Nei sei paesi che abbiamo studiato per il nostro progetto di ricerca SHARE abbiamo visto bene come mobilitare i lavoratori e lavoratrici sia possibile a partire da condizioni condivise, da un riconoscersi e da un sentire comune.
AS: Ogni categoria è convinta di essere un mondo a sé: l’abbiamo visto in tutti i settori indagati. Quindi il primo passo è sicuramente riconoscere problemi comuni dentro il proprio perimetro professionale, però poi il passaggio successivo dovrebbe, in linea teorica, vedere i tanti elementi in comune con altri freelance non del proprio settore e pensarsi in maniera ancora più corale…
Siamo d’accordo sul fatto che riuscire a creare una mobilitazione è molto più complicato di un tempo, e devi partire proprio dalle storie personali, dai problemi che ciascuno percepisce per poter in qualche modo sensibilizzare. Però, se si rimane ancorati più alle differenze che non alle somiglianze, sfugge il quadro d’insieme, la consapevolezza che ci sono problemi comuni come il welfare, i diritti, che sono a cavallo tra tutti gli ambiti. Ora come ora, il problema più urgente è la mobilitazione e quindi partiamo da là: abbiamo visto che funziona “andare dentro” i settori e quindi bene così, possiamo proseguire su questa strada. Però è anche un po’ triste pensare che se non vengo proprio a toccarti nell’iper-personale della condizione di ognuno, tu non ti schiodi per senso di solidarietà…
GC: In questi quattro anni di Redacta abbiamo visto che “andare dentro” a un singolo settore – che, in sintesi, significa ricostruire come, quanto e da chi vengono pagate le persone – è un passaggio ineludibile per “mobilitare” chi lavora, ovvero per offrire una prospettiva di cambiamento di una situazione (personale e collettiva) insostenibile. Poi quello che abbiamo imparato dentro Redacta sull’organizing lo stiamo mettendo a frutto anche in altri settori, come l’audiovisivo.
AM: Io credo che la sfida politica di oggi sia proprio una mobilitazione sociale massiva come punto d’incontro di lotte sociali differenti: se è già così difficile parlare tra lavori vicini e similari, non è facile immaginare qualcosa che metta insieme l’elettricista con vent’anni di esperienza che si unisce in una lotta che lo collega alla freelance dell’editoria e all’insegnante di sostegno che si trova in una situazione di precarietà da venticinque anni. Non mi sembra realistico nel breve periodo, ma a mio avviso è questo l’obiettivo verso cui tendere, che di fatto va nella direzione di una ricomposizione del mondo del lavoro, pur riconoscendo le differenze che lo caratterizzano.