I n una giornata di luglio del 2011, il trentaduenne Anders Breivik diede il via alla sua guerra per “salvare” la Norvegia. Non bastava colpire semplicemente i simboli del potere, come i ministeri o il premier Stoltenberg. Bisognava osare di più, anche a costo di uccidere dei semplici adolescenti impegnati in politica, ormai ai suoi occhi corrotti dal laburismo imperante nella nazione.
Nel giro di poche ore, il paradiso norvegese perse definitivamente la sua innocenza, consumata da un camion bomba nel centro di Oslo e dal massacro di sessantanove ragazzi e ragazze sull’isola di Utoya. Breivik aveva dato seguito alle sua visione, messa nero su bianco in un manifesto di oltre 1500 pagine, dove metteva sotto accusa il marxismo, il multiculturalismo, gli immigrati e tutto ciò che risultava estraneo alla sua dottrina di estrema destra.
Nei mesi successivi psicologi, psichiatri, criminologi e giornalisti si affannarono a capire il “mostro”, inizialmente etichettato come un pazzo dalla prima perizia psichiatrica. Sembrava di trovarsi davanti a uno di quei maniaci fuori controllo, che spesso negli Usa vengono definiti spree killer, assassini che esplodono all’improvviso e lasciano dietro di sé una scia di morti e finiscono per suicidarsi. Breivik, tuttavia, non aveva avuto un raptus di follia. Non aveva sfogato semplicemente i suoi deliri, la sua rabbia, i suoi problemi mentali. Era andato in missione, perfettamente razionale e lucido. Così decretò la corte di Oslo nella sentenza finale del processo a suo carico, condannandolo a ventuno anni di carcere. Ma ad alcuni il dubbio rimase.
Di fronte al “pianificato” caos
Il caso di Breivik è rimasto un episodio isolato in Norvegia, ma negli Stati Uniti non passa mese ormai senza un attentato, una strage o un killer impazzito pronto a falciare degli sconosciuti. Negli ultimi anni il numero di vittime per mano degli spree killer (chiamati comunemente anche rampage killer) si è impennato notevolmente, aggiungendosi alle numerose vittime da arma da fuoco (oltre 11.000 l’anno) e a quelle del terrorismo interno ed esterno. Sono ormai lontani i tempi in cui le stragi di massa erano una rarità, tanto da essere commentate in maniera sarcastica in film come Full Metal Jacket, dove il sergente maggiore Hartman magnificava le abilità da cecchino di Charles Whitman, precursore degli attuali stragisti e autore nel 1966 di un terrificante tiro a segno in Texas.
Il continuo succedersi delle tragedie, l’incessante bombardamento mediatico e la mancanza di soluzioni efficaci hanno finito per generare una profonda confusione nella società statunitense, sempre più polarizzata fra quelli che vogliono vietare la libera circolazione delle armi e i difensori del II Emendamento sostenuti dall’NRA, la National Rifle Association. Alcuni dei primi, presenti soprattutto tra gli elettori liberal, hanno cominciato ad accorpare spree killer e terroristi in un’unica categoria, in modo da aumentare la pressione sull’opinione pubblica. Ma il tentativo di semplificazione potrebbe rivelarsi molto pericoloso e controproducente, specialmente di fronte a fenomeni a prima vista simili ma con differenze decisive. Uno Stephen Paddock non equivale a un Dylann Roof, così come l’autore della strage della Sandy Hook Elementary School non è un Breivik o un lupo solitario dell’Isis.
Basta analizzare nel dettaglio una delle stragi-simbolo dell’America di questi tempi, la tragedia della Columbine High School, per comprendere come il fenomeno dei rampage killer (che come lo spree killer agisce in un’unica soluzione) diverga dal terrorismo. Se quindi diventa quasi risibile e solamente accademico il dibattito sulle differenze fra il mass murderer (l’omicida di massa) e lo spree killer, non si possono non evidenziare quelle con i vari terroristi.
La differenza fondamentale fra gli spree killer e i terroristi è la mancanza di una visione politica, religiosa, ideologica come fattore motivazionale.
Nel lontano 1999 gli studenti Dylan Klebold e Eric Harris pianificarono e portarono a termine una delle stragi più scioccanti degli ultimi decenni. Non era semplicemente il numero delle vittime (nella storia degli Stati Uniti ci sono state stragi con una conta dei morti più alta), ma il connubio di molteplici fattori inquietanti, cosa che ha fatto di questo episodio un archetipo fondamentale, forse il più studiato nella storia americana.
Due giovani di 18 e 17 anni passarono mesi a progettare la loro rivincita contro la società e tutti coloro che ritenevano “colpevoli”, provando le armi, filmandosi e scrivendo lunghi testi in cui raccontavano la propria esistenza. Al contrario di Breivik, però, dietro le azioni di Klebold e Harris non c’era alcuna visione politica, nessuna nuova società da edificare. C’era solo un immenso disturbo mentale e tanta rabbia da sfogare. Perché la differenza fondamentale fra gli spree killer e i terroristi è proprio questa: la mancanza di una visione politica, religiosa, ideologica come fattore motivazionale, cosa che invece è presente nei secondi. Gente come Klebold e Harris è semplicemente la rivalsa del disagio contro l’apparente normalità, contro l’indifferenza altrui, contro il bullismo dei coetanei, contro l’insopportabile disequilibrio coltivato per anni.
Gli spree killer, esattamente come i due studenti citati, sono soliti presentare patologie mentali piuttosto gravi con tendenze al suicidio e alla depressione, e spesso risultano essere in cura con psicofarmaci, come nel caso di Seung Hui Cho, autore del massacro al Virginia Tech nel 2007, che era stato ricoverato in una struttura psichiatrica prima di essere lasciato incautamente in libertà. Un “vuoto” che potrebbe essere imputabile in buona parte al sistema sanitario americano, ancora largamente privatizzato, che non fornisce un sufficiente aiuto alle persone più povere: il 56% degli adulti americani affetti da disturbi psichici non può sostenere le terapie necessarie a causa dei costi eccessivi. Ad aggravare ulteriormente la questione è intervenuta la decisione da parte del congresso americano, sotto guida repubblicana, di revocare le restrizioni alla vendita di armi agli individui psicologicamente instabili. Le restrizioni erano state uno degli ultimi atti della presidenza Obama, cancellate nel febbraio scorso dal presidente Donald Trump.
In preda a un’instabilità interna precaria e pericolosa, queste persone trovano nella società statunitense, nelle sue fobie, nei suoi deliri, il detonatore finale. Un clima sociale paranoide ad alto tasso di violenza, dove lo stesso trattamento riservato da parte dei network giornalistici ai casi di omicidio di massa rasenta la psicosi sociale, con una continua ossessione morbosa per il lato criminale del Paese e un linguaggio simil-messianico condito da parole quali evil, devil, e madness, quasi a introdurre un elemento di possessione demoniaca. Una devianza sociale ripresa in modo efficace nel documentario di Michael Moore, ma allo stesso tempo un’accusa troppo indigesta e complessa per essere fatta propria dal sistema americano.
In preda a un’instabilità interna precaria e pericolosa, gli spree killer trovano nella società statunitense, nelle sue fobie, nei suoi deliri, il detonatore finale.
In questo lago di benzina mentale si va a inserire l’ultimo tassello: un arsenale composto da 270 milioni di armi da fuoco, fra cui fucili semi-automatici facilmente modificabili e in certi casi facilmente acquistabili. Gli strumenti di ognuna di queste tragedie, usati sia dai killer psicolabili che dai terroristi, come nell’attentato di San Bernardino del 2015.
I responsabili di quest’ultima carneficina – la coppia di coniugi Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik – non hanno avuto troppe difficoltà ad entrare in possesso di armi da guerra (il diffusissimo AR-15) in grado di fare un grande numero di vittime in pochissimo tempo. Così come il lupo solitario Omar Mateen, autore del massacro al night club Pulse a Orlando, non ha avuto problemi ad acquistare regolarmente pistole e fucili presso un negozio specializzato qualche giorno prima dell’attacco, nonostante fosse finito sotto il controllo dell’FBI sia nel 2013 sia nel 2014.
Oltre alle armi regolarmente in vendita, i terroristi ricorrono spesso anche a bombe artigianali o esplosivi con i fertilizzanti, come il suprematista bianco Timothy McVeigh nel 1995 a Oklahoma, i fratelli Tsarnaev alla maratona di Boston nel 2013 o i numerosi terroristi di matrice cristiana fondamentalista che hanno attaccato nel corso degli anni le cliniche pro-aborto legate alla Planned Parenthood.
Inseguendo una visione
Questo connubio di fattori è stato ritrovato anche nei terroristi, ma in percentuali nettamente più basse, perché oltre alla già citata differenza motivazionale, sostanzialmente si è scoperto che i terroristi islamici sono considerati perlopiù sani di mente. Anche i fautori del terrorismo interno legato al suprematismo bianco e cristiano fanatico, spesso sottovalutato dai mass media nonostante sia più esteso rispetto a quello integralista islamico, non soffrono necessariamente di disturbi mentali.
Il giovane Dylann Roof, responsabile della strage di Charleston nel 2015, ha seguito un percorso molto simile a quello del norvegese Breivik, con una progressiva radicalizzazione ed estremizzazione del suo pensiero, la scrittura di un lunghissimo manifesto politico accompagnato alla pubblicazione di foto aggressive, pose minacciose e al falò della bandiera americana. La palese ascesa di un fanatico ideologizzato che agisce in modo razionale, e che sempre in modo mirato sceglie l’obiettivo finale coerentemente con il suo manifesto.
Stesso percorso lo compiono quelli dell’Isis. Non siamo più di fronte alla rivalsa cieca, che trova sfogo nella mattanza umana come quella avvenuta a Las Vegas pochi mesi fa, ma alla giustificazione della propria esistenza seguendo un fine superiore, una visione degna di essere vissuta e seguita fino in fondo.
Molti dei foreign fighters che si sono uniti al Califfato conducevano precedentemente una vita anonima, non necessariamente ai margini della società, né in povertà economica. La scelta di abbracciare uno stile di vita violento, fanatico e totalizzante ha trovato la sua giustificazione in diversi importanti fattori: il sentirsi parte di una comunità, il ritrovo di un senso per la propria esistenza, la ricerca di un riscatto sociale tramite l’acquisizione di potere, gloria e successo.
Molti dei foreign fighters che si sono uniti al Califfato conducevano precedentemente una vita anonima, non necessariamente ai margini della società, né in povertà economica.
La presenza di un’ideologia codificata, basata un’interpretazione integralista di una serie di precetti religiosi che fanno leva su complesse questioni sociali e culturali, ha soddisfatto queste pulsioni dando una spinta enorme ai jihadisti, portandoli addirittura a negare il valore della vita, non solo quella degli altri, ma anche della propria. E qua emerge un’ulteriore differenza fra loro e gli spree killer: il martirio. Il terrorista che si suicida lo fa in nome di un bene superiore, in nome di una strategia dall’ampio respiro, non per la disperazione e il collasso psicologico che seguono la strage appena avvenuta (il tasso di suicidio dei killer isolati è molto elevato, mentre la maggior parte dei jihadisti sono combattenti non destinati necessariamente al martirio).
Il martire è celebrato profondamente nella retorica del terrorismo islamico, considerato uno strumento della collettività jihadista. Il suicidio dei due della Columbine, di Paddock e di tanti altri, rimane semplicemente l’atto finale di una tragedia mentale. La stessa emulazione che possono ispirare quest’ultimi non riguarda propriamente il martirio, ma la rivincita espressa che tanti altri “falliti sociali” vorrebbero dar sfogo.
Uniformare i vari casi, che vanno dallo spree killer al lupo solitario terrorista, sarebbe comodo, ma allo stesso tempo deleterio. Per quanto ci possano essere delle sovrapposizioni, le due tematiche divergono in aspetti fondamentali e quindi le soluzioni da ricercare non possono essere uguali. Da una parte bisognerà prima o poi affrontare senza remore le psicosi della nostra epoca, individuali e sociali, mentre dall’altra parte c’è da fermare un’offensiva ideologica su scala planetaria. Questioni spinose, terribili, che ci coinvolgeranno per i prossimi decenni.