I n Italia, dopo anni di spettacolare contrapposizione ideologica e culturale tra sovranisti (di destra e di sinistra) e neoliberisti, la crisi in corso ha riunito entrambi sotto la bandiera unitaria del governo Draghi. Nel discorso del suo insediamento il Presidente del Consiglio ha richiamato alla “responsabilità nazionale” contro il “nemico di tutti”, il virus. Sulle orme del precedente governo, “gialloverde” o “Conte bis” a seconda delle simpatie, l’esecutivo Draghi continua a omettere le cause economiche, sociali e antropologiche della pandemia da SARS-CoV-2, che trovano nel neoliberismo la loro legittimazione ideologica e morale. E la presenza dei sovranisti in questo governo non può essere giustificata solo in nome di un loro virtuosismo nazionale, che riunisce tutti nella difesa della patria minacciata da un virus “alieno”.
L’opposizione tra sovranismo e neoliberismo non è che una tensione interna al secondo che è, al contrario della sua concezione ordinaria come ideologia monolitica, un campo plurale e ha differenti declinazioni, tra cui lo stesso sovranismo contemporaneo. Osservando la politica italiana, vi sono due esempi a supporto di questa lettura. Il primo è rintracciabile nel passaggio dal governo Conte a quello Conte bis: continuità de facto delle politiche securitarie, anti-migranti e restrittive dei diritti politici e sindacali promosse da Minniti, inasprite da Salvini e poi impiegate da Lamorgese; la linea giustizialista, punta di diamante del populismo e del sovranismo, ha trovato la continuità perfetta in Bonafede, ministro in entrambi i governi. Mentre dal punto di vista economico, la proposta di Flat tax della Lega, prima apertamente osteggiata dal PD, è stata poi riabilitata ideologicamente con il rifiuto della mini-patrimoniale proposta da LeU.
Quindi se c’è contraddizione, questa sta nell’attuale ordine del discorso che ha polarizzato il campo politico in un’alternativa mortificante: da un lato, il sovranismo, di destra o di sinistra, che difende le prerogative dello Stato, identificato ora con la Nazione in salsa xenofoba ora con il Popolo in salsa “de sinistra”; dall’altro, il neoliberismo, che difende le prerogative del mercato, rivendicando il primato della libera circolazione delle merci e dei capitali, la continua deregolamentazione del mercato del lavoro e il progressivo alleggerimento del carico fiscale sugli imprenditori, compensati dalle politiche di austerity e dalla gestione imprenditoriale dei servizi pubblici in nome della sacralità del pareggio di bilancio.
Questa contrapposizione è stata ben restituita in Francia da Macron durante un dibattito presidenziale con Le Pen: “il nazionalismo è la guerra”. Vincitore delle elezioni dello stesso anno, ha fino ad oggi neutralizzato quotidianamente quel suo attacco ai sovranisti, mescolando privilegi fiscali per i super-ricchi (simboleggiati dall’eliminazione della tassa sui super-yacht) alla militarizzazione della polizia, protagonista di episodi di violenza al limite del gratuito non solo nelle piazze, ma anche nei fermi.
L’opposizione tra sovranismo e neoliberismo non è che una tensione interna al secondo.
L’ultimo richiamo all’ordine e alla ricostituzione di un “fronte unitario” tra neoliberisti è di pochi mesi fa, firmato dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Che nelle considerazioni finali del 2020 ha ricordato: “lo Stato regolamenta l’attività economica privata; produce direttamente o finanzia servizi fondamentali come l’istruzione e la sanità; provvede alla realizzazione delle infrastrutture e sostiene le attività di ricerca e innovazione; definisce e gestisce il sistema di protezione sociale”. E al tempo stesso ha sottolineato l’importanza di non “confondere la necessità di uno Stato più efficace nello svolgere le funzioni che già ora gli sono affidate con quella di estenderne i compiti”.
In linea con la morale neoliberista della resilienza, termine centrale del PNRR, si è quindi identificata l’uscita dalla crisi con il ritorno allo statu quo ante. La rotta è stata abbracciata da tutte le forze politiche neoliberiste e sovraniste, a esclusione di Fratelli d’Italia, obiettivo prefissato nelle parole pronunciate da Mario Draghi nel giorno della presentazione del PNRR: le “miopi visioni di parte anteposte al bene comune peseranno direttamente sulle nostre vite”.
Tra sovranismo e neoliberismo è davvero possibile, quindi, tracciare una netta cesura? È questa la domanda a cui cercano di rispondere Pierre Dardot e Christian Laval in Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident, uscito lo scorso ottobre per La Decouverte, e di prossima traduzione italiana con DeriveApprodi. La loro tesi è che la “sovranità non è morta, e il dominio burocratico dello Stato è più potente che mai, anche se si è travestito, con il neoliberismo, di una retorica anti-statalista”.
Che cos’è la sovranità?
Il corposo testo di Dardot e Laval è il prodotto di “un’inchiesta sulla sovranità dello Stato in Occidente”, come riporta il sottotitolo. Il volume che ne è venuto fuori ha la forma di un vero e proprio manuale per chi voglia studiare il rapporto tra Stato, società, governo e cittadinanza dalle poleis greche e dall’esperienza romana fino ad oggi.
Dardot e Laval avvertono che dare per scontato che la sovranità sia un attributo dello Stato, senza il quale questo sarebbe in balìa di altri poteri, è una mistificazione.
Da questa inchiesta scaturiscono innanzitutto due punti importanti, sia dal punto di vista filosofico che da quello politico. Il primo è di tipo metodologico e riguarda il rapporto tra Stato e sovranità. I due autori lamentano un errore molto ricorrente a proposito, anche a sinistra, ovvero la tendenza a una naturalizzazione del rapporto tra Stato e sovranità. Si dà cioè ormai per scontato che la sovranità sia un attributo dello Stato, senza il quale questo sarebbe in balìa di altri poteri, quindi non libero. Si tratta di una vera e propria operazione di mistificazione, avvertono, che trova le sue radici nel vizio della filosofia ufficiale (“di Stato”, avrebbe appunto detto Gilles Deleuze): si prende un dato storico (la sovranità), lo si astrae dalle sue determinazioni storiche e lo si essenzializza. Un fatto giuridico, dunque, anziché diventare una categoria analitica per leggere un determinato fenomeno storico, diviene un’entità a sé stante dotata di vita propria, che ha il suo fondamento nella teologia o in una metafisica della creazione.
Il risultato è che invece di leggere la sovranità come una qualificazione contingente dello Stato in una situazione ben determinata storicamente, la si trasforma in un suo attributo naturale. Stato, quindi necessariamente sovrano. I due autori si pongono all’opposto di questa forma della filosofia, impiegando un metodo genealogico molto attento alla materialità dei processi storici. In questo modo, l’eternità dello Stato sovrano si sgretola ed emergono le ragioni materiali che lo hanno sorretto: “la sovranità dello Stato nasce solo con lo Stato moderno, quello Stato che si costruì dal XII al XVII secolo. Questo Stato non è lo Stato, ma un certo tipo di Stato”. Lo Stato si dice sovrano non per definizione, ma solo in ragione di fatti politici che trovano la loro increspatura in ciò che hanno definito come “tornante del 1300”, da cui prende il nome il quarto capitolo. È solo grazie a una formidabile congiuntura tra i dibattiti relativi alla scoperta della Politica di Aristotele nel XIII secolo e la lotta tra Impero e Chiesa del XIV che da un lato all’altro del conflitto in corso furono esposte le ragioni della sovranità.
Il secondo punto importante su cui insistono Dardot e Laval è la definizione stessa della sovranità: “il dominio esercitato, all’interno di un dato territorio, da una potenza statale sulla società e su ciascuno dei suoi membri. Detto altrimenti, è il concetto di una forma specifica di dominio, quello dello Stato moderno”. Dominio deriva in particolare da dominium, ovvero la proprietà su cui il “signore” romano (dominus) esercitava il proprio potere. Non a caso, la concezione sovrana dello Stato andrà di pari passo fino al 1789, la Rivoluzione francese, con quella patrimoniale. Ben prima che Luigi XIV affermasse che “l’État, c’est moi”, i sovrani europei facevano una continua confusione tra proprietà dello Stato e proprietà personale, come testimonia l’intensa attività dei giuristi già dal XIII secolo nel legittimare o delegittimare una divisione tra i beni della Corona e quelli della persona fisica del re. Il problema, lungi dall’essere puramente “fiscale”, richiamava quello che ancora oggi costituisce una sorta di mistero dello Stato: essendo questo la proprietà del sovrano, egli ne decide (imperium) in quanto proprietario. Tale concezione del proprio potere da parte dei re è stata accompagnata da un progressivo abbandono delle concezioni universalistiche dello Stato, ora concentrato a esercitare la sovranità sul territorio di sua proprietà.
È su queste basi che, al termine della guerra dei Trent’anni (1618-1648), fu sancito con la pace di Westphalia l’equilibrio europeo, disegnando geograficamente un continente diviso in base al principio del cujus regio, ejus religio. D’ora in poi con sovrano si indicherà il potere di uno Stato libero ed indipendente, che agisce sul campo internazionale seguendo i propri interessi. È l’affermazione della “ragione economica di Stato”, come indicano Dardot e Laval, attraverso cui la sovranità comincia ad esercitare il proprio dominio sugli altri Stati non solo con la forza militare, ma sempre più con la potenza economica. I rapporti tra Stati si sviluppano nella concorrenza mercantile. Sarà su questa base che si svilupperà un secolo dopo il discorso dei fisiocrati, ovvero quegli economisti come Quesnay, che parleranno di un vero e proprio governo economico: “I diritti relativi alla proprietà non possono essere garantiti agli uomini se non attraverso un potere sovrano, che riceve il consenso dei popoli solo a condizione che il suo agire sia perfettamente conforme alle leggi naturali”. In altre parole, il governo delle popolazioni deve essere orientato alle e dalle leggi di mercato, identificate dai liberali come leggi naturali che sorreggono lo Stato, raffigurato come un corpo il cui sangue è appunto la ricchezza. È in questo contesto che Adam Smith esporrà la sua famosa teoria, che molti hanno interpretato come non-sovrana, ma che i due autori indicano come una ridefinizione della sovranità a partire dalle nuove esigenze del mercato — in particolare, la necessità dell’intervento dello Stato nelle disuguaglianze sociali, per difendere il diritto di proprietà. Cambiano quindi le funzioni ma non l’essenza della sovranità.
Le due facce della sovranità
Dardot e Laval spiegano la coesistenza tutt’altro che contraddittoria tra sovranismo e neoliberismo: entrambi ebbero la loro genesi a cavallo tra le due guerre mondiali, sviluppando due facce della sovranità. Il sovranismo affonda le sue radici nella crisi tedesca degli anni Venti, trovando in Schmitt un solido teorico della “sovranità politica”. La Repubblica di Weimar, costituitasi nel 1919, fu immediatamente preda di una importante crisi di rappresentanza, che rifletteva l’instabilità della sua Costituzione, frutto di un fragile compromesso tra le forze liberali e quelle social-democratiche. Se i primi, infatti, perdevano terreno in materia economica per via delle ingenti sanzioni di guerra imposte dai paesi dell’Intesa, i secondi di fatto videro crollare i propri consensi dopo la feroce repressione di diversi tentativi insurrezionali a opera di comunisti e anarchici tra il 1919 e il 1921. Com’è noto, in questa prolungata crisi rappresentativa emerse con forza il progetto nazional-socialista di Hitler, che recuperò la sfiducia di larghe fette della popolazione nei confronti delle forze tradizionali. Nel 1932, per mettere definitivamente ai margini la socialdemocrazia, il presidente del Reich Hindenburg esautorò il governo SPD della Prussia, ponendovi a capo il cancelliere tedesco von Papen. Questo fu l’evento decisivo per il sovranismo. La corte costituzionale fu riunita per decidere sulla costituzionalità dell’esercizio dell’articolo 48 della Costituzione (che riuniva, in casi di comprovata necessità, il potere esecutivo e il potere legislativo nella persona del presidente), pendendo a suo favore per via della minaccia delle violenze delle SA. In questo atto, Schmitt vedeva all’opera l’esercizio della sovranità, che nel 1922 aveva definito nella famosa e lapidaria frase “sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione” (in Le categorie del politico).
Sovranismo e neoliberismo ebbero entrambi la loro genesi a cavallo tra le due guerre mondiali, sviluppando due facce della sovranità.
A dieci anni di distanza da Teologia politica e a pochi mesi dal “colpo di Prussia”, Schmitt pubblicò Legalità e legittimità, uno dei più feroci attacchi alla democrazia. Questa veniva infatti definita come uno “stato debole” che per sopravvivere era naturalmente orientato allo “stato totale”, distorcendo così le possibilità concrete di uno “stato forte”. In altri termini, lo Stato democratico, troppo debole per mantenere la propria legittimità, esercita la propria sovranità estendendo illimitatamente le sue funzioni di controllo, in particolare nell’economia e nei rapporti sociali. Effettivamente, il presidente tedesco Hindenburg aveva rivendicato proprio lo “stato forte” nel nominare cancelliere von Papen. Il padre dei sovranisti dunque vedeva nella democrazia il terreno stesso del totalitarismo, che si poneva come unica alternativa ad una degenerazione anarchica della crisi, per lui strutturale e non congiunturale. Il problema cioè non riguardava la Repubblica di Weimar, ma la democrazia tout court. Per sopperirvi, Schmitt propose la riunione del potere esecutivo e del potere legislativo nelle mani del sovrano, unico legittimo detentore del potere (dominium), che lo avrebbe esercitato nella decisione (imperium).
È su questo terreno che si mossero i primi neoliberisti, da von Rüstow a Pöpke fino a von Hayek, che iniziarono a tracciare le linee della loro teoria proprio negli anni ’30 del secolo scorso. Tutti i neoliberisti tedeschi, riuniti nel congresso Lippmann del 1938 a Parigi, si mostrarono concordi in due punti: la democrazia ha una vocazione totalitaria, nel senso schmittiano che abbiamo su riportato; va quindi esautorata a favore di un nuovo ordine globale, in cui gli Stati vengono a togliere, di volta in volta, gli ostacoli ai flussi di capitale. La doppia espressione sovrana del comando e del dominio, finora interna allo Stato, viene ad articolarsi in una divisione di competenze. Allo Stato, la sovranità politica (la decisione); al capitale, la sovranità economica (la dominazione). Questo passaggio è di estrema importanza, perché proprio su questo si costruiranno sia la mistificazione anti-statalista del neoliberismo sia la retorica del sovranismo. Nella ricerca di Dardot e Laval, questa polarizzazione viene a saltare, scoprendo la verità nascosta da questi misteri dello Stato.
Von Hayek, infatti, ne La via della schiavitù (1944) si pose in perfetta continuità con Schmitt: il neoliberismo ha bisogno della sovranità dello Stato-nazione, nella misura in cui “solo un’autorità autenticamente politica incaricata di far rispettare una legge costituzionale mondiale sarà in grado di limitare il potere politico potenzialmente nocivo degli Stati”. Il neoliberista, per altro ispiratore della Costituzione di Pinochet abolita solo pochi mesi fa dopo un potente ciclo di lotte in Cile, comprese a pieno che non si poteva dare un’efficiente costituzione economica senza una robusta costituzione politica. Lungi dall’opporle, seguì l’intuizione del giurista tedesco ponendo la decisione sovrana a fondamento della possibilità stessa dell’istituzione della concorrenza e del libero mercato. In quest’ultimo, infatti, non vi è auto-regolazione, ma i flussi di capitale e di merci hanno bisogno di un supporto e di un incentivo dai diversi Stati, che devono quindi impegnarsi per rendere più competitive le forze economiche nazionali e più appetibile la delocalizzazione in suolo delle aziende straniere. Di qui, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la restrizione sulle libertà sindacali, la campagna contro i privilegi del “posto fisso”, le proposte di riforma del sistema fiscale progressivo a favore del taglio del carico fiscale per i più ricchi.
A differenza della retorica sovranista e neoliberista attuale, von Hayek ribadiva con forza il rapporto tra l’una e l’altra teoria: il libero mercato implica necessariamente una vigorosa sovranità stato-nazionale. È quanto registrarono, con altre parole, Deleuze e Guattari nel 1972: Se è vero che la funzione dello Stato moderno è la regolazione dei flussi decodificati, deterritorializzati, uno dei principali aspetti di questa funzione consiste nel riterritorializzare, per impedire ai flussi decodificati di sfuggire da tutti gli angoli dell’assiomatica sociale. Si ha talora l’impressione che i flussi di capitale filerebbero volentieri sulla luna, se lo Stato capitalistico non fosse lì a ricondurli sulla terra
scrivono ne L’anti-Edipo.
Dunque, oggi, la traumatica continuità tra il governo gialloverde e quello giallorosso in Italia tanto in materia di sicurezza quanto in materia economica, così come la gestione macroniana di un ordine pubblico à la Le Pen in Francia, rivelano non solo la co-appartenza di queste false opposizioni. Ma anche, come scrivono Dardot e Laval, “una necessità pratica: l’integrazione in un ordine economico globale molto favorevole al capitale e generatore di diseguaglianze sempre più oscene suppone la riaffermazione repressiva della sovranità statale il cui volto poliziesco e punitivo è sempre più evidente”.
Per un popolo sovrano oltre la sovranità del popolo
Il capitale, il mercato, i flussi di capitali e merci – delle cose e dei rapporti – non possono governare. Sovranismo e neoliberismo, la governance globale e le istituzioni stato-nazionali sono le due facce del governo del capitale, dei mercati, dei flussi. A decidere è sempre la politica. È cioè sempre qualcuno, in carne ed ossa, non delle cose inanimate. Bisogna allora uscire dalla logica che fa di un oggetto morto un soggetto vivo, alzare il tappeto della sovranità e nominarlo per quello che è: un “regime di irresponsabilità”. Affermare questo significa impiegare il metodo materialista, che richiamavamo più sopra. Marx avrebbe detto che si tratta di rovesciare il rovescio, riportare sui piedi quello che la filosofia trascendentale pone gambe all’aria. Più semplicemente, è questione di pensare con le mani.
A decidere è sempre la politica. È cioè sempre qualcuno, in carne ed ossa, non delle cose inanimate.
Procedendo in questa maniera, Marx comprese che il problema della filosofia del diritto di Hegel stava in un principio di mistificazione: la rappresentanza. Il filosofo della dialettica, infatti, aveva operato un’analogia tra lo Stato e l’organismo vivente, seguendo il teorico del liberalismo autoritario Hobbes. In questa maniera, poté affermare nei Lineamenti di filosofia del diritto che l’Idea dello Stato si esplicava nella costituzione politica , nello stesso modo in cui l’Idea dell’uomo si esplica nella costituzione umana. Come se un’Idea possa agire, così commentava Marx, che vide chiaramente il rovesciamento della realtà operato in questo ragionamento: se nella realtà è lo Stato il soggetto e “sovrano” è il suo predicato, in Hegel il primo diventa predicato del soggetto “sovranità”. In altre parole, è come se un aggettivo potesse agire. Un esempio concreto spiega meglio il controsenso hegeliano: se Hegel avesse sentito un cane scuro abbaiare, avrebbe detto che era lo scuro ad abbaiare, non certo il cane.
La questione non è capire come agisce la sovranità, ma capire chi la esercita. È forse lo Stato? Effettivamente, ancora oggi diciamo che lo Stato ha fatto, non ha fatto, ha scarsa attenzione verso questo o quel problema… Possiamo quindi sostenere che lo Stato eserciti la sovranità? No, perché esso è la struttura mediante cui essa viene esercitata, o meglio lo “Stato è un astratto. Soltanto il popolo concreto”. Perciò, secondo Dardot e Laval, Marx scopre l’equivocità della sovranità: non trattandosi di un soggetto autonomo, essa cambia di senso se riferita a questo o quell’altro soggetto. In altre parole, citando Marx in Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico si “può anche parlare di una sovranità popolare, in antitesi alla sovranità esistente del monarca”.
È molto importante questa antinomia, perché riflette insieme la complementarità tra le false polarizzazioni del dibattito attuale e oppone ad essa un’altra posizione. Da un lato, infatti, ritroviamo una sovranità di qualcosa — del popolo, del monarca, della Nazione o del mercato — e dall’altro una sovranità come aggettivo. Hegel pensava la sovranità come soggetto (di qui la specificazione “di”) a partire dalla disgiunzione, cara a filosofi liberali come Hobbes, tra la sfera pubblica e quella privata. La prima era essenzialmente politica, e designava lo Stato, mentre la seconda era sociale e si esprimeva nel campo della società civile (il mercato genericamente inteso). In questa maniera, lo Stato appariva come un qualcosa di separato dalla popolazione, impegnata nei traffici quotidiani, e agiva sulla società, nella doppia articolazione del comando e della decisione, come momento di sintesi dei conflitti sociali.
Marx, invece, inserendosi in una tradizione materialista che fa capo alle esperienze più radicali della Rivoluzione francese fino alla proposta spinoziana della democrazia assoluta, vedeva in questa disgiunzione Stato/società civile un’ulteriore mistificazione. La sua affermazione secondo cui lo Stato è un astratto mentre solo il popolo è concreto ricalca appunto la definizione di Spinoza del diritto dello Stato come potenza della moltitudine. Questa immagine del pensiero che chiamiamo materialismo ci consegna una concezione dello Stato come espressione delle relazioni e dei rapporti sociali, costantemente ridefiniti dalle determinazioni storiche che li percorrono.
Occorre opporre alla delega irrevocabile la revocabilità del mandato, alla rappresentanza l’autodeterminazione, alla segretezza delle decisioni la trasparenza della costruzione collettiva, al ceto dei rappresentanti e dei professionisti della politica la partecipazione democratica.
La politica ha un rapporto ricorsivo con i fatti sociali, non con Dio o con un trascendentale che ne faccia le veci, e indica lo spazio della dialettica tra le forze sociali attorno ad una decisione. È questa verità che ci viene nascosta quando sentiamo qualcuno dire che “Io, lo Stato, sono il Popolo” (Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Chi lo fa, sottraendoci questo sapere, ci deruba della possibilità di intervenire nella dialettica politica, ci priva degli spazi di autodeterminazione. Oggi si è dotato di due nomi, neoliberismo e sovranismo, e il libro di Dardot e Laval invita a riconoscere questo mostro a due teste. Per opporre alla delega irrevocabile la revocabilità del mandato, alla rappresentanza l’autodeterminazione, alla segretezza delle decisioni la trasparenza della costruzione collettiva, al ceto dei rappresentanti e dei professionisti della politica la partecipazione democratica. O, come sostengono i due autori, per opporre all’irresponsabilità del governo la responsabilità dell’autogoverno.
Che significa che il diritto dello Stato è la potenza della moltitudine, quindi? Che il vero attore della vita politica di uno Stato è la moltitudine; per questo, una volta spezzata la ricorsività tra rappresentanti e rappresentati, i primi non possono più nulla rispetto ai veri attori della scena. Perché rompono quella tra politica e società, slegando il diritto dello Stato dalla potenza della moltitudine, ovvero tagliano il ramo su cui sono seduti. Non a caso, la crisi attuale della rappresentanza è il prodotto di questa frattura, che i rappresentanti hanno approfondito in un vero e proprio regime di irresponsabilità, demandando la decisione dell’imposizione delle politiche anti-popolari a soggetti inesistenti: “ce lo chiede il mercato”, “ce lo dice l’Europa”. Questo è il motivo per cui Spinoza definisce il governo democratico come “il più naturale e il più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno” e Marx afferma che “tutte le forme politiche hanno come loro verità la democrazia”.