E nrico Deaglio è nato a Torino nel Dopoguerra. Laureato in medicina nel 1971, nel 1977 diventa direttore di Lotta Continua, incarico che lascia cinque anni dopo. Collabora quindi per La Stampa, il Manifesto, Panorama e altre testate. A fine anni Ottanta inizia a lavorare per Mixer di Giovanni Minoli, dove porterà avanti delle inchieste sulla mafia che finiranno in alcuni dei suoi primi libri (nel 2021 Deaglio verrà incaricato come consulente della Commissione Antimafia della Regione Sicilia sul depistaggio del delitto Borsellino). Ai tempi di Mixer risale anche la “scoperta” della vicenda di Giorgio Perlasca, a cui dedicherà La banalità del bene. Negli anni Novanta conduce l’ultima stagione di Milano, Italia e altri programmi di inchiesta e attualità politica su Raitre (oggi viene detto: infotainment). Dal 1997 al 2008 dirige il settimanale Diario; negli stessi anni inizia la stesura di Patria 1978–2008 (con l’aiuto, nella curatela, di Andrea Gentile), un tentativo di cronaca onnicomprensiva di trent’anni di storia italiana, dalle canzonette ai decreti legge.
Patria funziona, ne seguiranno altri due: Patria 1967–1977 e Patria 2010–2020 (entrambi Feltrinelli), e da questa genealogia nascerà l’ultima fatica di Deaglio, il gigantesco C’era una volta in Italia, a cui ha collaborato Ivan Carozzi. Dal libro nasce questo dialogo, nella speranza (fallita) di intuire quale elemento della scrittura di Deaglio porti alla lettura compulsiva: se è la scrittura ordinata dello studioso a passeggio, da imputare, o la pietà per gli eterni dolori della nostra crescita. Pietà e incanto per una nazione che oscilla tra il complesso di inferiorità e un’allegra, rabbiosa, inferiorità effettiva.
Negli ultimi quindici anni si è trovato a lavorare su tre edizioni di Patria. Nella concezione dell’opera e nella sua stesura, qual è la discontinuità principale con C’era una volta in Italia? Qual è stato l’innesco che l’ha portata a tornare nel cantiere di un’opera simile?
Beh, da una parte è perché si diventa vecchi, e quindi si vorrebbe lasciare un segno; dall’altra è che col passare del tempo le cose diventano più chiare. Il primo Patria era spinto da un intento di “controinformazione”; io volevo raccontare che un conto era la “storia ufficiale” della “nostra patria” (il titolo mi era venuto da un colossale programma televisivo tedesco, Heimat) e un conto era quella vera, molto diversa. Emergeva un’Italia violenta, ipocrita, con una democrazia fragile e una collusione tra crimine e politica decisamente inaspettata. La “patria” era quella che aveva ucciso Moro, favorito l’ascesa della mafia, degradato il vivere civile con l’ascesa di Berlusconi, cui non poteva seguire altro che un declino, morale in primo luogo, ma poi anche delle nostre condizioni materiali. Era, di fatto, una “controstoria”. Lo stile era quello dei telegiornali, un rullo di notizie, inframmezzato da “note di costume”.
Questo progetto è molto diverso, e copre – nelle intenzioni – un periodo di tempo molto più ampio: dal 1960 ai giorni nostri. È una narrazione, segue la memoria e indaga sui fatti; recupera documenti, fatti e persone condannate all’oblio, ritraccia la genesi di avvenimenti. È strutturato sempre come una cronaca, con largo uso di immagini, ma spero che conservi il sapore (e gli odori, e le commozioni) di un tempo lontano. In più, sono facilitato dal fatto che alcuni, non tutti, dei misteri che ci accompagnano (stragi, etc – ovvero l’essenza della nostra vita) si stanno forse risolvendo. E questo rende la struttura come un cold case di una crime story dimenticata…
Questa, perlomeno è l’idea. Un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo! E io mi diverto.
La lettura dei Patria e di C’era una volta, nonostante le congiure e i morti ammazzati e le cosche, è sempre un’esperienza appagante, direi calmante: una delle ragioni principali è il senso, se non l’illusione, di una direzione lineare e ordinata degli avvenimenti, e forse a darci questa rassicurazione è l’accumulo di una storia che veniva raccontata da pochi “gatekeeper”, ovvero la RAI, la radio, il Corriere della Sera e poco altro: la storiografia beneficia, paradossalmente, della relativa scarsità di informazioni e mezzi pre-internet. Qual è stata l’esperienza di scrittura di Patria 2010–2020? Se dovesse cimentarsi nella scrittura di un C’era una volta del decennio appena iniziato, quali metodi adotterebbe? Quali fonti?
Riscoprire le fonti è un lavoro di archeologia, e funziona meglio più si torna indietro. Ora bisognerebbe dire delle cose risapute: siamo sommersi da fake news, verità alternative, conspiracy theories, che anche loro hanno i loro cicli e le loro regole. Qui però si entra in un terreno ostile: internet ha distrutto il monopolio degli storici, dei sacerdoti, dei depositari autorizzati del Sapere. Ricordate le proteste contro “l’uso pubblico della Storia”? Ricordate “le sentenze non si discutono”? O le “verità condivise”?; non sono più verità rivelate. E adesso arriva anche l’AI.
Devo dire che, essendo la CHAT GPT arrivata nel mezzo del nostro lavoro, io mi sono piuttosto spaventato. Ho fatto subito una prova: ho chiesto: “sai dirmi i nomi dei morti di Reggio Emilia uccisi dalla polizia nel luglio 1960”? L’AI non era in grado. Ho tirato un sospiro di sollievo. Abbiamo ancora qualche anno davanti. L’artigianato, la memoria, il colpo di fortuna sono ancora le armi migliori per scrivere libri che riguardano il passato. O, per dirla con il mio amico Beppe Cremagnani, quello che ci vuole è : “oech, gamba, bus del cul, e memoria”.
Uno dei testi più commossi del libro è un suo articolo del 2012, in memoria di Gigi Meroni, il fantasista del Torino. Ha visto giocare dal vivo Gigi Meroni, allo stadio? In che modo nei suoi ricordi la morte di Meroni si mescola a quella di Che Guevara?
Sono nato a Torino nel 1947, in via Massena, ovvero a duecento metri da dove Meroni è morto. Il Grande Torino è precipitato il 4 maggio del 1949, quando avevo due anni. Ho un ricordo di me bambino seduto sulle ginocchia di mio cugino Emilio a promettergli che sarei sempre stato granata. Sono sempre andato allo stadio Comunale, distinti centrali, in alto. Ho visto giocare Virgili, Moschino, Arce, gli anni bui… Meroni fu un lampo di genio, il vero precursore del ’68. Avevo vent’anni, ero studente di medicina e allievo interno dell’ospedale Mauriziano, nel senso che vivevo lì, quando ci svegliarono tutti perché era arrivato, in fin in vita, Gigi Meroni. La commozione che racconto era di tutta la città. E mi ricordo anche che “uno squilibrato”, nella settimana dopo, aprì la tomba di Meroni a Como e prese delle foto al cadavere, voleva dimostrare che il morto non era lui. Stampa Sera ci fece tutta la prima pagina. Erano i giorni in cui circolavano notizie incerte sulla sorte di Che Guevara? Era davvero lui, il morto mostrato dai boliviani? Meroni, un po’ ci assomigliava al Che… Questo il mio ricordo.
Soffermiamoci sull’apparato delle note di C’era una volta. Leggendo la parabola di Tamara Baroni, la giovane amante di Mr. Bormioli (quelli del vetro), rinominata “Tamiura” per la sua Lamborghini, Miss Italia quarta classificata a Miss Mondo, che verrà cooptata da Pannella per le campagne sul divorzio, per diventare poi attivista per la libertà sessuale e i diritti delle donne; che scriverà poesie, scriverà per Alfabeta, andrà a vivere in Brasile; ecco, si legge che “il massimo della sua fama lo raggiunge quando la rivista Zip allega al numero un fascicoletto con un servizio fotografico e una bustina che contiene ‘i peli di Tamara’. In copertina è scritto ‘In omaggio una ciocca’. Le vendite arrivano a 400mila copie”. Come nell’antica compravendita delle reliquie di Cristo, il divino è più grande delle sue parti. Ecco che su Zip il libro rimanda a una nota in fondo al testo:
A proposito di peli pubici: furono un’ossessione del poeta Allen Ginsberg che li collezionò e poi li rimise in vendita grazie a un famoso negozio dell’East Village, a New York, il Peace eye bookstore, gestito dal musicista, poeta scrittore Ed Sanders. Ogni sacchettino contenente peli pubici era accompagnato da una breve descrizione scritta da Ginsberg. Faceva parte della collezione anche un pelo pubico appartenuto a Giuseppe Ungaretti, che ne fece dono a Ginsberg nel 1963, in occasione di un viaggio di Ungaretti a New York. Una volta autoestratto il pelo pubico, Ungaretti esclamò: “C’est blanc!”.
L’insieme delle note è un piccolo libro parallelo, molto ma più asciutto ma comunque ricco di trovate e storie preziose: come l’avete concepito, lei e Ivan Carozzi?
Sì, le note sono un libro parallelo e sono opera di Ivan, come molte altre cose del resto. Ivan è un Indiana Jones del passato prossimo; scava, fotografa, registra… Io ho dei ricordi, lui ne trova molti di più. Ci divertiamo molto. Più in generale questo altro sguardo sia un formidabile valore aggiunto, come avere un’altra lente… In questo volume ce ne sono tante: un Fellini al balcone che parla con Carlo Mazzarella, l’eskimo di suo padre alla Bussola, l’arrivo di Kerouac a Milano e quello di Bob Dylan a Perugia, l’immagine del trasporto della salma di Togliatti da Ciampino a Botteghe Oscure scortato dai motorini della FGCI, l’idea di mettere a suggello del 1966 la foto di Franca Viola nel commissariato di polizia di Alcamo…. Per quanto riguarda il paragone con le reliquie, sì queste – come gli autografi, i peli pubici, i selfie, sono le reliquie del mondo moderno.
Il libro include un lungo approfondimento del convegno dell’hotel Parco dei Principi (1965), il primo vero punto di contatto tra apparati militari eversivi e giovani terroristi di estrema destra: dal Parco dei Principi si arriverà a Piazza Fontana, Piazza della Loggia, eccetera. Che effetto le ha fatto tornare in Italia dopo qualche anno, come racconta lei stesso, e trovare manifesti alla memoria di Pino Rauti su tutti i muri, per la Presidente Meloni “un punto di riferimento assoluto della destra italiana”?
Una sofferenza. Pensare che tutto quello che avevamo fatto era stato vano, come la superficie di un soufflè; sono bastati un Bossi, un Grillo, una Meloni per cambiare quella che sembrava una traiettoria definita… Non lo è. Abbiamo eletto ad eroi imprenditori malandrini, squallidi magistrati, improbabili politici e carabinieri; li abbiamo digeriti, più o meno.
C’è un’ondata di vomito, oggi, in Italia; stiamo affogando nel vomito che noi stessi abbiano formato.
“Approfittando delle vacanze di Natale e sperando di trovare pochi occupanti, la polizia sgombera Palazzo Campana, ma vi trova dentro ben 488 studenti. Non avvengono scontri, gli occupanti fanno resistenza passiva e vengono portati via di peso, denunciati e tutti schedati. L’elenco completo è pubblicato dalla Stampa, il quotidiano di proprietà della Fiat”.
Come è venuta l’idea di includere l’elenco integrale degli occupanti di Palazzo Campana a Torino, uno degli apici delle rivolte studentesche del ’67? E più in generale, dei vari elenchi che costellano C’era una volta? C’era la speranza di ravvivare qualche memoria sopita, qualche vecchia amicizia?
Sì. Sicuramente. Ricordare i visionari, le vittime, la meglio gioventù, i dimenticati, gli sparati, i feriti, gli immigrati, i morti di mafia. L’Italia dovrebbe ricordarli, come “grande quantità e qualità” della nostra storia. Nessuno me lo ha chiesto, ma mi piace prenderlo come compito.
Vorrei citare, per chi non l’avesse letto, il passaggio sul “misterioso HATU”.
Non c’era, naturalmente, alcuna forma di educazione sessuale nelle scuole e ce n’era poca nelle famiglie. C’erano notizie confuse su come “si rimane incinta”, sulla sifilide e sulla gonorrea, sull’aborto e sui mezzi per procurarselo: beveroni, ferri, mammane o cliniche, o viaggetti a Londra, a seconda del censo. Per i maschi c’era il preservativo, ma anche questo era accompagnato dalla vergogna e dal mistero. Nella Rai e nei suoi caroselli si parlava molto del corpo: del fegato e dei suoi (inutili) ricostituenti, delle bocche da curare con dentifrici miracolosi a base di Gardol, del bruciore di stomaco, del Cynar che faceva bene a tutto, del raffreddore da combattere quando è incipiente, ma il sesso era tabù e quindi contraccettivi, assorbenti, anticoncezionali semplicemente non esistevano. Il mio ricordo è di uno stadio, il Comunale di Torino, dove da ragazzino andavo a soffrire per la mia squadra. Prima della partita, in mezzo al campo di gioco, mentre lo speaker scandiva i nomi dell’arbitro e dei segnalinee e poi – con solennità – annunciava le formazioni delle squadre, si alzava, in silenzio, dal centro campo, portato in cielo da palloncini, un enorme stendardo con la scritta “HATU”. HATU era il preservativo, non c’era bisogno di dirlo. Fare pubblicità a un preservativo era vietato, HATU era però tollerato negli stadi di calcio. Era prodotto da una vecchia industria di Bologna, e il nome, così strano, significava Habemus Tutorem (abbiamo una protezione), ed era tacitamente approvato dalla chiesa, fin dai tempi del nostro Impero in Etiopia.
È con queste immagini sepolte nel tempo che si crea il fascino microstorico del libro. Come nasce una pagina come quella che abbiamo appena letto? Esiste forse un quadernino primordiale pieno di appunti e ricordi che aspettano di finire in un libro? Sembra che la memoria, invece di essere frutto del caso, sia utilizzata come uno strumento del mestiere.
Spesso lei si trova a parlare del passato, da vent’anni uno scavo continuo. Che idea si è fatta del futuro del nostro Paese? Se avesse vent’anni oggi, in cosa crederebbe? Cosa vorrebbe diventare, da grande?
Non credo che il nostro paese abbia un gran futuro, l’ha dissipato molto tempo fa, con allegria spensierata e crudele. Ha distrutto, per futili motivi e per egoismo, la fiducia nella democrazia. Molti resistono, ma non so per quanto. A vent’anni facevo surf, come tutti, su un’onda gentile. Ho sempre pensato, però, che avrei dovuto andarmene allora, quando si era sulla cresta dell’onda… E mi pento un po’ di non averlo fatto. Non credo di aver sprecato la mia vita, che è stata interessante e sicuramente privilegiata. Sento però che il peggio sia alle porte.
Una cosa di cui vado fiero, come giornalista, è di aver fatto conoscere la storia di Giorgio Perlasca che, da solo – e senza che nessuno glielo facesse fare – salvò cinquemila ebrei ungheresi dalla deportazione e dalla morte. Il suo nome è legato ad un’epoca, in Italia, in cui ci ponemmo dei problemi, ci interrogammo su che cosa era stato giusto fare, in tempo di guerra. Ora la guerra è tornata, e non andrà via. Eppure, pare, ci stanchiamo presto: dell’Ucraina, dell’ecologia, dell’ecatombe dei migranti, della moralità pubblica; il fatto che chi ci governa sia l’erede del fascismo non ci sconvolge più di tanto.
Sono tornato a Torino, dopo aver vissuto parecchio all’estero, vicino a casa mia c’è quella in cui abitò Primo Levi, morto suicida nel 1987. Quando passo davanti a quella casa, penso che almeno gli è stato risparmiato vedere l’università di Torino occupata da studenti (e professori) che inneggiano ad Hamas e che applaudono i loro pogrom come logici, giusti, raccomandabili. E non c’è nessun Perlasca in giro, sembra.