L i chiamano kong chao qingnian, “la gioventù dal nido vuoto”, sono i cinesi nati negli anni Novanta che cercano fortuna in città e finiscono per vivere in solitudine, rompendo così la tradizione confuciana che vorrebbe tre generazioni sotto lo stesso tetto. Certo, anche molti di loro vorrebbero metterci qualcuno, sotto il tetto, ma nella Cina ipercompetitiva di questi tempi, se non riesci a procacciarti il binomio che connota e rallegra il ceto medio globale – casa e macchina – è difficile che tale desiderio si avveri. Uno di questi giovani istruiti ha così ben sintetizzato su un social network la propria condizione: “Nessuno mi chiede se lo zhou è abbastanza caldo, nessuno è con me quando fa buio” (lo zhou è il porridge insapore sinonimo di colazione per i cinesi). Il Quotidiano Metropolitano del Sud (Nanfang Dushibao) parla di una vera e propria “sindrome del nido vuoto” con conseguenze che attengono alla sfera della psicanalisi. Qui però non si parla più dei liushou ertong, i bambini “lasciati indietro” nei villaggi dai genitori migranti, né dei vecchi altrettanto abbandonati. Il problema investe quella piccola borghesia in divenire che dovrebbe costituire la spina dorsale della Cina del futuro: soddisfatta, benestante, consumista, politicamente stabilizzante. A quanto pare, depressa.
È un fenomeno globale, quello della solitudine metropolitana. Ci si chiede se non sia quasi fisiologico il fatto che un giovane arrivato in città debba passare un periodo del genere, in attesa di costruirsi nuove relazioni e, possibilmente, una famiglia. Anzi, molti studi sottolineano l’effetto benefico dell’urbanizzazione. Nel 2002, la rivista medica britannica Lancet calcolava 23,2 suicidi ogni 100.000 persone in Cina tra il 1995 e il 1999, uno dei tassi più alti del mondo. Si trattava soprattutto di donne che vivevano in campagna. Nel 2014, una ricerca dell’Università di Hong Kong ha rivelato invece un tasso medio annuo del 9,8 per 100.000 abitanti nel periodo 2009-11, per un calo del 58 per cento. Il crollo dei suicidi veniva messo in relazione con l’avvenuta urbanizzazione della società cinese, in cui proprio in quegli anni i residenti in città hanno superato il 50 per cento. Ma come al solito, in Cina, anche un piccolo malessere rischia di divenire problema sociale. I fenomeni sono potenziati dalle dimensioni del Paese e dalla fenomenale accelerazione degli ultimi decenni, che ha compresso i tempi in cui è necessario correre ai ripari.
Uno studio dell’università di Trondheim, Norvegia, evidenzia che non è facile per i giovani cinesi comprendere i Minor Psychological Problems (Mpp) di cui sono affetti. Se da un lato alcuni cominciano ad avvicinarsi alla psicanalisi occidentale, che è arrivata anche oltre la Grande Muraglia, la maggior parte continua a negare il problema o a cercare vie d’uscita che non comportino il “perdere la faccia” al cospetto dei familiari e dei coetanei. Finché non esplodono. Lo stesso studio, rivela che i problemi psicologici che affliggono la gioventù cinese sono dovuti al vuoto creato dal passaggio di una società basata sull’interdipendenza e sui valori confuciani di pietà filiale, obbedienza, rispetto, benevolenza, e autocontrollo, a una in cui tanti individui monadizzati puntano a prosperità personale e successo.
Ci si muove verso le grandi città per lavorare, rincorrere il benessere, e costituire una nuova famiglia.
Il fenomeno di distruzione dei legami fondamentali del confucianesimo comincia in realtà a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando una nuova gioventù intellettuale si mette all’opera per criticare quella società tradizionale che ha condotto la Cina al “secolo dell’umiliazione”, cioè la colonizzazione straniera di parti strategiche di territorio. Si tratta di modernizzare il Paese, imparare dall’Occidente ciò che l’ha fatto forte, e alcune componenti radicali arrivano a contestare le tre relazioni fondamentali della filosofia confuciana: governante-suddito, padre-figlio, marito-moglie. È in quegli anni che si va in direzione di rapporti più egualitari, che riguardano anche la condizione della donna, almeno quella inurbata. L’ulteriore strappo arriverà a Repubblica Popolare già insediata con la Rivoluzione Culturale, tra anni Sessanta e Settanta: lì, i figli si ribellano ai padri e la campagna Pi Lin, Pi Kong – “criticare Lin (Biao), criticare Confucio” – assimila l’ex delfino di Mao, caduto in disgrazia e morto in un misterioso incidente aereo, al vituperato fondatore del pensiero cinese, simbolo di vecchiume.
Sulla tabula rasa, arriva poi l’accelerazione capitalista denghiana di fine anni Settanta, il socialismo di mercato o “capitalismo con caratteristiche cinesi”. Da un lato, il modello di produzione collettivista delle comuni popolari viene sostituito dal sistema di responsabilità familiare, che trasforma il nucleo fondante della società in aggregato economico. Dall’altro, però, gli espropri di terre per fare posto alle fabbriche e poi al galoppante mercato immobiliare creano l’esercito di migranti che di fatto rappresentano la lacerazione di quello stesso nucleo. La famiglia patriarcale va allora in crisi, ci si muove verso le grandi città per lavorare, rincorrere il benessere, e costituirne una nuova di famiglia: coniugale, impresa economica, nucleo competitivo. E se non riesce a crearla, l’individuo sgomiterà per averla. In questo quadro, i vecchi “lasciati indietro” non hanno alcuna funzione da assolvere per le nuove generazioni, i bambini improduttivi vengono lasciati con loro e i giovani protesi in avanti combattono la loro guerra quotidiana rischiando di fallire e ritrovarsi soli. Ed ecco la “sindrome del nido vuoto” che accomuna più generazioni.
Un articolo comparso lo scorso gennaio sulla “Finestra verso Sud” (Nanfeng chuang, più comunemente conosciuto come “rivista del sud”), sosteneva che la famiglia di cui c’è bisogno oggi in Cina è però il risultato di una mutazione ulteriore. Di fronte allo stress della vita contemporanea e al rallentamento dell’economia, anche il modello di “unità economica” dei tempi di Deng, che aveva a sua volta sostituito il modello patriarcale, non funziona più. Adesso si tende a una famiglia-comunità, che metta al riparo dalle lacerazioni contemporanee, una sorta di luogo dell’armonia e dell’aiuto reciproco. Non più genitori che danno precetti morali e a cui si deve rispetto e riverenza, ma neanche l’unità economica. Ci vuole una rete flessibile che sappia rispondere in tempo reale ai bisogni – non solo materiali – di chi ne fa parte.
Secondo il Nanfang Dushibao, la soluzione per la “sindrome del nido vuoto” potrebbe venire dalla città stessa, con le opportunità di creare famiglie alternative o comunità urbane che offre. Reti di mutuo soccorso, convivenze estese, legami molteplici. È la società cinese che evolve, o che cerca di farlo.