N el Liber Gomorrhianus, singolare testo medievale di Pier Damiani, il santo dà testimonianza di come durante la sua epoca il vizio della sodomia fosse diffuso a tal punto nel clero che molti preti erano arrivati a confessarsi tra di loro pur di evitare ritorsioni: “l’immondo confessa all’immondo la comune corruzione”. Scritto nel 1051, il Libro Gomorriano era stato concepito dal suo autore alla maniera di un trattato morale, come estremo tentativo di estinguere alla radice la spaventosa corruzione morale della Chiesa: “Nelle nostre regioni cresce un vizio assai scellerato e obbrobrioso. Se la mano della severa punizione non lo affronterà al più presto, certamente la spada del furore divino infierirà terribilmente minacciando la sventura di molti.”
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, la reazione della Curia fu però piuttosto moderata. Sappiamo che Papa Leone IX, pur lodando l’intento morale, si rifiutò di approvare le severe misure disciplinari proposte dal monaco, che prevedevano l’immediata espulsione da ogni grado “dell’immacolata Chiesa” per chi si fosse macchiato di quel tremendo peccato, all’interno del quale Pier Damiani includeva la masturbazione (sia solitaria che reciproca), i rapporti interfemorali e la fornicazione anale. Nos humanius agentes, la lettera del Papa in risposta al libro, è un’esplicita dichiarazione d’intenti:
Noi, agendo più umanamente, desideriamo e anche ordiniamo che quelli che hanno emesso il seme [stimolandosi] o con le proprie mani o scambievolmente con qualcun altro, e anche quelli che l’hanno emesso [stimolandosi] fra le cosce, se non è una pratica che dura da molto tempo o compiuta con molti uomini, e se essi hanno trattenuto il loro desiderio ed espiato questi vergognosi peccati con una penitenza adeguata, confidando nella misericordia divina, siano ammessi alla stessa carica che tenevano al momento del peccato, se in esso non vi sono rimasti a lungo.
Sappiamo inoltre che il Sinodo Lateranense del 1059 sembrò ascoltare tutte le richieste di riforma sollecitate da Pier Damiani, tranne quelle che riguardavano la sodomia, e ciò dovrebbe destare quanto meno curiosità se si pensa all’attenzione che la stessa Curia riservò all’imposizione del celibato, e il conseguente rifiuto di tutti i matrimoni ecclesiastici, che verranno definitivamente invalidati con il Concilio Lateranense del 1123. Che tale bizzarria fosse dovuta in parte proprio alla larga diffusione di relazioni tra membri del clero dello stesso sesso è una congettura che trova riscontro in una satira del tempo, nella quale si ridicolizza la figura di un vescovo riformatore: “L’uomo che occupa questa sede [episcopale] è più Ganimede di Ganimede. / Senti perché esclude gli sposati dal clero. / Egli non ama i servizi di una moglie.”
I primi codici europei in cui la sodomia viene espressamente punita con la morte in quanto “peccato contro natura” risalgono soltanto al XIII secolo.
Tanto questa satira quanto Nos humanius agentes partecipano a quell’intreccio di reperti testuali che ci consentono di mettere in dubbio una serie di grossolane convinzioni congestionate nell’immaginario comune, come l’assoluta intolleranza verso l’omosessualità, intolleranza a lungo considerata “intrinsecamente” medievale e che andrebbe invece ricollocata soltanto nella fase più tarda di questa fase storica, quando l’imporsi della “naturalità” all’interno del discorso teologico e legislativo dava avvio a un lungo processo di totale regolamentazione della vita.
I primi codici europei in cui la sodomia viene espressamente punita con la morte in quanto “peccato contro natura” risalgono infatti soltanto al XIII secolo: ne è un esempio il Fuero Real, voluto da Alfonso X. Nel commentare la nascita di un’Europa della persecuzione nel suo libro Il cielo sceso in terra, Jacques Le Goff spiega che “se il XII secolo ha potuto essere chiamato ‘il tempo di Ganimede’, il vento di riforma investì anche i sodomiti, tanto più che l’evoluzione della nozione di natura aggravò i peccati sessuali (…) e l’omosessualità (…) divenne il ‘vizio indicibile’”. È proprio l’imporsi di una radicale fascinazione per la “naturalità” a segnare una solida differenza rispetto ai secoli precedenti.
Se nel 533 l’imperatore Giustiniano aveva stabilito norme ugualmente severe verso gli atti omosessuali, questi erano stati però collocati nella categoria più ampia dell’adulterio (allora punibile con il rogo). In aggiunta a ciò, l’ostilità di Giustiniano, che egli volle ricondurre alla retorica cristiana, non sembrò trovare alcun appoggio reale da parte della popolazione di Costantinopoli, o della Chiesa stessa. Uno storico siro, Giovanni Malalas, racconta piuttosto che ad essere puniti furono personalità come Alessandro, vescovo di Diospolis in Tracia, e Isaia di Rodi, “prefectus vigilum di Costantinopoli”. Questo schema oscillatorio tra autorità, popolazione e clero si ripeterà più volte sino al Tredicesimo secolo.
Se dunque l’intolleranza più profonda ha luogo soltanto nella parte più tarda di questa epoca storica, quale approccio dobbiamo adottare nel trattare i rapporti fra omosessualità e Medioevo? Occorre innanzitutto premettere che il nostro vocabolario è di per sé insufficiente nel riferirsi a quella vasta pluralità di espressioni attorno alla sessualità che hanno attraversato il Medioevo. La parola omosessuale è in questo senso soltanto l’ammissione di una manchevolezza, il piegarsi ad una tassonomia già discussa da Michel Foucault ne La volontà di sapere, dove il filosofo scrive: “non bisogna dimenticare che la categoria psicologica, psichiatrica e medica dell’omosessualità si è costituita il giorno in cui – il famoso articolo di Westphal del 1870 sulle ‘sensazioni sessuali contrarie’ può essere considerato come data di nascita – è stata caratterizzata piuttosto attraverso una certa qualità della sensibilità sessuale, una certa maniera d’invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile, che attraverso un certo tipo di relazioni sessuali.”
Il nostro vocabolario è di per sé insufficiente nel riferirsi alla vasta pluralità di espressioni attorno alla sessualità che hanno attraversato il Medioevo.
Ma è proprio questa manchevolezza che deve spingerci a interrompere l’omogeneità del pensiero storico, sviluppandone le fratture e isolandone i nodi sintomatici per “passarli a contrappelo”, come direbbe Benjamin. Non farlo vuol dire rendersi complici dell’oblio: bisogna invece muoversi all’ interno di un’etica del riscatto possibile. In questa ottica, pioneristica fu l’indagine avviata da John Boswell nel 1980 con il suo libro Christianity, Social Tolerance, and Homosexuality. Attraverso un lungo studio che si estende dalle radici dell’era cristiana sino al XIV secolo, Boswell riporta alla luce le tracce e i sommovimenti di quella che lui chiama una “sottocultura omosessuale”. Sottocultura di cui è possibile rinvenire una dimensione sintomatica già negli scritti dell’Alto Medioevo, e che avrebbe conosciuto una vera e propria fioritura tra il 1050 e il 1150, almeno dal punto di vista letterario e in coincidenza con una generale rinascita economica ed urbana. La mole di testi a carattere omoerotico compilati in questo intervallo di tempo è infatti sorprendente, e tale abbondanza non trova un paragone reale almeno sino all’Ottocento.
Anche laddove la ricerca di Boswell si mostra più vacillante (o apertamente contestabile), il valore dell’opera risiede proprio nel contravvenire a una lettura univoca della realtà omosessuale. Troppi sembrano essere infatti i camuffamenti, le repentine apparizioni e disapparizioni. Troppe le facce: argomento di dispute amorose, topos, sopravvivenza classica, tendenza bestiale eppure innata, parabola d’iniziazione spirituale. Occuparsi di queste apparizioni non significa ignorare l’intolleranza medievale, ma renderla più complessa, mostrandone tanto le resistenze quanto i dispostivi di persecuzione. La forza di uno studio come questo consiste infatti anche nel rivolgersi con occhi rinnovati verso quegli agenti di conversione ideologica che avrebbero in qualche modo contribuito al formarsi di un pregiudizio antiomosessuale durante il Medioevo.
Boswell si domanda infatti in che misura la tradizione teologica e le interpretazioni scritturali abbiano contribuito al formarsi del pregiudizio, e in quale misura questo pregiudizio sopravviva ancora oggi nella nostra civiltà. La sua tesi è che le reali cause non possano essere trovate nelle sacre scritture, ma è comunque dell’avviso che un ripetuto fraintendimento dei testi biblici (e apocrifi) abbia giocato un ruolo non trascurabile nella creazione di una “naturalità” e, per converso, di un duraturo concetto di “contro-natura”.
L’idea che lo stesso Medioevo ci consegna attraverso i suoi bestiari, è che la natura stessa sia un artefatto.
Il che è curioso, perché l’idea di natura che lo stesso Medioevo ci consegna attraverso l’amalgama prodigiosa dei suoi bestiari, dove ogni cosa non fa che riformarsi e rivenire al mondo secondo la logica acrobatica dell’ibridazione e dell’allegoria –, sembra molto diversa. Ricorda piuttosto quella che la natura stessa sia un artefatto, come sottolinea oggi Donna Haraway ne Le promesse dei mostri, evidenziando come le teorie non siano mai disincarnate, ma continuamente attorcigliate ai corpi per riconfigurarne la geografia.
Lungi dal marcare un decisivo distacco, la cultura contemporanea condivide molte caratteristiche del fraintendimento medievale, un fraintendimento talvolta abissale e certamente irrisolto. Ben più che “rozze” fantasie, questi agenti di conversione ideologica si rivelano dei veri e propri registratori di tensioni che continuano ad esercitare una fascinazione sul nostro presente, e che pertanto sono necessarie per comprenderlo e tagliarlo. Quanto Aby Warburg dichiarava a proposito dell’indagine artistica è valido anche in questo caso: “L’inclusione di raffigurazioni provenienti dalla regione semioscura della letteratura di propaganda ideologica in una considerazione storica approfondita, fa parte dei compiti veri e propri della storia dell’arte…” Proviamo allora ad andare a indagare due esempi tra i molti possibili.
Sodoma, “fortezza dell’Io”
Il Dodicesimo secolo ha potuto essere chiamato “il tempo di Ganimede”, dicevamo sopra. Durante questo periodo il giovane che Zeus, mutatosi in aquila, volle rapire per farne il coppiere dell’Olimpo, diventa in molti ambienti il sostituto di un altro appellativo che sino ad allora aveva avuto più fortuna, e che continuerà ad averne nei secoli successivi, cioè quello di sodomita. Ma a quale tradizione si deve questo termine? L’impiego della parola sodomita e la sua accezione ancora oggi dispregiativa vanno innanzitutto ricondotti al loro testo primario, ovvero alla fonte biblica.
Nella Genesi si racconta di come Dio avesse mandato due angeli nella città di Sodoma. Lot – nipote di Abramo e paradigma di colui che si sporge verso l’altro – li supplica di trascorrere la notte nella sua abitazione. Dopo molte insistenze, gli angeli accettano, e vengono accolti e nutriti. Per tutta risposta, gli abitanti di Sodoma accerchiano la casa: pretendono che Lot violi il vincolo di ospitalità, e consegni immediatamente gli angeli alla folla, così che possano essere abusati. Lot rifiuta, e offre piuttosto le sue due figlie vergini, aumentando così la violenza degli abitanti, che si preparano a sfondare la porta. In quel momento, un violento bagliore mandato dagli angeli li colpisce, accecandoli. “Chi hai ancora qui?” domandano gli angeli a Lot “Fa’ uscire da questo luogo generi, figli, figlie e chiunque dei tuoi è in questa città, perché noi distruggeremo questo luogo. Infatti il grido contro i suoi abitanti è grande davanti al Signore, e il Signore ci ha mandati a distruggerlo”.
Nella Genesi, la violazione di Sodoma non riguarda la questione sessuale, ma uno dei grandi temi della tradizione ebraica: l’ospitalità verso lo straniero.
Un’interpretazione di questo racconto biblico – influente durante il Medioevo – vedrebbe nella collera di Dio una risposta al tentativo di abuso omosessuale, e di riflesso un’irreparabile ostilità verso l’analità e il vizio ad essa collegato. Eppure, la violazione non riguarda la questione sessuale, ma uno dei grandi temi della tradizione ebraica, ovvero l’ospitalità verso lo straniero. Straniero che, per quanto povero o dimesso, si presenta inevitabilmente come colui che è venuto a rinnovare il vincolo dell’accoglienza, della prossimità. Straniero che – in quanto tale – rinnova in ciascuno la propria estraneità. Così Lot si salva nel momento in cui abbandona l’Io e l’individualità: lui può lasciare la città, mentre agli altri abitanti spetta il castigo divino. Un versetto di Ezechiele chiarifica ulteriormente la vicenda: “Ecco, questa fu l’iniquità di Sodoma, tua sorella: lei e le sue figlie vivevano nell’orgoglio, nell’abbondanza del pane, e nell’ozio indolente; ma non sostenevano la mano dell’afflitto e del povero.”
La fissazione sull’atto sessuale testimonia, più che la vastità dell’abisso esegetico, gli sforzi – passati e moderni – per bandire tutto ciò che riguarda l’accoglienza senza ritorno, l’ospitalità come la pratica dell’altro in quanto tale, in quanto completamente esposto nella sua irriducibile estraneità. All’interno de La lettura Infinita, un saggio dedicato alle vie dell’interpretazione ebraica, David Banon denuncia il vero atteggiamento sodomitico:
Sodomita è chiunque non concepisce una vita oltre l’essere. Chiunque non sa sostenere un rapporto con un altro all’infuori di se stesso. Chiunque rifiuta di far “profittare” altri delle proprie ricchezze o del proprio sovrappiù, a costo di perdere il beneficio della reciprocità. Sodoma è la fortezza dell’Io che nulla riesce a scalfire. Sodoma è l’atmosfera irrespirabile in cui c’è posto solo per gli istinti, per l’egemonia del potere e della violenza, per l’affermazione di sé. A Sodoma non c’è posto per l’altro, lo straniero, il povero.
Il racconto biblico rivela così quel comandamento etico che è possibile disseppellire solo attraverso un riscatto del testo originario. Ecco allora che la lotta alla sodomia assume un altro significato: non una crociata antiomosessuale, ma il permettere che lo straniero, nonostante tutto, continui a venire.
Iene, lepri, peccatori: la lettera di Barnaba
Alla fine del Dodicesimo secolo due convinzioni agli antipodi si ritrovano a coesistere: quella che il regno animale non conoscesse rapporti omosessuali, e che pertanto il vizio sodomitico fosse completamente innaturale, e quello che alcune bestie fossero naturalmente aberranti, e che la sodomia fosse da castigare proprio perché imitava il “sudiciume” di tali comportamenti. Per trovare l’origine di quest’ultima convinzione occorre fare riferimento alla Lettera di Barnaba, un testo apocrifo -risalente probabilmente al primo secolo- che ha esercitato grande influenza non soltanto sul pensiero dei padri della Chiesa (che la consideravano d’origine apostolica), ma anche sulla composizione del Physiologus, un compendiario allegorico del creato la cui popolarità rimarrà una costante durante tutto il Medioevo. La Lettera di Barnaba è per la maggior parte un miscuglio caotico d’interpretazioni teologiche, spesso biforcute o contradittorie, tra le quali è incluso uno parallelo tra le proibizioni mosaiche riguardanti il cibo e alcuni peccati sessuali:
[Mosè disse] non mangerai la lepre [cfr. Lv 11,5]. Perché? Per non diventare, egli disse, un molestatore di ragazzi, e per non essere trasformato in questa. Infatti alla lepre cresce ogni anno una nuova apertura anale, cosicché quanti anni essa ha vissuto, tanti buchi anali possiede.
Neppure mangerai la iena, egli disse, per non diventare un adultero o un seduttore, né per diventare come loro. Perché? Perché questo animale cambia il sesso ogni anno e un anno è maschio e l’altro è femmina.
Che un testo del genere posso aver costituito un duraturo argomento del favoloso non è cosa insolita. Le leggende a proposito della iena erano d’altra parte già largamente diffuse in ambito greco e romano: Aristotele ne smentisce il fondamento nell’ Historia animalium, ma in molti trattati successivi il dato compare come un fatto certo, e lo stesso avviene nella letteratura mitologica, come Le metamorfosi di Ovidio, dove si legge: “Ma scusate, non è un portento la iena, che cambia sesso?”.
Ciò che distingue la lettera di Barnaba dagli esempi precedenti è però l’aver tramutato una congettura zoologica in piena evidenza morale, favorendo così il proliferare di questa diceria anche nel contesto del cristianesimo, dove col tempo attraverserà innumerevole altre deformazioni (come testimoniano sul piano figurativo diversi manoscritti medievali). In Aberrazioni – saggio sulla leggenda delle forme e primo pannello di un polittico delle Prospettive depravate -, lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis insegna come il movimento della conoscenza sia sempre ondulatorio ed epidemico. Ogni immagine allude tanto ad un letargo quanto ad un allarme, ad una urgenza; ogni leggenda, anche se deformata, è capace di tramutarsi in un vorticoso macchinario dell’erudizione, di percorrere traiettorie serpentine.
Non sorprende allora che nel Pedagogo di Clemente Alessandrino gli stessi temi della Lettera di Barnaba siano diventati precise tesi contro l’omosessualità, o che, a più di mille anni di distanza, Alberto Magno si sia trovato a confutare la leggenda della iena nel De animalibus, pur sostenendo in un altro testo che il vizio sodomitico fosse come una malattia contagiosa. O che ancora nel Quattordicesimo secolo vi sia traccia di tale diceria in un ricettacolo di leggende come I viaggi di Mandeville.
Per concludere, uno studio dei rapporti tra Sodoma e il Medioevo può essere una lezione sulla manipolazione dell’immaginario e sulle sue sotterranee macchinazioni, ma può anche fungere a sua volta da ordigno favoloso, forse in virtù del suo stesso oggetto. Come scrive Baltrušaitis: “Le aberrazioni corrispondono a una realtà delle apparenze e posseggono un’innegabile facoltà di trasfigurazione. La vita delle forme dipende non soltanto dal luogo in cui esse esistono realmente, ma anche da quello in cui vengono viste e si ricreano”.
Approfondire la storia di questo rapporto ci costringere a rimanere vigili rispetto ai luoghi di riproduzione del potere rappresentativo. Ci chiama a rinnovare i nostri dubbi, e a dubitare delle assunzioni consolidate. Ci dice che bisogna strappare l’analisi storica dal suo ruolo di cronaca inamovibile. Ci indica ciò che bisogna riscattare dall’oblio. Ci mostra, infine, quel che rimane ancora da sovvertire.