U n consiglio mi sento di darlo: io sono molto contento del fatto che il lockdown ci abbia insegnato lo smart working, e ne ho fatto ampio uso in Comune, ma ora è il momento di tornare a lavorare, perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”. Parole che potrebbero ricordare uno sfogo del boss di The Apprentice, il reality show dedicato al mondo aziendale condotto in Italia da Flavio Briatore e reso celebre nel mondo da Donald Trump. Invece si tratta di una dichiarazione del sindaco di Milano Beppe Sala che, durante un video pubblicato a giugno, ha manifestato la speranza di vedere, seppur nel rispetto delle norme, nuovamente affollati gli uffici del capoluogo lombardo.
Le sue considerazioni hanno messo in dubbio la produttività del lavoratore “smart” e hanno trascurato la questione ambientale. Il primo cittadino di Milano, con la sua dichiarazione, ha dimostrato un’evidente difficoltà nell’immaginare un modello di città e di lavoro diverso da quello novecentesco. Mentre la pandemia metteva in crisi i capisaldi ideologici della Milano degli ultimi anni, ovvero la sua visione internazionale e il suo avanguardismo tecnologico, Sala, accreditatosi negli anni come alfiere della sinistra social e green, ha collezionato uno scivolone dietro l’altro, tra una diretta Facebook e una storia Instagram. L’obiettivo di questo discorso in particolare è parso la tutela degli esercenti locali (a cui una riapertura più ampia avrebbe senz’altro giovato) in nome dell’unico rituale capace di unire tutta la penisola: la pausa pranzo.
Va aggiunto, tuttavia, che nei giorni successivi al polverone Sala è intervenuto con una lettera al Corriere, cercando di correggere il tiro e richiamando l’attenzione sugli effetti del cosiddetto smart working sull’ambiente cittadino, non sempre (almeno nella sua opinione) benefici. Insomma, ha scritto il sindaco, “ricominciare a fidarsi. Tornare a riprendere la ricchezza delle nostre vite, che è anzitutto l’insieme di relazioni che intratteniamo. Una città, resa fantasma, è un incubo inaccettabile. Tornare a circolare, ad andare in ufficio o sul luogo di lavoro, riprendere la vita vivente”.
Resta il fatto che le prime osservazioni di Sala hanno tradito una mentalità che da una parte svilisce la professionalità del singolo considerando come imprescindibile la figura del capo “controllore”, e dall’altra associa lo smart working al telelavoro, in un rapporto che invece si pone di filiazione: è il telelavoro, infatti, a porre le basi concettuali per la rivoluzione dello smart working.
È il telelavoro a porre le basi concettuali per la rivoluzione dello smart working.
Il telelavoro nasce all’inizio degli anni duemila strutturandosi con postazioni remote fisse, dalle quali il lavoratore deve svolgere in orari prefissati il proprio turno: in sostanza, pochissimi cambiamenti rispetto al lavoro svolto in presenza. Al contrario, il lavoro agile può essere considerato un’evoluzione in termini di flessibilità organizzativa: resta il principio del lavoro esterno all’ufficio, ma accompagnato da maggior discrezionalità nella scelta di tempi e luoghi. Insomma, la proposta di un nuovo paradigma. Per cui la vera domanda, prima di porsi in modo favorevole o contrario al lavoro agile, consiste nel chiedersi se quello esercitato sinora sia telelavoro oppure vero e proprio smart working.
Produttività, flessibilità e innovazione
La parola chiave che accompagna questa evoluzione è proprio flessibilità: questa volta non da intendersi come assenza di tutele sindacali, come spesso si è visto nel mercato occupazionale, ma come la possibilità per il lavoratore di scegliere i modi e le forme più adatti alle proprie esigenze, creando un modello su misura che possa tornare a mettere al centro l’individuo.
Lo smart working consente di poter lavorare in qualsiasi luogo, purché fuori dai confini aziendali: nonostante la casa sia tipicamente il principale luogo “altro”, essa è affiancata anche da postazioni remote diverse, come le stanze d’albergo, gli uffici dei clienti, i treni o altri mezzi di trasporto, tanto che Michael Liegl ha parlato di un vero e proprio “nomadismo lavorativo”. A suggellare questo tipo di organizzazione del lavoro sono poi arrivati i coworking: spazi che permettono la condivisione di un ambiente di lavoro, spesso un ufficio, mantenendo un’attività indipendente.
Alla possibilità di lavorare dove si è più comodi è collegato un altro vantaggio garantito dallo smart working, ovvero poter abdicare all’estenuante viaggio verso l’ufficio, che in molte città (soprattutto italiane) tende a trasformarsi in una peregrinazione omerica piuttosto che in un semplice tragitto. Un elemento che incide soprattutto sulla produttività: ogni minuto perso nel traffico (e in questo senso, giova ricordare che Roma è la seconda peggiore città al mondo dopo Bogotà per congestione stradale, mentre Milano è “solo” settima) è un minuto perso per completare gli obiettivi della giornata. Ma soprattutto, un minuto in meno da dedicare ai propri interessi o alla propria vita sociale.
I dati sulla produttività in smart working dimostrano un generale incremento dei risultati prodotti dal singolo dipendente.
Inoltre, i dati sulla produttività in smart working sono piuttosto chiari e dimostrano un generale incremento dei risultati prodotti dal singolo dipendente, nell’ambito di un contesto che non evidenzia particolari disagi per i datori di lavoro, a scapito di coloro che vedono nell’ufficio e nella sua struttura piramidale l’unico modo per massimizzare i risultati.
Una rilevazione di Astra Ricerche per Manageritalia ha confermato che il tutto sembra avvenire, secondo chi risponde all’indagine, senza pesanti contraccolpi negativi sulla produttività: solo il 5 per cento dei rispondenti ha sostenuto che il lavoro a distanza abbia comportato un abbassamento della produttività per lavoratore. Inoltre, come hanno sottolineato Tito Boeri e Alessandro Caiumi, “se organizzato assegnando obiettivi individuali, il lavoro a distanza in effetti può aumentare la produttività, riducendo le assenze e ottimizzando il tempo dei lavoratori anche alla luce della non più necessaria mobilità verso il luogo di lavoro”.
Non a caso, una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of management del Politecnico di Milano ha affermato che nel 2018 in Italia si contavano 480.000 smart worker, con una produttività in aumento del 15 per cento e un tasso di assenteismo ridotto del 20 per cento. Non solo: una rilevazione condotta nel 2019 dallo stesso Osservatorio su un campione di impiegati, quadri e dirigenti ha mostrato che i dipendenti impegnati in smart working sono stati più soddisfatti del proprio lavoro (76 per cento rispetto al 55 per cento di coloro che lavorano in modalità tradizionale) e hanno dimostrato un legame più forte con la propria impresa (71 per cento rispetto al 56 per cento). La sfida che attende ora l’Italia è confermare questi dati su un campione più ampio.
La vita nelle “grotte” non sembra dispiacere neanche ai dipendenti: un’indagine di Gallup ha notato che il 59 per cento degli smart workers statunitensi avrebbe intenzione di continuare a lavorare da remoto il più a lungo possibile, anche una volta alleggerite le restrizioni. Da questo tipo di dati ha preso corpo la decisione di Twitter, che ha annunciato di voler estendere lo smart working per sempre, qualora il singolo ne voglia usufruire.
Le incognite del lavoratore agile
Nonostante questa serie di benefici, lo smart working ha presentato numerose incognite ai lavoratori che si sono cimentati con questo nuovo modello di impiego. Trattandosi di una metodologia inedita, ancora non si è riusciti a prendere del tutto le misure; questo ha prodotto, talvolta, una situazione di difficile gestione per lo smart worker, tanto da un punto di vista lavorativo quanto da quello personale.
La solitudine rischia di essere una spada di Damocle per il lavoratore agile.
Il dato che salta all’occhio più facilmente riguarda la rinuncia alla dimensione sociale del lavoro: un aspetto da non sottovalutare, in particolare per le professioni che richiedono un contatto umano più stretto. Non dev’essere stato facile adeguarsi a questa innovazione per coloro i quali erano abituati a lavorare con una prospettiva di gruppo. Ciò può avere ricadute psicologiche, come hanno dimostrato alcuni studi: in questo senso, la solitudine rischia di essere una spada di Damocle per il lavoratore agile.
La fonte effettiva dell’isolamento dello smart worker è rappresentata in particolare dalla distanza fisica, che non complica solo il coordinamento e la collaborazione con gli altri membri dell’organizzazione, ma ha anche possibili effetti negativi per il benessere lavorativo. Gli spazi di coworking rappresentano sicuramente una parziale soluzione a questo problema, se non altro per la possibilità (quantomeno a livello psicologico) di separare a livello spaziale vita privata e vita lavorativa.
Un problema, quello della distinzione tra il piano lavorativo e quello privato, che va analizzato anche alla luce del progresso tecnologico. La pervasività della tecnologia può incidere su due direttrici: da un lato, la sensazione di sentirsi costantemente “sotto controllo”, grazie ai moderni sistemi che consentono ai manager di controllare i dipendenti con forme di sorveglianza impensabili fino a poco tempo fa; dall’altro, strettamente collegato a questo, la gestione dei confini tra vita privata e carriera.
Non a caso, il garante della privacy Antonello Soro, nella sua relazione annuale, ha lanciato l’allarme sull’effettività del “diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.
Il prezzo della flessibilità rischia di essere la colonizzazione della vita privata da parte del lavoro.
Il prezzo della flessibilità rischia di essere la colonizzazione della vita privata da parte del lavoro, rappresentata ad esempio dall’impossibilità di ottemperare esclusivamente al carico lavorativo prestabilito, aggiungendo nuovi impegni nel corso della giornata. Mail dopo mail, videocall dopo videocall, il dipendente si trova costretto a prolungare oltremodo il suo turno, a causa della reperibilità illimitata garantita dalla tecnologia. In questo campo rientra anche il diritto alla fornitura di una strumentazione tecnologica adeguata da parte del datore di lavoro, spesso un elemento trascurato dalle aziende. Trattandosi di un modello di organizzazione del lavoro in piena evoluzione, le tutele del caso sono ancora acerbe, con i sindacati che hanno però posto il tema all’attenzione del governo e dei datori di lavoro.
Inoltre, districarsi tra lavoro agile e vita privata rischia di essere ancora più difficile per le donne, sebbene in Italia i dati dell’occupazione femminile siano purtroppo tra i più bassi in Europa: secondo una ricerca della Fondazione Openpolis, rispetto a una media di 66,5 occupate ogni 100 donne tra 20 e 64 anni, l’Italia si trova al penultimo posto nel Vecchio Continente con il 52,5%, appena sopra la Grecia (48%).
Solo una donna su due ha dovuto conciliare lavoro agile e vita privata, cosa che rispetto alla controparte maschile può risultare ancora più difficile, data la necessità spesso e volentieri di occuparsi dell’organizzazione familiare in misura maggiore rispetto al proprio partner. Un quadro complicato dalla prolungata chiusura delle scuole, dal gender gap a livello retributivo e dalla netta prevalenza dei colleghi uomini nelle posizioni dirigenziali rispetto alle donne.
A conferma di quanto detto, Job Pricing ha notato che nelle sue ultime rilevazioni (terzo trimestre 2019) la disparità di genere ha pesato in media in busta paga per un buon 9,8% a favore degli uomini, che guadagnano in media circa 2.705 euro l’anno più delle donne. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, lo smart working sicuramente non rappresenta il problema più annoso ma ha contribuito a destabilizzare ulteriormente le donne italiane e le loro carriere.
Un modello sostenibile
Qualche tempo fa, in rete aveva trovato visibilità un articolo d’archivio degli anni Settanta, che provava a ipotizzare per il 2020 l’annullamento del divario tra Nord e Sud. Cinquant’anni dopo, poco o nulla sembra cambiato, almeno sul piano strutturale, e lo smart working può certamente diventare un’opportunità per colmare il gap. Questo nuovo modo di interpretare il lavoro potrebbe servire a ridisegnare l’architettura della penisola, attenuando la disparità tra Nord e Sud.
Questo nuovo modo di interpretare il lavoro potrebbe ridisegnare l’architettura della penisola, attenuando la disparità tra Nord e Sud.
Infatti, il vantaggio fondamentale del lavoro agile è rappresentato dalla possibilità di scegliere il luogo in cui vivere come meglio si preferisce: un’innovazione non da poco, che rappresenta l’apice della flessibilità occupazionale. Grazie a questa chance è recentemente nato il progetto “South Working”: venti professionisti italiani, tutti sui trent’anni, hanno lanciato un progetto pilota per lavorare tra le città di Milano e Palermo, coinvolgendo i comuni, le aziende e i dipendenti. Un tentativo di invertire la tendenza al regno urbanista delle metropoli, permettendo di ripensare il rapporto tra città e campagna. Proprio le campagne, le province e i piccoli centri sembrano essere i maggiori beneficiari della pandemia, a discapito delle smart cities, che hanno mostrato la debolezza del loro modello.
D’altronde, il lavoro agile può servire a reimmaginare il concetto stesso di città: un piano che deve partire dalla necessità di trasformare la mobilità cittadina in un complesso più sostenibile ed efficiente, riducendo al tempo stesso il traffico aereo e le emissioni, migliorando la qualità del trasporto pubblico e aumentando lo spazio urbano dedicato alle piste ciclabili. Londra ne ha dato recentemente una dimostrazione, prevedendo un volume di traffico su bici fino a dieci volte superiore a quello pre-pandemico.
Questi provvedimenti potrebbero implicare la fine del concetto stesso di metropoli sovrappopolata, caratterizzata da una parte consistente dei cittadini insoddisfatta e lontana dai propri luoghi d’origine, favorendo invece una densità abitativa più omogenea in tutto il paese, che possa contribuire alla transizione ecosostenibile dell’economia, sulla scia del Recovery fund europeo.
Il 18 marzo scorso la capitalizzazione in borsa di Zoom, il colosso delle videoconferenze, ha superato quella di Uber, leader nel settore del trasporto urbano: è il segno economico di un’inversione di rotta. Resta da capire in che direzione andranno le decisioni politiche, e con quali conseguenze per i lavoratori.