N el 1970 The Dialectic of Sex s’impose con la forza di un evento sismico nella carta della rivoluzione sessuale, diventando il libro che più vividamente chiariva l’assunto della seconda ondata del femminismo, almeno nella sua versione statunitense: “A differenza di quanto pensava il primo movimento femminista, lo scopo finale della seconda rivoluzione femminista deve essere non tanto l’eliminazione del privilegio maschile quanto l’abbattimento della distinzione sessuale stessa: la differenza genitale tra esseri umani non avrà più alcun peso culturale”.
Shulie aveva allora 25 anni. “The American Simone de Beauvoir” – come veniva talvolta definita – era nata in Ottawa nel gennaio del 1945, figlia secondogenita di una famiglia di ebrei ortodossi con la quale continuerà a mantenere un rapporto di acceso antagonismo per tutta la vita, poiché proprio la radicale sovversione della famiglia diventerà per Firestone uno dei grumi centrali della sua riflessione: “la tirannia della famiglia biologica sarà spezzata”.
Nel 2012, più di 40 anni dopo la pubblicazione de La dialettica dei sessi, il suo corpo viene trovato nel suo appartamento-studio a New York City: come Tony Duvert – altro rivoluzionario con il quale Firestone condivise tanto lo stile febbrile quanto il volontario confinamento –, era morta già da diversi giorni al momento della scoperta del cadavere, forse per un digiuno autoimposto. Le era stata diagnosticata da tempo una schizofrenia paranoide.
Scopo finale della rivoluzione femminista deve essere l’abbattimento della distinzione sessuale stessa: la differenza genitale tra esseri umani non avrà più alcun peso culturale.
Sebbene Shulamith Firestone si fosse esiliata dalla scena pubblica quasi immediatamente dopo l’uscita de La dialettica dei sessi – anticipando il collasso di un’intera generazione di femministe –, nel 1998 consegnò alla Semiotext(e) Airless Spaces, una raccolta di racconti (mai tradotta in italiano) concepita come cronaca feroce delle numerose istituzioni in cui si è costretti a ricoverare la propria vita amputando “ogni legame con l’aria”, a cominciare dalla famiglia. Firestone, che era stata già ospedalizzata diverse volte, lo scrisse dapprima col fervore del recluso, e poi come la confessione di chi ritorna al mondo soltanto per testimoniarne l’irrisolvibile sfacelo: “Non poteva scrivere, e neppure leggere. (…) La sua vita era rovinata, e non vi era alcun piano di salvataggio.”
Airless spaces si legge anche come una forma di abiura militante o di litania del congedo; I Rember Valerie è in questo senso l’emblematico titolo di un racconto dedicato a Valerie Solanas, specie di “Robespierre del femminismo” e autrice di SCUM, manifesto incendiario ripiegato però su una deriva matriarcale assai diversa da quella di Firestone. Un manifesto dapprima misconosciuto e poi definitivamente seppellito dal clangore mediatico dopo che la stessa Solanas tentò di assassinare Andy Warhol, per finire internata con la medesima diagnosi di Shulamith Firestone: “paranoid schizophrenia”.
Nel libro viene allora descritto quello che è un estremo tentativo di incontro tra reietti: “Valerie era paranoica riguardo al tema di una certa “Mafia dei Media”, che secondo lei la stava inseguendo. Ho pensato che potesse essere vero. (…) Ho sentito altre notizie su di lei soltanto dopo molti anni: un necrologio in cui si diceva che era stata trovata in un hotel di San Francisco, morta per un male ai polmoni. (…) Di recente è uscito un film chiamato I Shot Andy Warhol. Sembra che alla fine la Mafia dei Media sia riuscita a catturarla. Non sono andata a vederlo.”
Nella sua configurazione di glossario biopolitico, di contro-tassonomia del quotidiano, Airless spaces ricorda un’altra grande opera femminista, il Five Year Diary di Anne Charlotte Robertson, anch’essa scomparsa nel 2012. Composta tra il 1981 e il 1997 e ora conservata nell’archivio di Harvard, la video-opera della Robertson (che soffriva di un disordine bipolare) è un diario traboccante in cui la dimensione ossessiva del confinamento domestico si allarga a riflessione universale, dislocandosi in una moltiplicazione di voci, appunti e tracce registrate come effetti per una costruzione dell’alterità.
Quella di Firestone era una vocazione a un totale ermafroditismo intellettuale.
Ad imporsi non è più la superficie statica dell’immagine politicizzata, e neppure un’immagine disciplinata dalla politica, ma una radicale intensità che attraversa tutti i “possibili”: vita ribaltata in forma di cinema. E proprio su questo ribaltamento aveva insistito Shulamith Firestone, affermando che la rivoluzione avrebbe dovuto essere sì tecnologica (“La divisione del lavoro finirà con l’eliminazione del lavoro stesso –cibernetizzazione-”), ma anche culturale, androgina. Scriveva nel 1970:
Se lo scopo della rivoluzione sessuale, razziale ed economica è, più che un livellare i disequilibri tra le classi, l’eliminazione delle classi stesse, ugualmente il risultato della rivoluzione culturale dovrà essere l’eliminazione delle classi culturali, l’abbattimento della cultura per come la conosciamo, (…) la reintegrazione del Maschile (la modalità tecnologica) con il Femminile (la modalità estetica), così da creare una cultura androgina che possa essere qualcosa più che la somma delle sue integrazioni.
Quella di Firestone era una vocazione a un totale ermafroditismo intellettuale che con vigore costringeva a rivolgersi nuovamente verso gli assunti del materialismo storico, della psicoanalisi freudiana, del puro biologismo e della sua scientia sexualis. Al marxismo Firestone criticava soprattutto l’aver quasi completamente ignorato il carattere psicosessuale della realtà, la sua “naturale” dialettica, e pertanto l’essere stato incapace di produrre quella che Federico Zappino, nel suo saggio Comunismo Queer, chiama oggi una denuncia del “carattere sistemico dell’eterosessualità̀, del suo carattere totalitario, e dei danni che produce sulle donne e sulle altre minoranze, nella prospettiva della sua sovversione”.
Per Firestone la radice del sistema classista non andava individuata soltanto nell’indagine economica, ma nella secolare produzione di miti biologici come l’assoluta interdipedenza tra madre e figlio, la debolezza costitutiva del femminile (“paturnie, mestruazioni, menopausa”), l’antropologia razziale, il fine esclusivamente riproduttivo della specie, l’impotenza del bambino e la conseguente negazione del suo carattere “polimorfo e perverso”: “La sessualità infantile andava repressa perché minacciava il precario equilibrio interno della famiglia. (…) Al momento il tabù dell’incesto è funzionale soltanto a mantenere l’istituzione della famiglia.”
Firestone ha scelto così di distribuire il diluvio in parti uguali, destituendo con un solo gesto critico il carattere egemonico della sessualità esclusiva e recintata (“sebbene l’omosessualità sia oggi tanto malata e limitata quanto l’eterosessualità, verrà forse un giorno in cui una sana transessualità diverrà la norma”), il regime biologico e quello sentimentale, ennesimo dispositivo di coercizione.
La legislazione del sentimento a deve essere dismessa dal fondo: “Le donne non producono cultura poiché si stanno occupando dell’amore.”
“Che cosa facevano le donne mentre gli uomini producevano capolavori?” si chiede l’autrice in uno dei capitoli centrali de The Dialectic of Sex. E la risposta non può ridursi al debito d’esistenza, cioè all’icona della donna impegnata nell’essere madre ancora prima di diventarlo, come unico orizzonte d’attesa. Piuttosto è la legislazione del sentimento a dover essere davvero dismessa dal fondo: “Le donne non producono cultura poiché si stanno occupando dell’amore.” E allora è forse questa la sopravvivenza ancora più intensamente problematica, e dunque più attuale nell’era del “love wins” e dei trionfi arcobaleno: saper riconoscere la pluralità dei modi di oppressione, anche quando camuffati in tecniche di liberazione.
“A Simone de Beauvoir, che ha resistito”: così recitava la dedica posta in apertura de La dialettica dei sessi. Eppure quella di Shulamith Firestone è un’opera che – nel mostrare la mobilità del divenire donna -, ha consegnato alla successiva generazione di femministe non solo una formula di resistenza, ma di integrale sovvertimento. Abbiamo ancora bisogno di lei, dunque, dei suoi libri e della sua radicalità, perché se è vero che gli spazi senz’aria continuano a moltiplicarsi, è ancora più vero che “una rivoluzionaria in ogni camera da letto non può fallire nello scuotere lo status quo”.