A lla domanda “che cosa è il sesso?” sembrerebbe ragionevole rispondere, di primo impatto, con almeno un paio di riferimenti alle pratiche erotiche che esercitiamo. Non ci si aspetta che la risposta sia invece: il sesso è prima di tutto qualcosa che riguarda il modo in cui pensiamo, quello che siamo e come è fatta la nostra realtà in quanto animali parlanti. Tutto fuorché erotismo, insomma. Eppure questa è la tesi centrale di Che cosa è il sesso?, ultimo saggio di Alenka Zupančič da poco apparso nella traduzione italiana di Pietro Bianchi per Ponte alle Grazie: la sessualità è una faccenda capitale ed emblematica, perché proprio come sessualità si realizzerebbe ciò che più caratterizza, secondo la pensatrice, lo specifico dell’animale umano. Questo specifico, inoltre, sarebbe che le cose vanno storte, che “il sesso, o il sessuale, siano proprio […] la forma singolare della contraddizione che ci costringe a vedere, a pensare” [ultimo corsivo mio]. Insomma, non solo a voler parlare di sessualità si finisce a parlare di tutto il resto, ma avanza anche l’idea che, proprio nel luogo in cui ci si aspetta di trovare una piacevole, armonica soddisfazione, le nostre speranze vanno allegramente a rotoli.
È utile ricordare che patria intellettuale dell’autrice è la scuola di Lubiana, nota al pubblico grazie alla figura di Slavoj Žižek e contraddistinta dalla combinazione di filosofia, teoria sociale, marxismo e psicoanalisi di ispirazione lacaniana. Sono questi infatti gli elementi cui ricorre per illuminare l’oggetto in causa, appunto la sessualità, considerata nel saggio come “questione squisitamente filosofica”: così si esprime Zupančič, in forza delle revisioni cui essa obbligherebbe “a partire dall’ontologia, dalla logica e dalla teoria del soggetto”.
L’autrice fa spesso appello a diversi pensatori, le interpretazioni dei cui pensieri non sono prive di forzature, ma non è questo ciò che sta al cuore del testo. Ne è piuttosto l’espediente, finalizzato a mettere in luce il punto nodale del saggio e a inserirlo strategicamente in un vocabolario filosofico e nel dibattito pubblico: negli umani c’è un malfunzionamento fondamentale, una convulsione che interessa e sloga la loro realtà e che è necessariamente legata al sesso. Zupančič usa qui un ventaglio piuttosto ampio di concetti. Si parla di contraddizione, divisione, differenza, rottura, divario, sfasamento e via dicendo – tutti alludono, pur essendo difficilmente fra sé sinonimi, a un punto di fuga comune che si tratta di prendere di mira.
Il modo migliore di avvicinare il testo è chiedersi perché per Zupančič sia così importante il fatto che le cose vanno storte. Perché fissarsi sull’inciampo, quando in genere sembra che gli individui agiscano di regola in vista di un buon fine? A ben vedere, questo concetto interessa all’autrice come alternativa a quella che ritiene una falsa dicotomia fra due generalissimi modi di pensare, operanti su più piani e in più campi, in modo trasversale. Zupančič problematizza e confuta l’alternativa per cui o le cose hanno un senso o non ne hanno affatto e quindi tanto vale farsene una ragione e tirare avanti come se niente fosse per un dato campo della realtà. Da una parte, ritroviamo l’idea di un principio dato, fisso, stabile, che organizza, gerarchizza, ordina la molteplicità di ciò che esiste; dall’altra, in opposizione, si troverebbe la convinzione che al mancare di questo principio vi sia soltanto una compresenza contingente di motivi individuali, isolati, fluidi. Cioè o asserzione monolitica o nostalgia malinconica e luttuosa di un principio, che in entrambi i casi è concepito come non problematico.
Il punto nodale del saggio è che negli umani c’è un malfunzionamento fondamentale, una convulsione che interessa e sloga la loro realtà e che è necessariamente legata al sesso.
Detta così, la questione suona piuttosto astratta. Per fare chiarezza, prendiamo un esempio concreto dal testo: la questione del genere e l’emancipazione femminista. Asserire l’esistenza di un ordine dato secondo un principio fisso, naturalizzare la differenza sessuale secondo una gerarchia tra uomini, donne e altre più discriminate posizioni ottiene in fin dei conti lo stesso risultato del rivendicare la pluralità contigua, irrelata di molteplici pratiche e identità sessuali e di genere, certo differenti fra loro, ma pacificamente affastellate una accanto all’altra. Il risultato è cioè di eliminare, rimuovere la ruvida differenza alla base delle assegnazioni di genere e sessualità. Al contrario, sostiene Zupančič, “[i]l vero femminismo è quello che ha posto la differenza sessuale come problema politico all’interno degli antagonismi sociali e delle lotte per l’emancipazione. Il femminismo non è nato dall’affermazione dell’alterità dell’identità femminile e dei suoi diritti”, nel senso in cui si tratterebbe di riaffermare un ordine già dato, più o meno gerarchico. Allo stesso modo, non si tratta neanche di dirci che ci sono molteplici identità di genere e sessuali, ciascuna a coltivare il suo giardinetto, con la pressante preoccupazione di non pestare il prato alle identità vicine. Secondo Zupančič, il momento politico del femminismo consiste nel “fatto che circa una metà degli esseri umani, che di solito chiamiamo ‘donne’, non esistevano dal punto di vista politico. È questa inesistenza e invisibilità politica, che ha avuto la funzione concreta di omogeneizzare lo spazio politico, che il femminismo ha trasformato in una separazione e in una rottura che riguarda tutti”. Non un ordine, non una contiguità casuale, ma una differenza, una rottura che riarticola lo spazio sociale.
Nell’economia del testo, porre come principio il malfunzionamento critica in un solo colpo sia la gerarchizzazione fissa, statica del reale (e il dominio che ne consegue), sia l’idea che in fin dei conti vale tutto, che c’è solo da arrangiare gli interessi privati degli individui. Un esempio è in questo caso anche l’istituzione della chiesa cattolica, che si nutre di entrambi i rami della dicotomia, mostrandone le affinità: mentre sopravvive alla società laicizzata proprio in virtù del principio secolare del vale tutto, del sincretismo indifferente delle visioni del mondo, inscena una critica della molteplicità sregolata del reale, riaffermando un’organizzazione fissa, naturale e gerarchica. Allo stesso tempo, in questa persistenza kitsch e sentimentale, esercita un potere capillare sulla vita pubblica e privata proprio in forza di ciò che finge di criticare, che è in realtà proprio una condizione della sua sussistenza.
Davanti a questa falsa alternativa Zupančič rivendica non la semplice mancanza di un principio di unità, ma proprio l’importanza dello scarto, della contraddizione, dell’intoppo, o ciò che essi indicano, proprio come principio di unità dell’esperienza: “[l]a contraddizione non è qualcosa che dobbiamo semplicemente accettare e della quale dobbiamo accontentarci; può diventare e può essere usata come fonte di emancipazione dalla stessa logica che viene prescritta da questa contraddizione. […] La contraddizione non scompare semplicemente, ma il modo in cui funziona nel discorso che struttura la nostra realtà cambia radicalmente. E questo accade come risultato nel nostro coinvolgimento attivo e totale nella contraddizione, prendendovi il nostro posto”. Nella contraddizione c’è insomma un conato, che se non ignoriamo può dirci qualcosa.
Naturalmente resta ancora la domanda: perché sarebbe la sessualità a realizzare in modo primario, capitale, strutturale il momento dell’inciampo? Secondo Zupančič è proprio nella sessualità che quella che ci sembra essere l’organizzazione istintuale della vita si disarticola. L’individuo umano attraversa un’articolazione sociale e comunicativa per soddisfare i propri bisogni: il neonato piange per ottenere la soddisfazione di un bisogno. Quest’ultimo è perciò dipendente da un rapporto interumano, così come tutti i rapporti umani sono regolati da una tradizione storica e da relazioni semantiche e sintattiche di linguaggio (il vagito e poi l’appello e poi la frase). Nell’umano, il vivente non solo passa attraverso una cultura – banalità che non fa male ricordare –, ma è solo passandovi che diventa il modo umano di essere un vivente, che è quello che tutti esperiamo come il nostro modo di vivere, di essere animali.
Accanto alla disarticolazione nel sesso si trova anche, per Zupančič, un secondo elemento fondamentale: l’eccesso – non come trasgressione, ma come giro a vuoto. L’azione umana, proprio perché non si esaurisce più nella consumazione organica di un bisogno, si ripiega su se stessa e riflette nel godimento. Non faccio sesso per procreare, ma godo nel fare sesso, così come il nutrirsi si trasforma, accanto al pressare del bisogno, in un piacere nel nutrirsi medesimo, eccentrico ed eccessivo rispetto all’istinto. Per un verso, soddisfare un bisogno necessita del supplemento sociale (economico, istituzionale, linguistico), ma nello stesso luogo si manifesta, per l’altro verso e come godimento, un eccesso riflessivo dell’azione: “il ‘più’ (quello che nell’umano è più dell’animale) prende il posto del “meno” (quello che nell’umano è meno dell’animale)”,a e ancora, “il godimento è ciò che disturba questo animale, lo risveglia a una realtà diversa […] e gli fa fare tutte quelle strane cose ‘umane’ o inumane”.
Comprendere in questo modo la sessualità indica il fianco etico e politico del desiderio.
La convergenza di eccesso e disarticolazione aggiunge un tassello all’importanza che la sessualità ha per Zupančič. La sessualità è fondamentale non per una sua presupposta inclinazione a violare le regole, non per la promessa di un piacere e neanche per la molteplicità delle posizioni che vi si manifestano, per quanto consustanziali a essa – quanto piuttosto perché, nel sesso, le cose si disarticolano in un battito, ci disarticolano e spingono nel godimento a un’azione in qualche modo nuova, che si incida nel mondo, pure nell’ambiguità del desiderio, nelle sue disavventure e nei suoi imbarazzi. La persona sessuata, cioè l’essere umano, dice insomma: non ci capisco niente, davvero, ma avrei bisogno di scopare con te e questo desiderio mi punge e brucia, devo farci qualcosa in qualche modo, fosse anche prendermi a schiaffi finché me lo scordo.
Infine, comprendere così la sessualità indica il fianco etico e politico del desiderio. Questo non solo perché si sottolinea il momento problematico di un ordine prestabilito (che s’inceppa e non va come dovrebbe, che funziona chiedendo di essere messo in discussione), ma soprattutto perché il sessuale come malfunzionamento può essere a sua volta mancato. Non va insomma da sé farsi provocare dal proprio desiderio: posso ignorarlo, posso fare come se non ci fosse, posso relegarlo a un compartimento o non permettere alla sessualità di dirmi qualcosa. I nodi vengono certo al pettine, ma posso pur sempre guardare dall’altra parte, dove salterà fuori un altro nodo che potrà ancora una volta essere ignorato e così via. La contraddizione può incepparsi a sua volta. E questo è fondamentale: le vie del desiderio non si realizzano sotto la stella dell’automazione fluida, continua, istintuale e predeterminata, ma nel segno dell’indeterminazione, dell’interruzione, della sospensione al fallimento, e riconsegnano all’individuo i suoi impicci, non come debiti ma come questioni. Non si tratta cioè di escludere la contraddizione, di ribadire pestando i piedi che c’è un ordine, né di accettare laconicamente la contraddizione, cioè la posizione del tanto vale tutto, ma di posizionarsi rispetto a essa, di ingaggiarla, di usarla come clivaggio e leva nel mondo, che è materiale e collettivo. In questa terza opzione sta appunto il germe delle potenzialità pubbliche e politiche del desiderio e della sessualità.
Su questo modo dell’incisione, dell’intervento che muove dalle contraddizioni concrete di una vita singolare che risponde a esse, cioè al proprio desiderio, si concentra infine il saggio di Zupančič. L’inciampo dell’ordine e la riflessione eccessiva del godimento manifestano che nella sessualità ne va qualcosa di reale, di resistente e di efficace. Reale non è inteso infatti nel senso di dato, messo lì, da prendere, bello e pronto, ma come ciò che, nel mio modo di vivere, si presenta come ostacolo, impossibilità, rogna e tuttavia anche e allo stesso tempo come interesse, attrazione, voglia. Questo ingorgo nel trafficare delle azioni è il modo in cui qualcosa di reale si forma per gli animali umani e la sessualità ne è il luogo per eccellenza. Intuitivamente, d’altra parte, com’è che sappiamo che qualcosa è reale se non quando ci mette i bastoni fra le ruote? La realtà, ci dice insomma Zupančič, non è un mondo vero delle cose, cui adattarsi, di cui compiacersi, da cui ottenere una magra soddisfazione di bisogni disorganizzati. Non è neanche un principio trascendente che assicura la riuscita delle mie azioni e non è il lasciare e prendere quel che si trova nel marasma degli individui privati e dei loro oggetti. La realtà è per gli umani mettersi a fare qualcosa perché qualcosa è andato storto, per qualche ragione.
Ed è proprio su questo concetto di reale che si chiude idealmente il saggio di Zupančič. Non la quiete di un reale trovato, che assicuri la felicità, la riuscita e il piacere, ma di un reale che nel suo intoppo trova comunque lo spazio di incidere la materia, di realizzarsi e sbeccare il suo mondo. Le riflessioni conclusive, scritte nello spirito di una diagnosi del tempo presente, ricordano che “spesso attribuiamo la fonte dei mali del nostro tempo alla velocità del flusso di parole e di concetti, e alla mancanza di coinvolgimento con le cose reali, la vita reale, le esperienze reali e le emozioni reali. Eppure forse il problema è un altro: non abbiamo perso il Reale (che non abbiamo mai ‘avuto’), ma stiamo perdendo la capacità di nominare ciò che può avere degli effetti reali”. Ritroviamo qui la dicotomia di cui sopra: non ne va di riaffermare un ordine stabile di realtà, che squadri e assicuri l’azione e il desiderio, come neanche di accomodarsi in una molteplicità di brevi ragioni isolate. Al contrario, “l’unico modo in cui possiamo toccare qualcosa del Reale […] è proprio attraverso la parola giusta […] che ci dà accesso alla realtà in un modo completamente diverso: non è una descrizione corretta della realtà, è l’introduzione di una nuova realtà”. Il desiderio sessuale non concede gli allori del principio monolitico e onnivoro, come neanche il lutto, più o meno gratificato, perché questo principio manca o è altrove. Le disavventure del desiderio lavorano diversamente: ci mostrano la realtà come un problema e come la nuova forma che questa realtà, ogni volta determinata, può prendere nella sua trepida gestazione.