U na delle più famose etichette approntate dagli intellettuali di destra americani per definire la sensibilità di sinistra interna alle culture wars è snowflakes generation: generazione dei “fiocchi di neve”, persone fragili, suscettibili, subito pronte a offendersi e ad auto-vittimizzarsi. Fra i vari sintagmi semantizzati o ri-semantizzati dalla destra (ex. Social Justice Warrior, politically correct, ecc.), snowflakes generation è probabilmente il meno efficace. Ai fini della battaglia ideologica per conquistare al proprio discorso tutte quelle aree di popolazione non direttamente schierate nei conflitti culturali in corso, il sintagma in questione è carico di un’accezione così negativa da rendere fin troppo lampante il posizionamento politico di chi lo utilizza. La voce che dice “snowflakes generation”, insomma, non può essere scambiata per una voce neutrale o a-ideologica: il termine urla il posizionamento a destra di chi lo pronuncia.
Eppure, e da qui parte Sensibili di Svenja Flaßpöhler (da poco uscito per le edizioni Nottetempo nella traduzione dal tedesco di Tommaso Isabella), la ridefinizione dei limiti di ciò che riteniamo socialmente accettabile è certo uno degli aspetti più macroscopici delle culture wars, e questo perché ne è uno degli aspetti più socializzati. È difficile, entrando in un bar o viaggiando in treno, imbattersi ad esempio in una conversazione sull’intersezionalità o sul colonialismo che secondo alcuni sarebbe implicito nel concetto di gender, ma è piuttosto comune ascoltare dibattiti relativi ai nuovi limiti su ciò che è giusto dire o fare. Con opinioni certo diverse, più o meno ognuno di noi sarebbe pronto a riconoscere che i limiti della sensibilità (individuale e sociale) sono progrediti e che, viceversa, il livello di tolleranza verso determinate espressioni e determinati comportanti si è percettibilmente abbassato, e non solo a sinistra. Se da un lato shitstorms e boicottaggi sono diventati pratiche finalizzate a disciplinare comportamenti intesi come violenti, dall’altro lato le stesse persone di destra reagiscono alla nuova sensibilità etico-culturale con rabbia malcelata.
Ciò inteso, il proposito di Flaßpöhler è solo in parte quello di offrire una spiegazione al nuovo dato psico-sociologico. Piuttosto si propone di tentare – con risultanti talvolta brillanti, talvolta impressionistici – una breve storia filosofica dell’idea di sensibilità. Da Rousseau a Elias (faro centrale del discorso qui svolto), da Lethen a Jünger, da Theweleit a Nietzsche, l’intento è qui andare a storicizzare il concetto stesso di sensibilità, intendendolo sul piano del rapporto fra sensazioni personali e trasformazioni sociali.
L’intendimento, notevole nei suoi presupposti, manca però di una certa sistematicità, mancanza dovuta, io credo, proprio a un’ipertrofia del dato filosofico rispetto a quello storico. Flaßpöhler magnifica con intelligenza gli outcomes filosofici legati al discorso sulla aisthesis (ma quanto avrebbe fatto al caso una riflessione sulla nascita dell’estetica, cioè di una filosofia delle sensazioni, a metà Settecento), spesso connettendo sapientemente l’accrescimento degli stimoli sensibili alle ristrutturazioni sociali (fra tutte l’inurbamento e le nuove metropoli, aborrite già da Rousseau). Raramente però connette le stesse trasformazioni sociali ad elementi più vasti come ad esempio quelli che riguardano i cambiamenti dei modi produttivi. Considerare questo aspetto avrebbe permesso di spiegare la relazione fra l’accrescersi della sensibilità e il tramonto di quel presunto “ordine naturale” che garantiva, sul piano ideologico, la sussistenza della società feudale, e avrebbe altresì chiarito il suo legame con l’entrata in crisi dell’idea classica di logos.
Con opinioni certo diverse, tutti sarebbero pronti a riconoscere che i limiti della sensibilità (individuale e sociale) sono progrediti e che il livello di tolleranza verso determinate espressioni e comportanti si è percettibilmente abbassato, non solo a sinistra.
La mancanza di questo elemento invece produce una diffrazione prospettica che crea due ordini di problemi: 1) il sintomo di secondo livello (l’accrescersi della sensibilità) viene legato omologicamente a un altro sintomo (le nuove conformazioni sociali), senza che entrambi risultino dialetticamente connessi ai mutamenti sul piano economico (e questo darà problemi, nel finale, a spiegare i dati sociologici contemporanei); 2) l’approccio produce spiegazioni interrotte che talvolta si limitano alla cartografia impressionistica e a forte rischio di a-storicizzazione (sembra dire: “guardate come Rousseau ha già parlato di cose che riguardano anche noi!”), e talvolta cadono direttamente nello psicologismo.
In questo movimento, inevitabilmente, il discorso di Flaßpöhler tende a farsi più pregnante man mano che, entrando nel Novecento, la sensibilità e l’orizzonte culturale (e materiale) dei filosofi che prende ad esempio si avvicinano ai nostri. Vale in questo senso citare almeno le ottime pagine sul blasé per come teorizzato da Georg Simmel. Qui l’autrice ha infatti buon gioco a rilevare, tanto nel rifiuto da destra quanto nella smugness legata ai temi del politicamente corretto di sinistra, il persistere della ‘superiorità’ blasé. Secondo Simmell, essa era paragonabile a una forma di auto-corazzamento psichico teso a preservare la propria identità dall’urto con gli stimoli disgregati e eterogenei che provengono da una società non più ideologicamente coesa, ma organizzata sulle funzioni – mobili – del consenso e dell’egemonia.
Anche in questo caso, però, l’efficace analisi psico-sociologica di Flaßpöhler si sarebbe certamente avvantaggiata da una relazione più diretta col modo economico. È infatti proprio al tempo di Simmel, il tempo della seconda rivoluzione industriale, che il modo produttivo viene rifondato (fra fordismo e taylorismo) sulle ragioni del puro principio di strumentalità (adattamento dei fini ai mezzi), e l’atteggiamento blasé mima appunto quella esclusione (in questo caso dal nostro orizzonte psichico) di tutto ciò che, pur esistendo, viene per esso riconosciuto non utile, non funzionale.
L’utilizzo insomma delle tipica metodologia sociologica à la Elias (la descrizione sintomatica di stadi e effetti della civilizzazione progressiva), finisce qui per produrre risultati altalenanti: efficaci nel rilevare lo sviluppo graduale di nuove sensibilità per come espresse in sintomi culturali (e soprattutto filosofici, in questo caso specifico), ma lasciati alle capacità intuitive dell’autrice per ciò che concerne la loro spiegazione sul piano dell’intersezione fra storia e sociologia.
L’autrice sviluppa un preciso parallelo fra la nuova etica progressista e gli atteggiamenti tipici di certa borghesia ‘protestante’, intuendo la sfera del comfort (anche ideologico!) come funzionale al mantenimento del benessere psico-fisico.
Proprio su questo piano il volume è però ricco di riflessioni puntali su tutta una serie di concrezioni socio-comportamentalicontemporanee. Flaßpöhler coglie ad esempio con sottigliezza come l’accrescersi della sensibilità sia legato a quei processi di singolarizzazione sociale (o di atomizzazione). Isolato a livello anzitutto materiale, l’individuo è portato tanto a cercare rifugio in conformazioni sovra-personali (il gruppo, la comunità, ecc.), quanto ad avvertire la propria identità come soggetta a minacce provenienti sia da atteggiamenti ideologici quanto comportamentali, reagendo a ciò con un surplus di suscettibilità.
Allo stesso modo, l’autrice sviluppa un preciso parallelo (che Jason Tebbe ha chiamato new victorianism) fra la nuova etica progressista e gli atteggiamenti tipici di certa borghesia ‘protestante’, intuendo la sfera del comfort (anche ideologico!) come funzionale al mantenimento del benessere psico-fisico. E ancora, stavolta proprio sulla scorta di Elias, comprende chiaramente come le pratiche di auto-disciplinamento del sé, per come veicolate proprio dal politicamente corretto, siano ideali auto-regolativi connessi soprattutto all’accrescimento del proprio capitale simbolico in un mondo in preda alla competizione generalizzata. Siamo insomma alle soglie non tanto dei fenomeni di washing (che rappresentano solo l’aspetto più superficiale, e banalmente strumentale, della questione), ma di quel convinto appropriarsi delle tematiche delle culture wars (inclusività, diversity, ecc.) da parte di certo capitale, al fine di metterle a lavoro nell’ambito della stessa competizione fra capitalisti (e fra abitanti del cosiddetto Capitalocene). La capacità di appropriarsi di tali temi rischia insomma di diventare parte integrante di quel meccanismo concorrenziale a cui si improntano ormai le nostre esistenze. Tale movimento, dunque, tende a farsi mimetico, come Flaßpöhler sostiene sulla scorta di Lacan, all’interiorizzazione di norme sociali fattesi seconda natura.
Tutto ciò, ed è un punto nel volume in parte in linea con le riflessioni del Richard Sennett di qualche anno fa, viene poi connesso (anche qui a mio avviso giustamente) a quell’accrescersi delle ragioni della sfera privata su quella pubblica. È questo un punto su cui è però necessario soffermarci un attimo. Flaßpöhler imposta la tematica con un Nietzsche contra Levinas, intendendo col primo un lavoro su di sé come forma di resilienza e, col secondo, un lavoro su di sé per lo sviluppo di una soggettività legata all’orizzonte della solidarietà. Il versante ‘Nietzsche’ darebbe luogo a una sorta di individualismo di tipo liberale, dove il soggetto è teso a fortificare se stesso per adattarsi a un reale che viene inteso fondamentalmente come non-trasformabile. Il versante ‘Levinas’ dà invece luogo a un’azione su di sé come apertura alle ragioni dell’Altro, cioè lo sviluppo di una sensibilità tesa a trasformarsi eticamente come via alla trasformazione dell’intero reale.
La contrapposizione, certamente interessante, comporta però due rischi: in primo luogo si perde di vista come l’elogio nietzschiano del molteplice potrebbe in realtà essere inerente alla stessa visione levinasiana. Lo sviluppo di una prospettiva multi…prospettica, così come la caduta della volontà-di-valore nell’ambito del nichilismo, è del resto alla base della visione anti-universalistica tipica della nuova cultura progressista della sensibilità, una cultura che si vuole, talvolta anche programmaticamente, neo-nietzschiana. In secondo luogo, la stessa idea del lavoro su di sé comporta essa stessa il rischio (anche quando si pensa come sensibilità e non come resilienza) di una naturalizzazione dell’orizzonte sociale nel quale si è immersi. Se infatti questo orizzonte viene pensato come trasformabile a partire dal privato, dalla sensibilità di ognuno di noi, inevitabilmente quella sensibilità rischierà di smettere di riconoscersi (anche) in quanto sintomo di un modo di operare della struttura. Accadrà allora, questo il rischio del ragionamento dell’autrice, proprio ciò di cui parlavamo in precedenza: tutto ciò che pertiene all’orizzonte della sensibilità (politicamente corretto, empatia, ecc.) passerà a intendersi come inevitabilmente altro rispetto a quelle che sono le relazioni di potere che operano sul piano sociale, e rischierà così di occultare (uso strumentale del politicamente corretto, fenomeni di washing, creazione di capitali simbolici di tipo progressista, ecc.) il suo essere in parte interno al corrente funzionamento del sociale stesso, cioè al meccanismo concorrenziale che dalla struttura produttiva si è riversato nel sistema di relazioni sociali.
Le pratiche di auto-disciplinamento del sé, per come veicolate proprio dal politicamente corretto, sono connesse soprattutto all’accrescimento del proprio capitale simbolico in un mondo in preda alla competizione generalizzata.
Il rischio insomma è che anche in questo caso si concretizzi poi quello che mi pare il problema di fondo di Sensibili: la questione culturale, pur correttamente impostata e ricca di originali spunti di riflessione, rischia di impantanarsi sul versante etico del problema stesso. Flaßpöhler ha chiaro che se le tematiche di ‘dolore’ e ‘violenza’, quelle cioè che riferiscono da vicino alla questione della sensibilità del soggetto (“Film, romanzi, singole parole: praticamente tutto può traumatizzare o ritraumatizzare”), vengono mantenute nello stesso orizzonte soggettivistico in cui si sviluppano, niente allora potrà impedire che le ragioni del ‘privato’ trapassino senza soluzione di continuità nel ‘pubblico’, e che, in tale situazioni, ciò che la soggettività crede potrà direttamente assumere addirittura valore di legge (se qualcuno mi ha fatto subire qualcosa che io giudico un trauma quel qualcuno deve essere punito dallo Stato). Però, intendendo la questione semplicemente come uno scontro (o un dialogo) fra modelli culturali e psicologici differenti, rischia ancora di perdere di vista che l’ipertrofia del soggettivo è essa stessa funzionale a un sistema che esalta proprio la soggettività, da un lato, a scopi di consumo, e, dall’altro (e in linea con la tradizione politica liberale), nel fare dell’individuo privato il fondamento stesso del sistema pubblico, secondo un principio che, col neo-liberalismo, ha addirittura – almeno in certi paesi occidentali – subito un’accelerazione.
Tutto ciò resta però estraneo al discorso di Flaßpöhler, la quale, non a caso, giungerà progressivamente a una soluzione di compromesso, vale a dire all’immagine di una società in grado di barcamenarsi fra le ragioni della resilienza e quelle della sensibilità. Ma tale immagine può sorgere solo appunto considerando le questioni sul tavolo come ridotte nel cono d’ombra del loro valore etico-culturale, e non come legate a precise strategie economiche e quindi politiche.
Anche sul linguistic turn (l’idea che il linguaggio sia creatore di percezioni del reale) e sul modo in cui alcuni portati post-strutturalisti si sono riversati nella nuova cultura progressista, l’autrice affastella alcune interessanti considerazioni, considerazioni che sono al centro delle guerre culturali. Flaßpöhler lega infatti assai correttamente la cosiddetta ‘svolta linguistica’ ai propositi decostruttivi che, da Derrida a Butler, intendono il superamento del dato, vale a dire di ciò che si è concretizzato in una convenzione oggettivante, come svincolamento della nostra percezione e della nostra conoscenza (del nostro modo di considerare il reale) da propositi ordinativi connessi alle prospettive, cioè ai rapporti di potere, dominanti. Se il linguaggio può costituire il reale, sostiene con ragione l’autrice, esso può anche diventare strumento di minaccia e di violenza. Allo stesso modo, l’intervento su di esso (es. schwa, asterischi, ecc.) può caratterizzarsi come scelta etica sensibile, finalizzata a dare voce, spazio, esistenza, a ciò che, fino a quel momento, neanche era stato concesso – linguisticamente – di esistere. Su tale via Flaßpöhler coglie anche quella che è una macroscopica contraddizione della posizione di sinistra interna alle cultural wars: perché una cultura fondata su principi di carattere anti-universalistico e anti-normativo, e che fa anzi della normativizzazione, dell’essenzializzazione, l’espressione stessa dei portati di uno sclerotizzante potere, quando scende sul piano della prassi e della socializzazione riesce a concretizzarsi solo mediante irrigidimenti etici o identitari (il politicamente corretto, le identity politics, ecc.) che paiono tradire il suo stesso impianto teorico di riferimento? Come si è passati, insomma, dal ‘gioco’ della decostruzione alla normatività del politicamente corretto?
Colto tale importante punto, però, anche in questo caso Flaßpöhler, da un lato, non allarga il suo ragionamento al piano strutturale (dove, io credo, avrebbe potuto vedere lavorare all’unisono, e sul piano delle modalità di produzione, particolarismo anti-universalistico e universalismo coatto della ragione strumentale), dall’altro fornisce soluzioni convenzionaliste difficilmente condivisibili: “Se si potesse considerare il maschile sovraesteso come una pratica di designazione universale e indipendente dal genere, ovvero ciò che in termini puramente formali di fatto esso è, non vi si potrebbe allora rintracciare una sorprendente risorsa in termini di emancipazione […]?”.
Flaßpöhler giunge a una soluzione di compromesso, in grado di barcamenarsi fra le ragioni della resilienza e quelle della sensibilità. Ma tale soluzione può sorgere solo considerando le questioni sul tavolo come ridotte al loro valore etico-culturale, e non come legate a precise strategie economiche e quindi politiche.
Allo stesso modo, la mancata connessione fra i nuovi posizionamenti etico-culturali (di sinistra o di destra che siano) e il piano della loro mercificazione, il piano cioè in cui questi vengono sistematicamente messi a profitto, rischia insomma, a tratti, di produrre alcune ingenuità. Più preciso risulta invece il quadro quando l’autrice abbandona il piano della pura filosofia legandosi a un approccio sociologico che mi pare le sia più congeniale. È questo ad esempio il caso delle riflessioni, sulla scorta ora di Andreas Reckwitz, sulla ‘singolarizzazione sociale’ o, per dire meglio, sul rapporto fra il sovraccarico di sensibilità nervosa e il passaggio a una società (e a un modo di consumo) largamente basato non sulla standardizzazione ma su un’apparente autonomia: lavoro autonomo, ‘lavoro creativo’ nel passaggio al post-fordismo, consumi ritagliati sul piano individuale, ecc. In questo caso la connessione che l’autrice istituisce fra iper-sensibilità e ‘singolarizzazione’ risulta infatti efficace e convincente, appunto perché riesce a dare conto della relazione dialettica fra il piano psico-sociologico e quello legato alla sfera strutturale. Lo stesso vale per la sua riflessione sull’iper-medicalizzazione o sull’impressionante crescita del numero di individui che si dichiara ‘allergico’ (o intollerante) a qualcosa. Anche in questo caso ci confrontiamo infatti con degli elementi di iper-sensibilizzazione (o, per dirla con Daniele Giglioli, di sensibilità pronte a riconoscersi ‘vittime’ di qualcosa) intimamente legati a una rappresentazione di sé come figura offesa; percezione che si rovescia, in un’epoca di massificazione e standardizzazione galoppante (si pensi all’invasione di franchising che vediamo anche in Italia), in uno standpoint singolarizzato che, proprio per tale ragione, si sogna estraneo (siamo nei pressi dell’alienazione) alla massificazione stessa.
Su tale linea, anche la difesa del comfort personale (materiale e ideologico), ad esempio mediante i safe spaces, viene intesa dall’autrice come parte integrante di una tribalizzazione sociale. Questa chiusura in “bolle” (anche social), permettendo all’individuo di interagire solo con i propri ‘simili’, ne protegge la visione ideologica e, conseguentemente, il benessere psico-fisico, ma non senza che tali chiusure possano rovesciarsi in atteggiamenti agonistici e aggressivi (“ok, boomer!”) che attaccano proprio, ed è tutt’altro che un caso, le vecchie visioni del reale e del sociale a tendenza (falsamente) universalizzante, ribadendo quell’egemonia del ‘particolare’ e del ‘relativo’ che si caratterizza come rumore di fondo del tempo corrente. Questa egemonia relativista va però compresa, come evidenzia Flaßpöhler, in quanto altra faccia della medaglia di un desiderio di normatività che, con obiettivi diversi, si manifesta in tanti indirizzi ideologici, anche avversi, del contemporaneo.
Meno condivisibili sono però per me le conclusioni del volume. Flaßpöhler cerca come già detto una soluzione di compromesso, tentando di salvare all’unisono sensibilità e resilienza (“C’è un punto inevitabile in cui una persona deve passare all’azione per conto proprio e assumersi le responsabilità della propria vita. Se non lo fa, rimane un bambino”), ragioni della meritocrazia e riconoscimento dell’ineguaglianza sociale, egualitarismo e individuo, ecc.. Ne viene fuori il solito mix curioso del liberalismo di sinistra, dove la ricerca di un punto d’equilibrio sociale resta affidato un po’ alla buona volontà dei singoli e un po’ a un’azione culturale che, si crede, possa avere più dirette ricadute politiche; una soluzione che, oltre a lasciare un po’ perplessi, credo sia da collegare direttamente proprio a quella mancata connessione fra le prospettive (o i sintomi) etico-culturali e il corrente funzionamento del sistema di produzione e mercato di cui si è detto.