I n quasi tutte le regioni d’Italia, è la settimana del ritorno tra i banchi; studenti e docenti si troveranno per i prossimi nove mesi a condividere spazi e ore, a rincorrere obiettivi e progetti, in un sistema scolastico che da tempo accusa un’innegabile crisi. L’istruzione pubblica italiana appare soffocata dalla burocrazia, arranca dietro all’evoluzione della società e degli studenti, e c’è chi la ritiene corresponsabile del declino intellettivo e culturale dei cittadini. L’educazione è certamente un fenomeno complesso, che si sviluppa su una rete i cui nodi includono aspetti scolastici ed extrascolastici, e non riguarda solo l’acquisizione di conoscenze ma la formazione della persona in toto.
Volendo però mettere a fuoco ciò che succede nelle classi, il modello educativo che molti di noi associano alla scuola (e che secondo gli ultimi sondaggi resta il più diffuso) è quello frontale. Il docente, spesso confinato nello spazio definito da cattedra e lavagna, spiega la lezione; gli studenti, idealmente attenti e in silenzio, siedono ai banchi disposti in file rivolte verso lo spazio-docente. I contenuti del sapere sono in primo piano rispetto al processo di acquisizione del sapere, ridotto a una semplice trasmissione “verticale”. Nella lezione frontale ottimale, il docente spiega molto e bene e i ragazzi ascoltano, leggono alla lavagna e prendono appunti, limitandosi a intervenire con qualche domanda o, su richiesta del docente, per leggere o svolgere esercizi.
Questo modello è chiaramente superato per molte ragioni. Dà per scontato che l’apprendimento derivi direttamente dall’insegnamento, relegando gli allievi in una posizione passiva, valutandoli per i loro risultati individuali e stimolando così la competizione anziché la collaborazione. Può funzionare per classi uniformi composte da alunni “convergenti”, ricettivi e ubbidienti, ma stride con la filosofia dell’inclusione: penalizza gli alunni con problemi di apprendimento e attenzione, non tiene conto dei diversi stili di apprendimento né delle diverse personalità (un alunno timido e insicuro tenderà a non chiedere spiegazioni). In vista di interrogazioni e compiti scritti, gli studenti possono anche immagazzinare grandi quantità di informazioni, ricalcando il lessico e lo stile espositivo del docente, ma senza realmente farle proprie né conservarle sul lungo periodo. E le materie tendono a restare separate, come ambiti non interagenti del sapere; ma nella realtà i problemi e gli obiettivi professionali che gli studenti si porranno una volta terminato il percorso d’istruzione oltrepassano quasi sempre l’ambito delle singole discipline.
Per questo motivo in ambito scolastico si parla molto di metodologie didattiche da adottare in alternativa alla semplice “trasmissione” tipica della lezione frontale. Tali metodologie, dette attive, si classificano in vari modi, ma sostanzialmente comportano la partecipazione attiva dell’alunno, la socializzazione, la valorizzazione dell’esperienza personale e il coinvolgimento in attività pratiche. L’alunno deve inoltre sviluppare la metacognizione, ossia la riflessione consapevole sui processi mentali che sfrutta per apprendere, in modo da elaborare e perfezionare il proprio metodo di studio (“imparare a imparare”). Il docente perde la posizione centrale, diventando di volta in volta guida, stimolo, moderatore od osservatore.
In ambito scolastico si parla molto di metodologie didattiche da adottare in alternativa alla semplice “trasmissione” tipica della lezione frontale.
Queste metodologie si basano su teorie dell’apprendimento sviluppate nel Novecento: per esempio l’attivismo, secondo il quale occorre incentivare e guidare la naturale tendenza dello studente all’attività produttiva (quello che oggi si riscontra, nel campo educativo, nel concetto di learning by doing, imparare facendo); oppure il costruttivismo, per cui ogni individuo, tramite un atto creativo, costruisce la propria visione di realtà tramite la relazione e l’interazione con l’ambiente che lo circonda, interpretando l’esperienza tramite costrutti mentali dinamici che vengono essi stessi modificati via via dall’esperienza. Una variante del costruttivismo è il sociocostruttivismo, che pone l’accento sulla natura sociale dell’essere umano, sulla necessità della cooperazione e del lavoro di gruppo e sull’importanza della dimensione emotiva e affettiva nel processo educativo. Secondo lo psicologo David Ausubel, ciò che conta è che l’apprendimento sia significativo (dotato di senso), e a tal fine è necessario che ogni nuova informazione, ogni scoperta ed esperienza vadano a integrare la conoscenza pregressa dello studente, in modo da creare una mappatura mentale di associazioni che agevola la memoria e la costruzione di ulteriore senso. In base a queste e altre idee sull’apprendimento, sono state elaborate molteplici procedure e metodologie, talora “riciclando” e ampliando prassi già adottate da insegnanti più lungimiranti.
Così, le attività di gruppo si inseriscono in un approccio più generale chiamato cooperative learning (apprendimento collaborativo), nel quale lo studente realizza la propria conoscenza tramite forme varie di collaborazione con gli altri, incrementando così anche le proprie competenze sociali. Secondo le teorie alla base del cooperative learning, alcune potenzialità cognitive emergono solo tramite l’interazione con gli altri, e il lavoro di gruppo porta a risultati migliori rispetto alle attività individuali; la dipendenza reciproca all’interno del gruppo favorirebbe l’instaurarsi di legami, lo sviluppo del senso di responsabilità verso i compagni e la capacità di risolvere positivamente le divergenze di vedute. Nel gruppo, i soggetti più deboli possono trovare rinforzo e aiuto per superare le difficoltà, e le diverse prospettive fornite dalle esperienze di ciascuno contribuiscono ad arricchire il confronto. Il docente assume il ruolo di sollecitatore della discussione e promotore di un’interazione positiva. Ricadono in questo approccio il peer tutoring, in cui un compagno più esperto funge da riferimento in un’attività in coppia o in un piccolo gruppo, o il jigsaw, in cui l’insegnante, dopo aver formato i gruppi e scelto i leader, suddivide la lezione in segmenti e assegna a ogni studente lo studio di un solo segmento, verificando l’apprendimento alla fine dell’attività.
Una metodologia radicata nella teoria costruttivista è la didattica laboratoriale; lo studente sperimenta “in piccolo” cosa significhi fare ricerca in una data materia. Naturalmente, rientra nella didattica laboratoriale anche la concezione più abituale di laboratorio come luogo di applicazione concreta della teoria tramite costruzioni, produzioni artistiche o esperimenti scientifici, ma il concetto di laboratorio si può estendere, in modo (forse troppo?) elastico, a una varietà di approcci e discipline. Lo studio della storia, per esempio, si può trattare tramite il confronto critico tra fonti che narrano lo stesso evento storico in modo diverso – un metodo riciclabile anche in molte altre situazioni. L’IBSE (Inquiry Based Science Education, educazione scientifica basata sull’indagine) si può considerare una forma di didattica laboratoriale pensata per le materie scientifiche, che mette l’alunno in condizioni di apprendere in modo induttivo partendo dalle osservazioni, formulando ipotesi e progettando esperimenti per verificarle, ma anche di farsi un’idea di come la conoscenza scientifica si costruisce.
Nella didattica per progetti (project based learning), il percorso didattico è orientato alla realizzazione di un prodotto: gli studenti dovranno valutare le risorse necessarie (materiali, strumenti, persone, istituzioni), stabilire i tempi e i ruoli per portarlo a compimento e pianificare il lavoro necessario. Il progetto può essere virtualmente qualunque cosa, dalla ricostruzione del profilo di un personaggio importante alla creazione di una campagna di sensibilizzazione. La didattica per problemi (problem solving) parte invece dall’analisi di una situazione problematica e usa gli strumenti cognitivi coinvolti nel ragionamento logico-matematico per ricercare la soluzione (o più soluzioni), applicando quanto appreso a contesti sempre nuovi.
Al di là delle validissime motivazioni che sostengono le metodologie attive, occorre passarle al vaglio della realtà scolastica da una parte e della valutazione dei risultati dall’altra.
Negli ultimi anni ha poi raggiunto una certa popolarità la flipped classroom (classe capovolta). Nella lezione tradizionale l’acquisizione delle nuove informazioni avviene in classe, tipicamente durante la spiegazione, e a casa gli alunni studiano e si esercitano per consolidare la comprensione e l’applicazione dei contenuti. Nella flipped classroom avviene l’opposto: lo studente attinge alle informazioni da casa, mentre in classe si riflette, si elabora e ci si esercita sui contenuti acquisiti a casa. All’insegnante spetta selezionare quando non preparare il materiale da usare per casa (pagine di libri, dispense, soprattutto registrazioni audiovisive) e caricarlo su un’apposita piattaforma. I fautori della flipped classroom sostengono che in questo modo gli studenti, non essendo vincolati ai tempi della lezione in classe, possono apprendere ciascuno al proprio ritmo, per esempio riascoltando le videolezioni o mettendo in pausa per approfondire, e sfruttando la presenza del docente quando serve di più.
Questi metodi e diversi altri possono essere applicati in alternanza o contemporaneamente. Nella flipped classroom, la parte di elaborazione a scuola può essere collaborativa, così come un percorso di didattica laboratoriale può essere organizzato attorno a un progetto o a un problema. Il coinvolgimento si può ottenere tramite diverse tecniche: il brainstorming, in cui ciascun partecipante è invitato a esporre quante più idee possibili senza badare all’accuratezza, che sarà vagliata solo in un secondo momento; lo storytelling, che descrive una situazione o un problema con gli strumenti e il linguaggio della narrativa; ma anche il dibattito, lo studio di un caso, la simulazione, il gioco di ruolo e via dicendo. Comunque, al di là delle validissime motivazioni che sostengono le metodologie attive (promuovere la socialità, migliorare l’autonomia, dare un significato all’apprendimento permettendo di viverlo concretamente e ricollegarlo all’esperienza, favorire l’inclusione), occorre passarle al vaglio della realtà scolastica da una parte, e della valutazione dei risultati dall’altra.
Ci scontriamo qui con un primo problema: non solo non esiste una tradizione educativa che stabilisca delle buone prassi nell’adozione di queste metodologie, ma spesso non è nemmeno identificabile un confine preciso tra di esse. È vero che una valida metodologia didattica non può essere troppo prescrittiva, dovendosi adattare e modificare in modo fluido secondo il contesto e le esigenze della classe. Questo però complica i processi di valutazione degli studenti, che mostrano giocoforza grande disomogeneità tra esperienze diverse. Per lo stesso motivo, è difficile giudicarne l’efficacia in termini di rendimento e quindi fare dei confronti quantitativi tra metodi, anche perché, sebbene la ricerca nel campo dei fenomeni educativi (pedagogia sperimentale) risalga alla fine dell’Ottocento, in Italia fu osteggiata dagli inizi del Novecento e rimase pressoché ferma per tutto il secolo; si riteneva infatti (e alcuni ritengono tuttora) che sia impossibile svolgere ricerca scientifica su un campo complesso come l’apprendimento.
Gli studi sulle metodologie didattiche dunque scarseggiano, sono difficili da confrontare e sono condotti prevalentemente all’estero. Mentre le singole esperienze sono estremamente diverse, le indagini sembrano evidenziare un miglioramento generale della percezione delle lezioni da parte degli studenti e un abbassamento dei livelli di stress e burnout nei docenti. Nella maggior parte dei casi, i risultati scolastici degli studenti sembrano migliorare o rimanere invariati. Alcuni fattori creano ambiguità: per esempio, la percezione della novità può indurre una miglior predisposizione della classe nei confronti delle lezioni, ma si rischia di confondere questo effetto con una maggiore efficacia educativa. In alcuni casi, il background cognitivo ed educativo della classe o la presenza o meno di meccanismi di ricompensa influenzano fortemente la ricettività a un determinato approccio; quando poi più approcci vengono adottati contemporaneamente, non è semplice capire quali siano significativi nel determinare la qualità dell’apprendimento.
Il rinnovamento metodologico viene troppo spesso fatto coincidere con quello tecnologico, con grossi investimenti in risorse che spesso restano male utilizzate.
Un problema ancora peggiore è che il rinnovamento metodologico viene troppo spesso fatto coincidere con quello tecnologico, il che porta a grossi investimenti nell’acquisto di lavagne interattive multimediali, corsi di formazione per l’utilizzo di software dedicati che soffrono di una rapidissima obsolescenza, tablet per la fruizione di applicazioni educational e libri digitali e via discorrendo, risorse che spesso restano male utilizzate. Non si vuole qui negare l’importanza delle tecnologie informatiche, né affermare che debbano essere escluse dalle dotazioni scolastiche; ma spesso non si va oltre il contenitore. Per esempio, la flipped classroom viene di fatto identificata con l’adozione di un LMS (Learning Management System), una piattaforma virtuale dove vengono caricati lezioni e materiali e dove è possibile creare forum e quiz online, impostare un calendario e così via. I LMS sono utilissimi, talora necessari, per la formazione a distanza, ma a scuola rischiano di trasformare la flipped classroom in uno specchio per allodole: una videolezione infatti resta pur sempre una lezione frontale, solo privata del contatto col docente e con la classe.
Nei confronti dei libri digitali è stato manifestato un forte interesse iniziale, dovuto a motivi pratici (riduzione dei costi, dell’ingombro e del peso), alla possibilità di interagire col testo e alle potenzialità che offre di arricchire l’esperienza didattica con materiale multimediale, nonché di compensare efficacemente gli handicap di studenti con disturbi specifici dell’apprendimento o disabilità fisiche e sensoriali, per esempio tramite programmi di lettura dello schermo o sintesi vocale. È stato tuttavia dimostrato che in genere l’apprendimento ne risente: se anche la lettura su mezzo digitale è più veloce, quella su carta favorisce la comprensione approfondita. Tra i motivi si possono annoverare l’effetto distraente delle app e della connessione a internet dai dispositivi (smartphone, portatili, tablet) necessari per leggere i testi in formato elettronico, la struttura non lineare di alcuni ipertesti che può risultare dispersiva, ma anche l’affaticamento generato dalla componente blu nella luce emessa dai dispositivi elettronici che, se usati in ore prossime al sonno, ne compromettono durata e qualità (oltre a danneggiare la vista), andando a incidere sulle prestazioni cognitive.
Di certo, i mezzi digitali offrono una fruizione dell’apprendimento che si avvicina molto al tipo di approccio all’informazione a cui la maggior parte degli studenti è abituata. Oggi, il sapere si acquisisce soprattutto tramite associazioni e mappature alle quali ancorare i nuovi input. L’accesso a internet permette una fruizione rapida di materiali sempre aggiornati e dà la possibilità di mettere a confronto descrizioni e punti di vista diversi dello stesso contenuto in modo molto più economico (in termini di tempo e, talvolta, di finanze) rispetto ai materiali cartacei; si pensi a quanto può essere utile un simile strumento, per esempio, nell’analisi di un’opera d’arte. Lo sviluppo di applicazioni “hosted”, disponibili gratuitamente online senza doverle scaricare sul proprio dispositivo, aggira i problemi di compatibilità dei software e mette a disposizione strumenti per un’infinità di scopi: creare filmati, effettuare calcoli matematici e disegnare grafici, sviluppare timeline storiche e così via.
Ciononostante non si può negare che i nativi digitali soffrano di una serie di problematiche associate alle specificità della comunicazione digitale: pensiero veloce ma superficiale, concentrazione e memoria ridotte, “fame” di stimoli, accesso disordinato alle informazioni e conseguente scarsa capacità di categorizzazione, impazienza, impoverimento del linguaggio, non solo nella forma ma anche con la perdita di sfumature di significato; questo perché i sistemi di scrittura automatica selezionano i lemmi più utilizzati, perdendo quelli meno frequenti che però servono a conferire una maggiore espressività e ricchezza al linguaggio e all’argomentazione. Senza una cultura di base, delegare alle macchine il reperimento delle informazioni porta a un accumulo di nozioni che non hanno un nucleo centrale a cui legarsi per costruire conoscenza e significato durevoli. Ancor più preoccupante è la perdita del segno grafico, rimpiazzato dalla tastiera, che non solo indebolisce il collegamento tra pensiero e azione (per scrivere a mano una parola occorre tracciare una sequenza precisa di segni grafici collegati, mentre la videoscrittura implica solamente la digitazione di tasti), ma danneggia anche la manualità fine e la gestione generale dello spazio. Inoltre, il tempo trascorso sugli smartphone e sui social media sembra avere gravi effetti deleteri sull’umore degli adolescenti. Sorprende dunque fino a un certo punto che nelle scuole della Silicon Valley, frequentate da chi lavora nel mondo dell’informatica, si adotti un approccio low-tech “carta e lavagna”, puntando su altri modi per coinvolgere gli studenti.
Più in generale, a prescindere dall’uso della tecnologia digitale, le metodologie didattiche attive funzionano solo se esiste un progetto educativo a lungo termine. Occorre domandarsi cosa immaginiamo per gli studenti non da qui alla fine dell’anno, ma idealmente nel loro futuro di adulti, il che è difficile in una realtà che si è dimostrata troppo dinamica perfino per le nostre capacità intellettive, e che lascia molti giovani alla ricerca di un senso che sembra sfuggire agli stessi adulti che dovrebbero guidarli. Le metodologie didattiche attive, se ben implementate, aiutano a creare un ambiente di studio più coinvolgente e inclusivo, ma non si sostituiscono alla struttura portante di un progetto educativo a lungo termine, così come non possono compensare un rapporto docente-discente disfunzionale e privo di empatia. Senza questi due aspetti, non importa quanto ci si impegni per innovare la strategia in classe, perché vengono a mancare le fondamenta di un’istruzione significativa nel tempo.
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