O ggi 15 marzo 2019 con ogni probabilità si sta verificando la più grande protesta ambientalista mai registrata, capace di contare su più di duemila scioperi in almeno 120 paesi diversi. Lo sciopero globale per ora non conta su un centro organizzativo: la sua animatrice principale, il suo volto pubblico, si chiama Greta Thunberg, è svedese e ha sedici anni. Thunberg ormai da mesi gode – sembrerebbe suo malgrado, considerando le diagnosi di Asperger, OCD e mutismo selettivo – dell’attenzione dei media internazionali. Ogni venerdì, da settembre, Thunberg manifesta di fronte al governo svedese in nome del suo Skolstrejk för klimatet, o “sciopero della scuola per il clima”.
Il successo dello sciopero, e l’energia del proto-movimento che intorno a questo si sta formando nelle ultime settimane, nasce dalla capacità di incanalare un’urgenza di futuro, un’alternativa all’indifferenza con cui la classe politica scansa l’angoscia di chi vivrà nel secolo della crisi climatica.
Nel centinaio di paesi coinvolti dallo sciopero sono compresi quasi tutti i membri dell’Unione Europea. Nonostante una buona parte dello sciopero verrà rivendicata da ragazzi non ancora in età di voto, sottovalutare l’influenza di questa giornata sull’opinione pubblica potrebbe rivelarsi, se non stupido, almeno poco accorto. Mancano infatti poco di più di due mesi alle elezioni europee, le elezioni in cui il blocco di destra radicale (ENF) guidato da Salvini e Le Pen potrebbe passare da 41 seggi a 59, nel Parlamento Europeo che forse non vedrà, per la prima volta dal 1979, popolari e socialisti garantirsi la maggioranza dei seggi. Diventano insomma degne di interesse le posizioni sul clima da parte dei partiti antieuropeisti e antimmigrazione gonfiatisi negli ultimi anni, fino ad arrivare al governo di diversi paesi, incluso il nostro.
Nella sua ricognizione su Internazionale, Marina Forti parte da Vienna e Berlino. “L’estrema destra austriaca e quella tedesca hanno stretti legami con alcune tra le più note fondazioni dell’estrema destra americana, tutte finanziate dall’industria petrolifera, protagoniste di un’aggressiva azione di lobby contro le politiche sul clima”. Entrambi negazionisti, l’Fpö (Partito austriaco della libertà) e l’Afd (Alternativa per la Germania) si appoggiano allo stesso istituto di ricerca, l’Austrian economic centre, che a sua volta è in stretti rapporti con l’Heartland Institute finanziato tra gli altri da ExxonMobil, seconda compagnia tra le big four del mercato petrolifero mondiale. La ExxonMobil presieduta da Rex Tillerson, uno dei Segretari di Stato USA dell’amministrazione Trump.
Al parlamento europeo nella scorsa legislatura la Lega ha votato contro tutte le proposte di politica energetica e sul clima, salvo una direttiva sul risparmio energetico nell’edilizia.
Marine Le Pen invece pensa che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima (Unfccc) sia “un complotto comunista”; posizioni ultra negazioniste si registrano nei partiti di estrema destra polacca (al governo), in Repubblica Ceca, in Danimarca, in Olanda, in Belgio, in Grecia. La Lega di Salvini cerca di presentarsi meno sfrontata e più aperta ad altre vedute, nonostante chi la guida sostenga che la crisi climatica venga sfruttata per legittimare l’immigrazione clandestina; inoltre, ricorda Forti, “al parlamento europeo nella scorsa legislatura ha votato contro tutte le proposte di politica energetica e sul clima, salvo una direttiva sul risparmio energetico nell’edilizia”.
Che fare? Come pensare?
Come siamo arrivati fin qui, e che fare? Della parte scientifica ci siamo già occupati, di oceani morenti e aria velenosa abbiamo già scritto e continueremo a farlo; arrivati a questo punto, però, ci si può permettere di rimandare ad altre letture chi è poco avvezzo al tema o scettico, e concentrarsi sugli aspetti più pratici: le idee. Come accade nello scenario politico, anche in ambito accademico, dove nascono le parole che dovrebbero aiutarci a programmare una vita migliore, la situazione è frammentata intorno ad alcuni assunti fondamentali. Ecco l’esempio di due conflitti solo in apparenza distinti.
Il primo è tra chi continua a definire “Antropocene” tutto questo, l’epoca di una biosfera trasformata per sempre dall’impatto dell’attività umana, e chi invece difende l’urgenza di rinominarlo “Capitalocene”, perché la radice ánthrōpos (uomo) presenta l’aggravante di responsabilizzare tutti gli esseri umani, compresi i miliardi che vivono in condizioni di estrema povertà. Il loro stile di vita non surriscalda l’atmosfera come accade nei paesi a capitalismo avanzato. Nelle prime righe dell’introduzione a Anthropocene or Capitalocene? (Kairos 2016), Jason Moore racconta che in un giorno di primavera del 2009 stava chiacchierando con Andreas Malm, un dottorando dell’Università di Lund (Svezia). Fu proprio Malm a interromperlo – aveva avuto un’idea: “Dimentica l’Antropocene, mi disse, dovremmo chiamarlo Capitalocene!”.
Con più precisione di Antropocene, Capitalocene inchioderebbe i veri responsabili della catastrofe ecologica, ovvero chi (ancora nelle parole di Moore, tra i principali sostenitori del termine) “ha trasformato la natura in una risorsa finanziaria, riducendola in qualcosa che può essere valutato e scambiato e sfruttato così come ogni altro asset. […] Si tratta del processo ideologico che porta a incorporare la natura nella razionalità capitalista e nei suoi calcoli monetari”.
Il fatto che a un aumento della CO2 corrisponda quello delle temperature, è una verità che precede la sua misurazione e le opinioni soggettive.
Nonostante i limiti di un’etichetta criticata ormai da un decennio siano evidenti, insistere con l’utilizzo di Antropocene ha un senso, perché di diffusione più larga e comprensibile a chi legge, e perché tutta questa situazione richiede – nei casi sacrificabili – più pragmatismo, meno attenzione sulle dita rispetto alla luna. Se poi il Capitalocene sostituirà l’Antropocene in tutte le pubblicazioni, benissimo, dopotutto nei prossimi anni toccherà adattarci a novità ben più gravose. Senza dimenticare che ai cittadini si può parlare di crisi climatica e di responsabilità umana anche risparmiando entrambe le etichette (per non parlare delle alternative che continuano ad accumularsi, come Chthulucene, Necrocene, Plantatiocene, Carbocene, eccetera).
Natura e Società
Il secondo conflitto a cui accennavo in precedenza è intrecciato al destino di queste due definizioni: per la gioia del pubblico non specialista, la filosofia contemporanea non riesce a mettersi d’accordo su cosa sia da intendersi con “Natura” e “Società”. Nel suo The Progress of this Storm (Verso 2017) Andreas Malm, ormai lontano da quella primavera del 2009, il Capitalocene lo nomina appena. Anzi, si impegna a smontare il dispositivo filosofico del suo professore, considerandolo addirittura dannoso nella tempesta della crisi climatica.
Il saggio di Malm muove da una domanda: quale modo di pensare ci può aiutare nella situazione in cui ci troviamo? La scelta di Malm ricade sul materialismo storico. In parole semplici: come un albero che condivide le sue origini con il terreno, le radici, la Società nasce nella Natura ma si espande nel sole e nel vento della storia, sviluppando proprietà diverse dall’humus che l’ha originata. In tempi di nuove ontologie spericolate, di tentazioni escapiste, fughe dalla realtà condivisa, il libro di Malm si propone come una chiamata al realismo.
Il fatto che il riscaldamento globale sia calcolato attraverso concetti astratti, deduzioni e misure non significa che il riscaldamento globale sia composto di astrazioni; il fatto che a dircelo sia la comunità scientifica, un prodotto della società forte delle sue strutture di potere e paradigmi conoscitivi, non significa che il riscaldamento globale sia un complotto; il fatto che a un aumento della CO2 corrisponda quello delle temperature, è una verità che precede la sua misurazione e le opinioni soggettive; il fatto che questo aumento sia dovuto alle attività estrattive, azioni dell’uomo, non è soggettivo e responsabilizza chi si occupa del bene pubblico. Infine, il fatto che i soggetti responsabili insistano nel negare i fatti, attraverso critiche “viscerali, e comatose, vaporose e velenose” è dovuto agli “investimenti emozionali e psichici radicati nel profondo della civiltà borghese”.
Nel suo What Is Nature?, Kate Soper dà questa definizione di natura (traduzione mia, come sopra): “le strutture materiali e i processi indipendenti dall’azione dell’uomo (nel senso che non sono un prodotto creato dall’uomo), e le cui forze e poteri causali sono la condizione necessaria di ogni pratica umana, e determinano le forme possibili che può assumere”. Secondo questa visione la natura esiste a prescindere dai concetti che ci ricamiamo attorno. Se può sembrare logico, è bene ricordare che alcuni dei filosofi più influenti degli ultimi decenni non la pensano così.
La teoria offre il suo contributo, per quanto limitato; per farlo deve almeno evitare di trasformarsi in ostacolo.
Timothy Morton e Donna Haraway per esempio, anche influenzati dall’ibridismo di Latour (forse il filosofo più citato del ventunesimo secolo, che a detta di Malm “vede ibridi dappertutto”, dal momento che per lui non c’è distinzione tra sfera sociale e naturale), offrono due visioni diverse ma affini nell’abbattere le barriere tra umano e non-umano, tra materia organica e inorganica; così facendo – ricorda Malm – fanno collassare ogni distinzione tra Natura e Società. Morton e Haraway sono capaci di alcune pagine memorabili, ma la loro teoria lirica, immaginifica, nasconde poteri sedativi: immagini che possono aiutarci a sopportare quello che ci circonda, ma non a salvare chi soffre, o soffrirà nei prossimi decenni. Non sono i batteri a fare la storia, siamo noi: il riscaldamento globale, più che un Iperoggetto, è iper-umano.
Facendo il conto quindi, secondo Malm non ci torneranno utili il costruttivismo, l’ibridismo, e nemmeno il postumanesimo. Clive Hamilton, autore – tra gli altri – di Defiant Earth, sembra quasi divertito dal cattivo tempismo della diffusione del pensiero postumanista, così seducente, negli stessi anni in cui il potere trasformativo dell’uomo sulla biosfera non è mai stato così conclamato: l’agency, la nostra capacità e consapevolezza nell’agire, rende l’essere umano uno scherzo della natura.
A differenza infatti di quanto professino i nuovi materialisti (l’ultimo obiettivo nel mirino di Malm), il carbone, il petrolio, i gas naturali sepolti nelle profondità del pianeta non possono decidere di erompere dalla crosta terrestre tra Ottocento e Novecento, non possono decidere di sprigionare diossido di carbonio durante la loro combustione, non possono insomma scrivere la storia insieme a noi. Gli esseri umani invece, per quanto nati dalla stessa tavola periodica, possono decidere di dirottare o frenare le loro intenzioni. Sia a livello individuale (grazie a quella che chiamiamo coscienza), che a livello collettivo (grazie a quella che chiamiamo politica).
Certificato che il riscaldamento globale dipende dallo sfruttamento dei combustibili fossili, perché escludere allora le compagnie petrolifere dal privilegio della responsabilità? Perché la politica non le aiuta, finché c’è il tempo delle buone maniere, a dirottare le loro intenzioni? Ovviamente alla domanda, per quanto retorica, hanno risposto negli ultimi anni migliaia di scienziati, scrittori, economisti, filosofi, esseri umani di qualsiasi foggia e latitudine, e continueranno a farlo, nonostante la risposta sia nota dal primo momento in cui si è cercata.
La teoria offre il suo contributo, per quanto limitato; per farlo deve almeno evitare di trasformarsi in ostacolo. Siamo uno scherzo della natura, ed è in questa deformità che potremo individuare il motore della militanza ecologista.