U na larga parte delle nuove generazioni che si affacciano al mondo del lavoro non immagina più un futuro stabile, un posto alle poste, un impiego continuativo: è costantemente spinta a saltare da un lavoro all’altro alla ricerca di una mansione che la soddisfi. In parte si è vittime di un sistema economico che raramente ci lascia scelta: il precariato perpetuo è il paradigma delle nuove generazioni. D’altro canto gioca un ruolo centrale il desiderio individuale: il desiderio di realizzarsi attraverso il lavoro, di sfuggire alla noia e all’esistenza prevedibile dell’impiegato di banca o dell’operaio.
Questa retorica del lavoro come luogo dell’autorealizzazione, della priorità di flessibilità, creatività, autoimprenditorialità rispetto a sicurezza e diritti risponde alle necessità di un modello politico prima ancora che economico. Questo modello neoliberale che sfrutta i desideri dei soggetti ai fini dello sfruttamento, lo fa attraverso il dispositivo del labor of love, il “lavoro d’amore”.
Proprio questo “lavoro d’amore” è il tema del saggio della giornalista statunitense Sarah Jaffe intitolato Work Won’t Love You Back – traducibile come “Il lavoro non ricambia il tuo amore”, di prossima pubblicazione per minimum fax. Jaffe segue la storia del labor of love a partire da quelle mansioni tipicamente femminili nella cornice economica fordista: il lavoro domestico e quello di cura. Ma dalle professioni di cura femminilizzate come la babysitter, al ruolo degli insegnanti, ai professionisti del terzo settore e dell’arte, Jaffe ricostruisce il ruolo dell’amore e della dedizione nell’economia neoliberale, per arrivare a definire le emozioni come una sfera sempre più presente e determinante nel lavoro salariato. Il “lavoro d’amore” rende lavoratori e lavoratrici potenzialmente ricattabili, proprio in virtù della devozione alla loro professione. Abbiamo discusso con Sarah Jaffe di diversi temi trasversali al suo saggio, per riflettere su come inquadrare il fenomeno del labor of love nella contemporaneità.
“Lo faccio per amore”: il lavoro di cura
“Il capitalismo fordista divideva in maniera netta il lavoro fuori casa, svolto prevalentemente da uomini, dall’ambito domestico, che era invece considerato prettamente femminile. Le donne svolgevano un lavoro che non era considerato tale, anche se impiegava tutto il loro tempo e le loro energie” afferma Jaffe durante la nostra conversazione. “Quello fordista è stato un periodo molto particolare nella storia. Come scrive Silvia Federici in Calibano e la strega, spingere le donne a restare in casa è stato un atto di incredibile violenza. Le donne sono state costrette in casa per via dell’idea che sia nella loro natura prendersi cura degli altri.”
“Con il declino della fabbrica fordista in occidente” prosegue Jaffe. “Questa divisione è collassata. Le donne che entrano nel mondo del lavoro esternalizzano la cura ad altre donne, spesso razzializzate e provenienti dal Sud Globale, in cambio di un salario.” La salarizzazione e l’esternalizzazione del lavoro di cura non hanno eliminato la premessa di fondo: che sia un’attività svolta per pure abnegazione naturale. Le care workers, di cui Jaffe parla estesamente nel secondo capitolo del suo libro, hanno lottato per far riconoscere la loro necessità di porre un confine tra il posto di lavoro e la propria individualità. Il ricatto è particolarmente chiaro quando le lavoratrici di cura vengono messe di fronte alla salute dei propri clienti come alternativa ai loro diritti:
Una delle più importanti lotte che questi lavoratori di cura affrontano è che il loro interesse è costantemente contrapposto a quello dei loro clienti. L’idea che il lavoro sia svolto per amore serve a nascondere il fatto che i lavoratori hanno dei bisogni che non possono e non devono essere sussunti dalle persone per cui lavorano.
Se “lo fai per amore”, il conflitto non trova spazio. Gli assistenti personali, le babysitter, gli assistenti agli anziani, sono percepiti come una parte della famiglia e una sua estensione. Questo contribuisce alla loro invisibilità, oltre che alla cancellazione delle loro rivendicazioni. “Per svolgere questo lavoro che si dice sia un lavoro d’amore, per la migliore soddisfazione dei loro clienti, gli assistenti devono accettare, ad un certo livello, l’invisibilità”, scrive Jaffe.
Il lavoro domestico, anche quando svolto per un salario, è sempre considerato un’estensione di una presunta natura femminile votata alla cura degli altri. L’amore, il desiderio di cura e le emozioni umane sostengono e innervano un sistema che continua a riprodurre se stesso: nel caso del lavoro domestico, l’amore è il cuore della riproduzione della forza lavoro. Dalla casa, questo processo si espande verso altri contesti: la dedizione emotiva al proprio lavoro diventa un fattore di ri/produzione centrale nel sistema capitalista. Nel terziario avanzato a un serie di professioni sono richieste competenze relazionali tradizionalmente associate al lavoro di cura. Una commessa, una operatrice di call center, un’infermiera, devono portare al servizio dei clienti un bel sorriso, pazienza infinita, empatia e comprensione. Cosa sono le “capacità relazionali” se non la volontà di investire nel lavoro salariato il proprio capitale emotivo cancellando ogni spinta al conflitto?
“Si offre visibilità”: l’economia della promessa
Quella richiesta dalla cura non è l’unica forma di amore che il sistema sfrutta per riprodursi. La società individualizzante in cui viviamo ci chiede di investire in noi stessi, come se fossimo una merce o un servizio. E per definizione, l’investimento non ripaga immediatamente. Ecco dunque il fiorire di stage non pagati o esperienze entry level con salari da fame. Continuare a migliorarci per essere sempre competitivi ha un costo, e questo costo ricade sempre sul singolo.
“Quello che definisce uno stagista, alla fine, è la speranza”, si legge nel settimo capitolo di Work Won’t Love You Back. “I ricercatori in Scienze della Comunicazione Kathleen Kuhen e Thomas Corrigan hanno coniato il termine hope labor che definisce un ‘lavoro non retribuito o sottoretribuito svolto nel presente, spesso in cambio di esperienza o visibilità, con la speranza di opportunità di impiego che potranno seguire.’ L’ hope labor è un cane che si morde la coda, e lo stagista è il lavoratore di speranza per eccellenza. Lavorando gratis con l’idea di ottenere un giorno un posto di lavoro che valga la pena amare, lo stagista è il veicolo tramite il quale le condizioni di contingenza e subordinazione che sono comuni ai lavori sottopagati nel settore dei servizi entrano di soppiatto in un numero sempre crescente di settori professionali.”
Cosa ci ha reso disposti ad accettare questi “investimenti” in noi stessi senza fiatare? In parte sicuramente l’assenza di alternative, per una generazione che è nata sotto il segno del precariato. Ma anche il desiderio di fare qualcosa per il mondo, qualcosa di significativo, o l’idea che un giorno saremo ripagati con un salario. La speranza diventa anch’essa un fattore di riproduzione del sistema. Marco Bascetta, in “L’epoca della dis-retribuzione”, in Salari rubati (2017) definisce questo meccanismo “economia politica della promessa”: promessa di una professione che riempia di significato le nostre giornate e di una stabilità economica a lungo termine.
Jaffe porta l’esempio dei lavoratori nelle ONG, degli artisti, dei programmatori del settore tech. Tutte queste persone hanno in comune il fatto di vedere nel proprio lavoro qualcosa in più di una semplice mansione da eseguire per sopravvivere. Proprio come le baby sitter, o le tate, o le badanti, praticano una forma di lavoro d’amore.
Cose che tua madre non fa più: il mondo del tech
Il mondo del tech è un esempio molto chiaro di quanto l’amore e la dedizione siano funzionali alla sopravvivenza di un intero comparto produttivo. “Innamorati del problema” è uno slogan tipico dell’ambiente start-up. Ai lavoratori si richiede passione, ma non solo: si arriva persino all’ossessione. Non si contano i profili LinkedIn, gli articoli motivazionali in cui si fa riferimento all’essere “ossessionati” dai bisogni del cliente, dai sales target, dai KPI. È un’istanza lampante di appropriazione di termini legati alle relazioni sentimentali.
“Il modo in cui parliamo di lavoro è sempre più simile a quello in cui parliamo di appuntamenti romantici” racconta Jaffe durante l’intervista. “Questo parallelo è costruito sull’aspettativa che ci sia un lavoro là fuori che ci completerà come persone. Con tutte le lotte che ci sono state per distruggere le strutture che ci costringevano a lavorare, è assurdo che decenni dopo ci troviamo a credere che queste stesse strutture possano portarci gratificazione .”
Amore per il proprio lavoro significa anche cancellazione della vita privata. Mentre le case si trasformano in uffici, nel mondo corporate gli uffici sono sempre più simili a case private. Dalla Silicon Valley, l’onda dei perks sul posto di lavoro si è diffusa un po’ ovunque. L’ufficio non è più il posto dove svolgere la propria mansione dalle nove alle cinque, così come la casa non è più il luogo dove rilassarsi o passare del tempo con se stessi o con le persone care. Negli uffici di Google si trovano palestra, piscina, salette colorate dove prendere il caffè, angoli pisolini, tavoli da ping pong, ristoranti di ogni tipo, saune. In fondo chi ha bisogno di una vita fuori da lì?
Si legge nel nono capitolo del libro di Jaffe: Nessuna famiglia, nessun amico e nessuna responsabilità al di fuori dell’ufficio; all’interno dell’ufficio, tutti i bisogni sono soddisfatti (…). Non c’è da meravigliarsi che tutte le app progettate da questi uomini-bambini (i guru del tech della Silicon Vallery,
ndr) siano state soprannominate collettivamente “L’Internet delle cose che tua madre non farà più.”
Gli eterni bambinoni della Silicon Valley che progettano applicazioni per farsi fare il bucato da sconosciuti senza un reddito fisso non tessono relazioni fuori dall’ufficio. Il lavoro è il concentrato della loro vita emozionale, sociale e relazionale.
We strike because we care: il futuro della lotta
Uno dei capitoli centrali del libro è intitolato We strike because we care (traducibile con “Scioperiamo perché ci interessa/per prenderci cura”) e racconta dello sciopero degli insegnanti a Los Angeles nel 2019, organizzato per rivendicare migliori condizioni di lavoro e classi più piccole, e per opporsi ai tagli di budget alle scuole pubbliche. Gli insegnanti hanno rovesciato l’equazione per cui scioperare sarebbe contro l’interesse degli utenti dei loro servizi: sono scesi in piazza per i loro studenti, per la qualità della didattica, per la scuola pubblica. Hanno scioperato come forma di cura.
Il risultato della pervasività del labor of love è una società dove al lavoro sono riconosciute una serie di funzioni sociali, di realizzazione personale, persino di amore e adorazione. Desideriamo un lavoro che amiamo. Desideriamo fare felici i nostri clienti. Desideriamo prenderci cura della nostra famiglia. Proprio come accadeva con le casalinghe del periodo fordista che “lo facevano per amore”, sono i nostri desideri a dare linfa a un sistema che si nutre della nostra dedizione, dei nostri straordinari, dei nostri stage non pagati e della nostra speranza. Come si esce dall’impasse?
Secondo Jaffe, il cuore della soluzione sta nel liberare il potenziale emotivo e relazionale degli esseri umani dal lavoro salariato, anche attraverso gli strumenti dello sciopero e dell’organizzazione sindacale. Mettere al centro le relazioni di comunità, come nel caso degli insegnanti di Los Angeles, significa anche reclamare migliori condizioni di lavoro.
Lungi dal desiderare di tornare indietro al sistema fordista, la nuova lotta di classe può usare proprio quello stesso amore per liberarsi dalla pastoia del profitto. Le persone hanno voglia di aggregarsi, di credere in qualcosa, di mettere le loro emozioni e il loro sé a servizio di una comunità o di un’idea. Se incanalate in un sistema rigido, queste emozioni fungono da carburante per mantenere gli individui docili, sorridenti, ma perennemente sfruttati e frustrati. Ma l’energia emotiva si può liberare in qualcosa di diverso. Questo va di pari passo con la necessità di organizzazione e con la centralità di tecniche di lotta tradizionale come lo sciopero. La lotta di classe è più viva che mai e può passare attraverso la rivendicazione del proprio tempo, della propria passione e sì, anche del proprio amore. Possiamo utilizzare l’eccitazione e l’imprevedibilità che promette il neoliberismo, mettendole però solo al servizio del lavoro, per immaginare un mondo al di fuori del lavoro salariato e fuori dal controllo del capitale.
Chiosa Jaffe nella conclusione del saggio: Lo sciopero stesso è un mezzo per reclamare il tempo dal lavoro, un modo per dimostrare l’importanza dei lavoratori fermando il normale ritmo della produzione, ma anche un modo per rivendicare il proprio tempo e la propria capacità creativa. (…) Liberare l’amore dal lavoro è allora la chiave per ricostruire il mondo. Le persone stanno già reclamando spazi per sperimentare cosa significhi amarsi tra loro senza le richieste del modello di lavoro capitalista. (…) La beffa più grande che (il capitale) è riuscito a farci è stato convincerci che il lavoro sia il nostro più grande amore.