D a qualche anno, un piccolo gruppo di aziende in giro per il mondo ha cominciato a testare l’ipotesi secondo cui sarebbe possibile permettere ai propri dipendenti di lavorare un giorno in meno alla settimana – quattro giorni, invece di cinque – mantenendo la stessa retribuzione, ottenendo risultati altrettanto buoni in termini di produttività. È un sistema che sarebbe difficile allargare a tutti i tipi di lavoro, dato che è pensato soprattutto per chi può permettersi di lavorare per obiettivi, e non per chi svolge un servizio che è necessario mettere a disposizione per un dato numero di ore, come infermieri o commessi. Ma quasi tutte le aziende che hanno provato a farlo si sono dette molto soddisfatte: le loro entrate economiche sono rimaste sostanzialmente invariate; i dipendenti si sono detti tendenzialmente meno stressati, ansiosi e stanchi e hanno cominciato a chiedere molti meno permessi per assentarsi dal lavoro.
Gli esperimenti sulla “settimana corta” si inseriscono in una discussione immensamente più ampia, agitata, confusa, contraddittoria, a tratti assurda: quella del rapporto tra gli esseri umani e il tempo a loro disposizione. È un discorso che, se ci si ferma a pensarci, emerge nelle nostre conversazioni quotidiane con la stessa frequenza delle lamentele sul mercato immobiliare nei discorsi tra trentenni. “Il tempo è denaro”, l’equilibrio apparentemente irraggiungibile tra ore dedicate al lavoro e al resto della propria vita, gli appuntamenti da prendere con settimane d’anticipo per essere sicuri di essere tutti liberi. Ma anche l’orologio dell’apocalisse che si avvicina alla mezzanotte, i fiori che sbocciano nella stagione sbagliata, gli avvisi degli scienziati sul fatto che abbiamo davvero poco tempo per evitare che il pianeta diventi per noi inabitabile, i discorsi speranzosi sulla possibilità di ridistribuire il valore prodotto dalle tecnologie che altrimenti “ci ruberebbero il lavoro” per permettere a tutti di lavorare meno e vivere dignitosamente.
Parlare di tempo, insomma, è parlare di tutto: vita e morte, lavoro, famiglia, interessi personali, affetti e comunità, religione e capitalismo e ideologia, i ritmi e i cicli della natura e tutti i modi in cui ci siamo allontanati da loro. Approcciarvisi, per un intellettuale che abbia l’ambizione di tenere tutto questo insieme, può sembrare uno sforzo disumano. Ma Jenny Odell l’ha fatto comunque.
Odell ha trentotto anni, è un’artista e autrice di fama internazionale, è nata in California e ci vive ancora. Parlo con lei a distanza di migliaia di chilometri, in videochiamata, da una stanzetta a Milano. Mi dice che quasi tutte le cose che ha mai creato hanno lo stesso scopo: “voglio che le persone escano [dalla lettura di un suo libro, o dalla visita a una sua mostra] guardando alla loro vita di tutti i giorni in modo diverso”. Il suo primo libro, How to Do Nothing: Resisting the Attention Economy, applicava questa speranza al nostro rapporto con la noia (e al nostro soffocarla incessantemente con gli stimoli forniti dai social network), e ha ottenuto un successo inaspettato. Il secondo – Saving Time: Discovering a Life Beyond the Clock, uscito in Italia con il titolo Salvare il tempo: Alla scoperta di una vita oltre l’orologio per NR Edizioni – lo fa, appunto, con il tempo. Da tutte le angolazioni che le vengono in mente.
Gli esperimenti sulla “settimana corta” si inseriscono in una discussione immensamente più ampia: quella del rapporto tra gli esseri umani e il tempo a loro disposizione.
Spesso quando si scrive, soprattutto come giornalisti o saggisti, è necessario trovare un “taglio” attraverso cui guardare a un tema: è un esercizio che serve ad anticipare ciò che riuscirà a mantenere l’attenzione del lettore, certo, ma è anche un approccio fondamentale per evitare di perdersi nell’immensità di cose che si potrebbero dire su una singola questione. La scrittura di Odell è speciale, ma anche straniante, perché sembra evitare consapevolmente la ricerca di questo taglio. La sua esplorazione del tempo balza di collegamento logico in collegamento logico, chiedendo sostanzialmente al lettore di considerare l’argomento da un’infinità di punti di vista possibili, ma anche lasciandogli la libertà di scegliere quali di questi punti di vista lo affascina di più, quale continuerà a tornargli in mente.
La cosa più vicina a un “taglio” che emerge ancora e ancora nel corso del libro è presentata però già nell’introduzione, quando Odell scrive che “una persona che oggi si trova in difficoltà nel conciliare la mancanza di tempo [nella propria vita quotidiana] e l’angoscia per il clima sta affrontando in entrambi i casi l’esito di un punto di vista sul mondo ben specifico”: quello imposto dal colonialismo europeo e dal modello di produzione capitalista, che hanno portato a vedere il tempo come “‘roba’ intercambiabile che può essere accumulata, scambiata e spostata”. A partire da questo presupposto, “le origini dell’orologio, del calendario o dei fogli elettronici sono inscindibili dalla storia dell’estrazione, sia essa di risorse dalla terra che di tempo lavorativo delle persone”.
“Una cosa che volevo fare era prendere qualcuno che ha sempre pensato al tempo come a un’unità di misura scandita dall’orologio e portarlo a guardarsi attorno, mostrandogli che ci sono tanti altri modi di farlo”, spiega. “Ma provo sempre a scrivere in un modo che non dica direttamente alle persone cosa fare: voglio solo aprire una porta, sperando che qualcuno la attraversi”. Lo fa, in primo luogo, ricordando che misurare il tempo in base all’orario indicato dagli orologi è tutt’altro che naturale, ed è anzi uno sviluppo piuttosto moderno, necessario per organizzare i lavoratori e misurarne la produttività, spesso a scapito dei cicli naturali a cui i corpi umani sono sottostati per milioni di anni e da cui ora siamo in gran parte avulsi.
Bollarlo come un libro che parla di capitalismo, di colonialismo, di modernità sarebbe un po’ un errore. Salvare il tempo è, più che qualsiasi altra cosa, il risultato di un esercizio di complessità e contestualizzazione a cui Odell si sta votando da anni. “Ricordo [che mentre scrivevo il libro] ho pensato: perché non ho scritto un libro, ad esempio, sul ping-pong? Ma poi ho pensato che se avessi scritto un libro sul ping pong sarei comunque riuscita in qualche modo ad affrontare le domande più pressanti della contemporaneità attraverso la lente del ping pong”, ha detto a Vanity Fair. “In qualche modo troverei comunque un modo per rendere le cose davvero complicate”.
Salvare il tempo è il risultato di un esercizio di complessità e contestualizzazione a cui Odell si sta votando da anni.
Chi conosce la più ampia opera di Odell come artista, al di là della sola scrittura, può forse riconoscere più facilmente questa sua tendenza. La sua opera “The Bureau of Suspended Objects”, risalente al 2015, è per esempio un archivio dettagliato di oggetti selezionati, recuperati dalla discarica di San Francisco ed esposti dopo essere stati analizzati da Odell da tutti i punti di vista che le sono venuti in mente: così, a fianco di ogni oggetto selezionato per l’esposizione si trova una lunga descrizione che ne racconta il processo di produzione, la distribuzione, il suo utilizzo e la sua popolarità nella cultura statunitense. Lo scopo era quello di attirare l’attenzione sul lungo processo di produzione e diffusione che sta dietro oggetti di uso comune sui quali raramente ci si ferma a riflettere. Nell’opera del 2017 “There’s no such thing as a free watch” ha fatto più o meno la stessa cosa partendo però da una pubblicità su Instagram che prometteva di inviare un orologio gratis a chiunque avesse voluto spendere 7 euro di spese di spedizione: da lì è partita un’esplorazione che l’ha portata a riflettere, tra le altre cose, sulla pratica del dropshipping e sulla particolare difficoltà nel capire cosa è reale e cosa non lo è, tra tutti i contenuti in cui ci si imbatte online quotidianamente.
Il rapporto complesso con internet – vissuto al contempo come uno spazio dove non si può non passare del tempo se si vuole continuare a lavorare e interagire col prossimo nella società contemporanea e come un buco nero di tempo, energia e attenzioni – già lungamente sviscerato in How to do nothing, è comunque piuttosto presente anche in Salvare il tempo. Un pezzetto del libro è dedicato, per esempio, ai “productivity bros”, il genere di influencer del tutto avulsi dalla realtà materiale delle persone che quotidianamente si connettono a internet per condividere consigli che partono sempre da un assunto: “abbiamo tutti le stesse 24 ore nella giornata”. Da un punto di vista puramente obiettivo non hanno torto: da secoli si è imposta la convenzione in base a cui le giornate vengono suddivise in 24 ore, o alternativa 12 ore e 12 ore, e chiunque viva in una società non può che seguirla. Concretamente, però, le 24 ore di una persona senza figli o partner e abbastanza ricca di famiglia da lavorare più per vezzo che per necessità sono molto diverse da quelle delle persone che hanno una famiglia di cui prendersi cura, le lavatrici da fare, il proverbiale pane da portare a casa.
Anche in casi come questo, sarebbe molto facile liquidare i productivity bros sottolineando semplicemente quanto siano slegati dalla realtà e quanto sia assurdo che continuino a produrre contenuti simili, dato che nelle sezioni commenti dei loro video si trovano spesso decine di persone che cercano di ricordare loro che nella vita non esiste solo il lavoro o il miglioramento individuale. Ma Odell ne parla con una rara empatia, sottolineando quanto semplice sia farsi trascinare da questo genere di retorica crescendo nei paesi occidentali oggi, e come sia difficile per molti anche solo pensare di riorganizzare la propria vita in modo da dare al lavoro un’importanza minore, liberando il proprio tempo per altre cose che rendono la vita meritevole di essere vissuta.
Odell si dice “ossessionata dalla volontà di capire quanto una persona prenda una decisione per motivi personali e quanto invece lo faccia perché è inserita in un determinato contesto socioculturale”, e i productivity bros – o le persone che seguono i loro consigli pensando che sia necessario organizzare la propria vita come se fosse un’azienda, o un gioco di massimizzazione delle risorse – non fanno eccezione. “In paesi come gli Stati Uniti l’idea che la vita sia un gioco a somma zero, una specie di competizione spietata in cui devi organizzare il tuo tempo in modo da ottenere il massimo da ogni minuto, è diffusissima”, mi spiega. “E capisco che ci sono tante persone per cui il lavoro è la principale fonte di significato nella vita: è quello a cui siamo stati tutti abituati. Avere uno scopo nella vita è come mangiare o dormire, è un bisogno umano basilare di cui le persone non possono fare a meno. Ma capita che le persone non si rendano conto che le stesse cose che a loro avviso danno uno scopo alla loro vita le stanno danneggiando. Se dici loro che potrebbero provare a vivere in modo diverso, che esistono alternative più sostenibili sul lungo periodo, è come se stessi portando via loro qualcosa di cui hanno bisogno per sopravvivere”.
Odell si dice “ossessionata dalla volontà di capire quanto una persona prenda una decisione per motivi personali e quanto invece lo faccia perché è inserita in un determinato contesto socioculturale”.
Come era già stato con How to do nothing, il fatto che Odell – che dopotutto è nata a Cupertino, oggi meglio nota come la città dove ha la propria sede Apple, in piena Silicon Valley – mostri spesso di essere stata a lungo immersa negli spazi digitali le permette di parlare dei limiti di internet in modo molto più credibile di molti altri autori più vecchi interessati agli stessi temi. Forse per le stesse ragioni, riesce a fare discorsi che normalmente sarebbe facile accantonare come “fricchettoni” senza perdere l’attenzione di persone che non sentono di avere nulla in comune con la filosofia hippy: come scriveva Jia Tolentino in una recensione di How to do nothing sul New Yorker, Odell “riesce a farti provare una speranza che non sentivi da molto tempo”. E riesce a mettere a fuoco con estrema empatia alcune ragioni per cui, nonostante siamo in possesso di tutte le informazioni necessarie a renderci conto di dover agire subito per rallentare la crisi climatica, finiamo invece per abitare uno spazio attendista, in bilico tra la passività e l’attività.
Fa tutto questo senza proporre soluzioni legislative: spera di indicare delle possibili soluzioni individuali che possano però diventare collettive, se adottate da un numero sufficiente di persone. Tuttavia “ci sono ovviamente delle politiche semplici che potrebbero essere adottate per migliorare immediatamente il nostro rapporto con il tempo”, mi dice. “Negli Stati Uniti i giorni di vacanza che ti vengono concessi dai datori di lavoro sono pochissimi, e anche col congedo parentale retribuito siamo messi piuttosto male. E anche rafforzare il sistema di welfare sarebbe utilissimo perché vorrebbe dire che le singole persone dovrebbero assumersi personalmente meno rischi, e potrebbero permettersi di distribuire il proprio tempo in modo diverso”. Quello che vorrebbe che il suo libro facesse, però, è quello che i libri sanno fare meglio: “Creare collegamenti tra [varie persone e comunità] che in passato hanno già esplorato questo sentimento, questo desiderio di avere una vita colma di significato, oltre che un senso di autonomia. Voglio aiutare a propagare questo messaggio in modo che le persone che oggi pensano a queste cose non si sentano sole. Che sappiano di non essere sole nel presente, e di non essere stati soli nella storia dell’umanità”.