C ontinuano, dopo quelle con Marco D’Eramo e Alfonso Desiderio, le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a inquadrare la guerra in corso, grazie a uno sguardo ampio e approfondito, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire la complessità di quanto sta accadendo. Per cercare di capire meglio un Paese troppo spesso raccontato dietro al filtro di approssimazioni e pregiudizi come la Russia degli ultimi venti anni, siamo approdati a Maria Chiara Franceschelli, dottoranda in Scienza politica e sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che studia i movimenti sociali e società civile nello spazio post-sovietico. Franceschelli fa a parte della redazione de Gli Asini e delle Edizioni dell’Asino e collabora con diverse testate, riviste e istituti di ricerca.
Maria Chiara Franceschelli: Io mi occupo di sociologia politica e quindi, nell’ambito della guerra in Ucraina, non mi concentro sulle dinamiche di conflitto fra stati-nazione, anche perché nel caso specifico di questi due Paesi la questione della sovranità non è così semplice. Mi interessa di più come si intersecano politica interna e politica estera nel contesto di queste dinamiche, guardare come le società si affacciano a queste dinamiche, e come sono influenzate a loro volta.
Stella Succi: Ti chiedo di aiutarci a fare una fotografia della società russa in questo momento e in particolare a farci un’idea delle percentuali di popolazione, anche per fasce di reddito, per classe sociale. Quando parliamo di società, di classe media russa o di oligarchi, di che percentuali di popolazione stiamo parlando? E questa composizione sociale come si riflette nel consenso o nel dissenso per Putin in Russia?
MCF: Partiamo da un presupposto: la società russa è una società enormemente frammentata in tutti i sensi. Partiamo anzi dalle cose ancora più triviali: la Russia è il paese più grande del mondo, quindi oltre alle classiche differenze che abbiamo più o meno dappertutto fra centri urbani e zone rurali, ci sono anche molte differenze legate al tipo di territorio: non solo per la sua conformazione ma anche dal punto di vista dei principali settori produttivi, che comunque vanno a influenzare la qualità della vita, il reddito e in un certo senso anche i retroscena culturali delle popolazioni. Ci sono poi le storie locali delle varie regioni, il dominio mongolo e imperiale, il rapporto fra popolazioni indigene e popolazioni trapiantate in epoca imperiale o zarista… Detto questo, di solito quando noi parliamo di società russa, ne parliamo in due modi. O ci riferiamo a Mosca, San Pietroburgo, quindi le grandi città – di solito tagliando fuori le terze, quarte, quinte grandi città, che sono tutte grandi città che si trovano in Siberia o nel Caucaso: Novosibirsk , Ekaterinburg, Samara… che comunque sono centri culturali ed economici molto importanti –, oppure parliamo della Russia che guardiamo in chiave orientalista, la “Siberia” non in senso prettamente geografico, che raccontiamo come terre sconfinate dove spesso non arriva neanche la corrente elettrica – cosa che, ovviamente, non è vera… Abbiamo una percezione della Russia slegata dalla realtà ed estremamente stereotipata.
La frammentazione della società russa riguarda anche, ovviamente, il grande divario socio-economico. A seconda dei diversi indici di riferimento, in Russia si stima che ci siano dai 14 ai 20 milioni di persone sotto la soglia della povertà, su un paese di 140 milioni di abitanti. C’è poi la questione degli oligarchi, di cui definire e circoscrivere il patrimonio è estremamente difficile (si parla di guesstimates). Nel 2017, alcuni economisti specializzati nelle disuguaglianze socioeconomiche, fra cui Thomas Piketty, hanno pubblicato (per il National Economic Research Bureau statunitense) uno studio secondo cui il patrimonio offshore degli oligarchi russi ammonta a circa 800 miliardi di dollari. Significa che una quindicina di persone tiene al sicuro nei paradisi fiscali un patrimonio superiore a quanto l’intera popolazione russa non detenga in patria.
In ogni caso, è estremamente difficile rintracciare l’effettiva disponibilità dei grandi oligarchi russi. Dipende non solo dalla fumosità attorno alla gestione dei patrimoni, ma anche dai criteri prescelti. Comunque, oltre alla cosiddetta Moscow on Thames, che è il gruppo di oligarchi trasferitisi a Londra negli ultimi vent’anni, insieme ai loro patrimoni, è fondamentale comprendere che c’è un filo che intreccia saldamente l’élite economica russa alle istituzioni politiche del Paese, nonostante formalmente gli oligarchi non occupino, adesso, cariche istituzionali. Per sviscerare le fibre di questo filo però servono ricerche e indagini lunghe, difficili, dettagliate e a volte pericolose. Possiamo dire però con certezza che in Russia ci sono persone che detengono un patrimonio smisurato, che controllano il settore bancario ed energetico. Quest’ultimo, ricordiamo, è il principale motore dell’economia russa, basata sull’estrazione e sull’esportazione di risorse naturali.
Francesco Pacifico: Ma era una battuta “ricerche lunghe e pericolose”?
MCF: No. Le ricerche in contesti autoritari sono da fare con consapevolezza, metodo e prudenza. Ovviamente dipende dalla ricerca in questione, l’economista dell’Atlantic Council che pubblica uno studio sul patrimonio offshore degli oligarchi russi e il giornalista russo che coordina un’inchiesta in loco sull’inquinamento delle acque territoriali da parte di Noril’sk Nickel dovranno affrontare rischi molto diversi. È vero che i giornalisti caduti vittime del regime andavano sulle tracce del potere politico, non degli asset economici, ma abbiamo già detto quanto queste cose si intersechino. Oltre alle riforme di un sistema già superpresidenziale in senso ancora più verticale, una delle cose che hanno assicurato a Putin la stabilità del suo potere è stato l’accentramento degli oligarchi attorno a sé dopo il caos della privatizzazione degli anni Novanta, eliminando le voci di dissenso.
FP. Cioè lui ha controllato un’operazione di privatizzazione in modo che finisse a una nuova classe dirigente gestita da lui.
MCF: Non esattamente. La grande privatizzazione è stata portata avanti negli anni Novanta con il programma loan for shares, che ha concentrato gli asset statali in mano a pochi privati e ha esacerbato la crisi socioeconomica della Russia dopo il crollo dell’URSS. Quando Putin è salito al potere, nel 2000, non ha fatto un’operazione di esproprio o sostituzione in senso apertamente istituzionale, ma l’ha fatta tramite la creazione progressiva di un sistema piramidale e clientelare attraverso organi paragovernativi e sottotrame personali, e allontanando gli oligarchi portavoci di dissenso, come Mikhail Khodorkovskij.
Elisa Cuter: Ti volevo chiedere una cosa a proposito di questo rapporto diciamo tra potere ed economia, o in generale tra politica ed economia. Nella conversazione che abbiamo fatto con Alfonso Desiderio lui diceva che in Occidente ci siamo dimenticati che esiste anche la politica e ci siamo concentrati principalmente sull’economia: un modo per dire, se ho capito bene, che abbiamo dato per scontato che in ogni sistema, di fatto, è sufficiente ricercare gli interessi economici per spiegare le decisioni politiche. Ho sempre pensato che questo metodo che potremmo definire materialista era assolutamente efficace, e però oggi di fronte alle decisioni anche antieconomiche, quasi masochistiche di Putin sul piano strettamente economico, viene da chiedersi ad esempio quanto lui stesso creda nella sua ideologia e quanto peso abbia questo rispetto al semplice interesse economico. Secondo te l’approccio materialista resta valido o è una semplificazione, applicabile solo in contesti totalmente liberal-capitalistici e che non ci permette di comprenderne altri?
MCF: La fallacia è scindere la politica dall’economia in senso assoluto. Chiaramente si tratta di discipline e prospettive diverse, ma se si vuole fare un’analisi olistica è necessario guardare l’economia come parte della politica e la politica come parte dell’economia. Un esempio banale di cui però secondo me si è parlato molto poco in queste settimane riguarda le famose responsabilità dell’Occidente. Tendiamo a parlarne in termini ideologici (con un discorso fuorviante sui percorsi di “democratizzazione”) o geopolitici (con l’espansionismo verso est della NATO), e dimentichiamo lo snodo cruciale, ossia il ruolo dell’attore egemone statunitense, così come delle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in primis) nella disastrosa transizione economico-politica della Russia. L’Occidente ha supportato attivamente la privatizzazione sfrenata degli anni Novanta senza incoraggiare un processo di state building istituzionale, principalmente per due motivi: il primo è la fiducia cieca dell’ideologia neoliberale di quegli anni nel fatto che alla privatizzazione seguisse automaticamente la democratizzazione. Il secondo è che le persone che erano consapevoli del caos politico che ne sarebbe in realtà conseguito erano le stesse che volevano una Russia debole e inerme. Ma la failed transition russa è tra le cause principali dell’attuale natura del regime di Putin. Detto ciò, è totalmente sbagliato dire che Putin è al potere per colpa dell’Occidente. È invece giusto ricordarsi che quando si parla di concause si parla anche di questo: relazioni fra economia e politica, e relazioni fra attori diversi nello scenario globale.
Matteo De Giuli: Torniamo alla composizione della popolazione russa. Come raccontavi anche tu, Putin ha tirato fuori dallo stallo economico il Paese dopo il disastro post-sovietico di Él’cin, ha gestito in qualche maniera gli oligarchi che Él’cin non seppe gestire, ha gestito le privatizzazioni, sempre a modo suo, da spia e da gangster – per citare Marco D’Eramo – e al tempo stesso ha permesso che un’ampia fetta di popolazione avesse delle pensioni migliori, dei salari migliori… E la sensazione che si ha è che a livello di consenso questo gli abbia assicurato l’enorme popolarità di cui ha goduto in questi anni (anche se è vero che un regime autoritario come la Russia non si regge sul consenso popolare, almeno non direttamente). Ma adesso, dopo venti anni, sembra quasi che il ricordo della povertà o degli anni bui del dopo URSS non abbiano più un peso, almeno non nelle nuove generazioni che sono già nate nell’era putiniana, e che per questo il consenso per Putin possa iniziare a traballare, perché la gente inizia a volere altro: diritti, libertà. Mi chiedo se le cose stiano davvero così, però, o se magari è un’illusione che dipingiamo noi dall’Occidente.
MCF: Il problema è che sono sentimenti difficili da quantificare e misurare. Concretamente si può partire dal fatto che gran parte del consenso di Putin si è tradizionalmente basato sul confronto con l’esperienza precedente, traumatica. La gente non fa più la fila per il pane da quando c’è lui (però qualche giorno fa c’erano le file per lo zucchero in alcuni supermercati, quindi vedremo…). Questo diventa interessante quando cominciano ad avere 20-25 anni persone che non hanno memoria di come si stava prima, e che non associano a Putin un ritorno ad una stabilità mai provata o un nuovo benessere. Qua però ci sono molte altre variabili che a me personalmente impediscono di dire “sì, c’è un cambio generazionale”: la propaganda, che non significa solo il telegiornale che nasconde le notizie, ma parte da molto prima, tra programmi scolastici, leva obbligatoria, ruolo della Chiesa e delle ONG statali, insomma una cosa assolutamente pervasiva che propone un modello di società molto difficile da scardinare. Se guardi la cosa da una prospettiva strutturalista, per cui le persone sono condizionate dall’ambiente circostante, in effetti ora le persone che hanno maggiori possibilità di entrare in contatto con altri modelli, però. Il problema è che tutte queste variabili sono in contraddizione tra di loro, da un lato ci sono i social network, gli scambi universitari, le scienze sociali, dall’altro sono a volte proprio le stesse università, ad esempio, a promulgare la narrazione statale. Quindi, per tornare alla prospettiva materialista a cui si rifaceva Elisa, forse una nuova spinta verrà proprio dalla crisi socioeconomica che travolgerà la Russia, e che colpirà persone che non hanno memoria di tempi peggiori.
Nicolò Porcelluzzi: Mi aggancio al discorso generazionale. In realtà l’ultima cosa che hai detto forse risponde già a metà alla mia domanda: questi ventenni che sono cresciuti nei tempi di Putin sono gli stessi che non hanno potuto vedere in prima persona quella spinta – anche amplificata dai media occidentali – di desiderio verso il consumo di beni occidentali, parlo del panino, del jeans, eccetera. Penso a uno degli ultimi discorsi di Putin, quello sulle ville in Costa Azzurra, gli stili di vita: “è questo il mondo che vogliamo? Noi abbiamo altri valori”. Ma quale può essere il futuro di una Russia sbilanciata verso est? Esiste, questa Russia? È la Russia più anziana?
MCF: Se si intende “spostamento a Est” non come verso la Cina ma come ripiegamento entro la Russia non europea, si tratta di un processo avviato da Putin stesso, che ha dovuto costruire una nuova identità russa dalle macerie del crollo dell’URSS. Ciò è stato fatto tramite cherrypicking di elementi culturali e storici di varie epoche e ideologie, a volte in contraddizione fra loro. Il risultato è un pot-pourri di conservatorismo che va dal panslavismo di Danilevskij alla complementarietà fra Stato e Chiesa di cui parlava Uvarov. Una costante di cui la Russia non riesce a liberarsi, però, è la costruzione di un’”identità negativa”, ossia un’identità basata sulla negazione di ciò che è altro da sé. Vyacheslav Morozov, professore dell’Università di Tartu, ha scritto un libro molto bello sull’identità “postcoloniale” della Russia come conseguenza dell’opera di autocolonizzazione che la Russia ha fatto su di sé, al posto dell’Occidente. Il paradosso che ne risulta è che l’identità della Russia è essenzialmente eurocentrica, non offre un modello alternativo e parallelo all’Occidente, ma parte da esso per negarlo. Putin sta marciando molto, comunque, sul senso di rivalsa dopo l’umiliazione degli scorsi decenni, e sull’orgoglio nazionale. Quindi sì, c’è questa spinta verso Est. Il problema è che questo Est artificioso putiniano è un Est che parte dalla negazione dell’Ovest.
NP: Infatti si parla pochissimo di questa contraddizione genetica dell’anima russa. Lo stesso Putin è di Pietroburgo, che è una città inventata per andare a Ovest, quindi è una narrazione che non riesce a reggere alla realtà che lui stesso sta sviluppando: ha vissuto in Europa. I russi sanno chi era Pietro il grande, come noi possiamo sapere chi era Garibaldi. Quindi la natura della mia domanda, il dubbio della mia domanda sta lì: non vedo come questa narrazione possa reggere, alla lunga.
MCF. Il problema è sempre cosa vogliamo ottenere. Questa costruzione anche identitaria è finalizzata ad un consenso politico che si basa su nazionalismo e revanscismo. Se guardiamo invece al porre una fine al caos identitario, anch’io sono dubbiosa. Ma questo è un discorso più ampio. La storia russa è una storia imperiale dai confini estremamente mobili, che ha coinvolto popoli diversi con storie diverse, e che nasce da un caleidoscopio di contaminazioni. In un certo senso, è un miracolo che in tutta la Russia si parli la stessa lingua, e qui si vede anche la potenza che ebbe il processo di sovietizzazione.
SS: Per avvicinarci un po’ al contesto della guerra, ti chiedo: come si è modificata l’opinione pubblica dopo l’annessione della Crimea, quindi negli ultimi otto anni?
MCF: L’annessione della Crimea ha avuto la funzione cruciale di riportare un consenso interno perso all’irrigidimento del regime nel periodo 2012-2013, al ritorno al potere di Putin dopo la parentesi Medvedev, e all’inizio del periodo di stagnazione economica. La Crimea ha un significato storico e culturale e un potere evocativo enormi, basti pensare alla guerra di Crimea. Dal 2014 in poi si parla proprio di “Crimean consensus”.
SS: Possiamo aspettarci un effetto simile, in termini di consenso interno, anche come riflesso di un’eventuale indipendenza del Donbass?
MCF: Nì. Il Donbass non è la Crimea, per mille motivi, e questo giochino non lo puoi ripetere all’infinito. Inoltre, la Crimea è stata relativamente rapida e indolore (per quanto rapida e indolore possano essere un’invasione e un’annessione). In Donbass c’è la guerra da 8 anni, che per quanto “a bassa intensità” aveva già fatto decine di migliaia di morti prima del bagno di sangue di queste settimane.
MDG: Resto ancora un po’ sul consenso e il dissenso interni. Anche se farlo da questa distanza è sempre pericoloso, perché da qui si rischia di avere lo sguardo eurocentrico dei salvatori. Però, se guardiamo alle opposizioni al regime di Putin, è sconfortante pensare che l’unica vera alternativa che non sia l’opposizione di Stato, l’opposizione fantocccio di molti partiti minori, beh sia stata in questi anni l’opposizione un po’ eretica di Navalny. Perché più che un vero oppositore Navalny sembra spesso solo un altro Putin, tutt’al più un Putin un po’ più occidentale, con un migliore rapporto con l’Europa e gli USA. È anche difficile dire davvero quale sia la sua visione del mondo, perché è capace di grandi trasformismi e illusioni ottiche, ma sappiamo che di sicuro viene da un ambiente nazionalista, filo imperialista, antisemita, omofobo, anche se lui poi si è detto a favore dei matrimoni omosessuali e ha smussato con il tempo molte delle sue posizioni più controverse. La domanda è questa: c’è un tipo di dissenso, nella società civile russa, che non si riduca alla lotta per il potere che è riuscito a creare Navalny? Oppure il dissenso radicale, diciamo così, è destinato a essere parcellizzato, isolato in micro-organizzazioni, università e circoli intellettuali? Ci sono tentativi o speranze di creare qualcosa di più coeso?
MFC: Riassumendo, la risposta è fondamentalmente no. È il grande problema per cui ci troviamo a questo punto. In questo momento le capacità di mobilitazione e di creare un fronte di opposizione coeso da parte della società civile russa sono pari a zero. Questo non perché, come concordavano i primi studi post-sovietici, la società civile russa è “debole” e “non abituata alla democrazia”, ma perché Putin ha portato avanti un processo coerente e graduale lungo vent’anni, volto proprio ad arrivare qui. A livello legislativo, due leggi fondamentali hanno ridotto all’osso lo spazio di manovra della società civile e silenziato le voci del dissenso: la legge sulle ONG del 2006 e la legge sugli agenti stranieri del 2012. Il sistema formalmente pluripartitico è in realtà una cosiddetta “opposizione di facciata”, per cui i partiti di opposizione, pur esprimendo talvolta posizioni discordanti dalla maggioranza, contribuiscono de facto alla preservazione dello status quo. Non ci sono sindacati di dimensioni significative che possano influenzare i processi decisionali.
Allo stesso tempo, la società civile, per sfuggire alla morsa dell’oppressione istituzionale, ha sviluppato tecniche di mobilitazione cosiddette non-contentious, che evitano cioè l’aperta opposizione politica e la contestazione degli equilibri di potere, per concentrarsi su azioni locali e mirate volte a migliorare una determinata situazione in ottica prettamente pragmatica. Questi movimenti in realtà sono estremamente efficaci in tempi di pace, ma non potranno per definizione essere alla base di un regime change. Le persone più politicizzate, che tradizionalmente hanno animato il dissenso, quindi attiviste e attivisti, accademiche e quant’altro, stanno cercando rifugio all’estero. Si stima che nell’ultimo mese più di 200.000 persone abbiano lasciato il Paese. E la società civile che rimane è svuotata del suo nocciolo politicizzato… Una bella novità è la Resistenza Femminista Contro la Guerra, un fronte che ha unito i gruppi femministi russi e che agita manifestazioni locali e istituisce reti di solidarietà transnazionali attraverso un canale Telegram .
NP: Prima di andare verso la conclusione aggiungo un commento, ho la sensazione che manchi soltanto un pezzetto rispetto al discorso sull’opinione pubblica e la generazione più giovane russa, cioè: internet. Mentre prima raccontavi di cosa potrà tenere insieme l’unità nazionale pensavo chiaramente al passato, a certi simboli. C’erano dei simboli della Russia del Novecento, della Russia pre-sovietica, ma che poi sono anche sopravvissuti (integrandosi) al periodo sovietico, mi viene in mente chessò il samovar, mi vengono in mente le slitte cechoviane e un’idea di mondo che, già allora, non esisteva più. C’è stata l’industrializzazione, e se da noi è stata accompagnata da una retorica progressista – il boom economico, la Cinquecento eccetera – quando pensiamo all’industrializzazione sovietica pensiamo ai piani quinquennali e a un altro colore… Torno sul punto di prima: in quali simboli nazionali possono credere dei ragazzi di 20-25 anni, quale può essere il fascino di un passato molto generico, quello imperiale, quali sono i simboli che possono tenere insieme il paese?
MCF: Anche fra la popolazione più giovane in realtà c’è tutta una riscoperta del passato sovietico in chiave romantica ed estetica. Se con le vecchie generazioni questa cosa si fa grazie ai veterani sovietici, con i giovani questo avviene attraverso la romanticizzazione della tarda estetica sovietica. Si ricrea un passato che appartiene solo a loro, che non è legato all’Occidente, ma che al tempo stesso non possono ricordarsi, e che quindi possono estetizzare a piacimento e che possono arricchire con nuovi beni di consumo. Questo è evidente nella scena underground di Mosca e San Pietroburgo, dove comunque la contaminazione con artisti occidentali è altissima. Quanto questo sentimento identitario sia forte lo scopriremo più avanti, ma le prospettive sono drammatiche: ora la Russia è un Paese distrutto.
EC: Non c’entra molto con ciò che è stato detto fino adesso, ma mi interessa la tua opinione su questa cosa perché io ti seguo e mi piace seguirti anche per le tue analisi, diciamo, “politicamente situate”. Mi sembra che tu abbia sempre una prospettiva da cui parli e che non pensi che si possano fare analisi che prescindano da una visione del mondo. E quindi mi veniva in mente la questione del sostegno europeo alla resistenza ucraina. La domanda è cosa significa dalla tua prospettiva essere realisti: c’è chi sostiene che essere realisti vuol dire “ormai è troppo tardi, non c’è più niente da fare dobbiamo fermare Putin costi quel che costi”, anche a costo di scatenare un conflitto mondiale. Dall’altro lato c’è chi dice che essere realisti vuol dire invece essere contro l’interventismo, ma rassegnarsi così al fatto che ci sono delle sfere d’influenza e che alcuni paesi non potranno mai aspirare a decidere in autonomia in fatto di politica estera. Personalmente sono molto anti-interventista e terrorizzata dal riarmo europeo, però allo stesso tempo mi rendo conto che questa è una domanda che a livello filosofico e politico ha un peso non indifferente.
MCF: Sì, questo è il grande dilemma insolvibile. Parlando di realismo nell’accezione generica del termine (e non come corrente delle Relazioni Internazionali), abbiamo smesso di essere realisti al momento del ritiro del corpo diplomatico dalla Russia. La questione delle armi all’Ucraina secondo me è secondaria. Certamente tutti i popoli hanno il diritto di lottare e autodeterminarsi, ed è nobile e “giusto” aiutarli, anche se io penso che il paragone con la Resistenza partigiana sia fuorviante. Ma limitando la discussione alla fornitura di armi all’Ucraina si evita di parlare di tante altre cose: delle implicazioni tragiche che ha armare i civili, ma soprattutto del fatto che avremmo potuto avere un peso maggiore se non avessimo lasciato all’inizio il tavolo delle trattative. Ma chiaramente parlare con l’invasore al momento dell’invasione cozza con i valori liberaldemocratici su cui si basano i nostri sistemi. E dunque si crea un cortocircuito.
Lo stesso cortocircuito che diventa evidente se si pensa che abbiamo fornito armi alla Russia per anni, anche dopo le sanzioni del 2014 (tradendo il blocco delle esportazioni che noi stessi abbiamo imposto), che Berlusconi è stato il principale alleato di Putin in Europa nello scorso decennio, che lo stesso Berlusconi ha mimato di sparare a una giornalista russa che aveva fatto una domanda scomoda a Vladimir Putin durante una conferenza stampa congiunta, a un anno e mezzo di distanza dall’omicidio di Anna Politkovskaja e nessuno ha battuto ciglio, che in questo decennio la Russia ha finanziato diversi nostri partiti, che alla Russia paghiamo 80 milioni di euro di gas al giorno. Putin non è diventato antidemocratico a febbraio 2022, lo è sempre stato, eppure noi ci siamo svegliati ora, e andiamo a dare la caccia ai pacifisti. Chiaramente queste sono considerazioni di natura sociologica e politologica, non immediatamente politica. Ma questo è il mio lavoro, e le persone che fanno questo lavoro hanno il dovere di fare questo tipo di analisi, sennò ciò che facciamo perde di senso. Dobbiamo parlare anche delle cose complesse e delle cose che non ci piacciono, non solo raccontarci le favole.