L a piazza è enorme. Cinque ettari pavimentati con un mosaico di pietre naturali provenienti da tutte le terre di lingua albanese, anche da Kosovo, Macedonia, Montenegro e Grecia. Sotto lo sguardo severo della statua di Giorgio Castriota Scanderbeg, eroe nazionale, una manciata di operai montano pigramente i palchetti per una fiera di prodotti bio. Sul grande murales del frontone razionalista del Museo storico – una sorta di Quarto Stato riletto con le lenti del realismo socialista – s’allungano le ombre di enormi gru in lento movimento. Dietro la moschea ottomana di Ethem Bey, la più antica d’Albania, s’alza una grande bandiera rossa con l’aquila a due teste, e le impalcature di due grattacieli in velocissima ascesa. Il tassista dice che ogni volta che viene in centro si perde, perché da un giorno all’altro tirano su nuovi edifici e invertono i sensi unici. È nato qui, e non gli dispiacciono tutti questi cambiamenti, ma vorrebbe comunque trasferirsi in Italia. Suo cugino, che sta già a Milano, gli consiglia però d’imparare la nostra lingua prima del grande salto.
Albania, il confine che non c’è (più)
I vicoli ai piedi dei palazzi sono ancora quelli della vecchia Tirana: negozietti di pochi metri quadri a cui si accede scendendo tre gradini, cianfrusaglie di ogni sorta appese al muro, portoni scrostati, marciapiedi sbeccati. Il tassista non ci fa caso, guida deciso senza mai voltarsi indietro. Alla fine accosta dove può, blocca tutti, saluta con un “Ciao” subito sommerso da furiosi colpi di clacson. Poco più in là, il traffico è già un lontano ricordo. I clienti di Momento, “il migliore ristorante italiano di Tirana”, sorseggiano pensosi un espresso sotto i marmi bianchi del Palazzo dell’Opera. E osservano senza troppo interesse i pochi passanti che si perdono nella vastità della piazza. All’angolo, un’orchestrina un po’ malmessa suona ritmi gitani, un gruppo di anziani gioca a domino seduto su delle cassette di plastica, le bici sferragliano in ogni direzione. Alzi gli occhi e leggi: “Istituto Italiano di cultura”. Accanto al portone una sfilza di targhe bianche immacolate: “Italian Trade Agency”, “Rocco Lombardi, studio legale Bari-Roma-Tirana”, “Antigone costruzioni”, “Camera di Commercio Italiana in Albania”, “Ufficio Regione Puglia di Tirana”, “Inca, il patronato della Cgil”. Oltre il vetro dell’ascensore si alza il minareto della moschea, e Tirana si distende caotica tra cantieri e ponteggi. Il corridoio è molto luminoso, tappezzato da locandine di eventi, scambi culturali Italo-albanesi, spettacoli teatrali, convegni. Abele Bejko è un ragazzone grande e grosso, con barba e capelli neri come la pece. È il responsabile dell’Inca di Tirana, e sta limando gli ultimi dettagli per l’evento finale di “Form@ 2”, un progetto di formazione pre-partenza organizzato dai patronati italiani per quei migranti che hanno già in tasca un ricongiungimento familiare, e che sono pronti a salpare per l’Italia. Negli ultimi tempi, il suo ufficio nel “Palazzo Italiano” è stato affollato da decine di donne, anziani e ragazzi, in ossequioso silenzio durante le lezioni di lingua, educazione civica e cultura italiana. “L’informazione è il primo passo per una buona migrazione – dice Abele con marcato accento bolognese -. Qui da noi è stato più facile che altrove, perché la comunità albanese è una tra le meglio integrate in Italia. Sarà per motivi storici e culturali, oppure perché trent’anni fa la nostra diaspora vi ha fatto scoprire di non essere più un Paese di partenza, ma una destinazione”.
Abele guarda dall’alto la sua città che cambia pelle, e la grande piazza che solo ora comincia ad affollarsi di ragazzi. Lui è la prova vivente di un’identità ibrida ormai molto diffusa da queste parti. È nato a Tirana, e da bambino è emigrato a Bologna con la famiglia. Poi è rientrato in Albania per iscriversi all’università. E qui è rimasto, per dare una mano agli albanesi che partono, “ma anche a molti italiani che decidono di trasferirsi da noi”. “Qualcosa è cambiato negli ultimi vent’anni – la sua voce ora s’abbassa per farsi strada tra i riccioli della barba -. Oggi partono soprattutto giovani istruiti, non solo le braccia per l’edilizia. E poi ormai qui c’è una crescente comunità italiana, perlopiù a Tirana, ma anche a Durazzo, Valona e Scutari. Una comunità varia, che appartiene a più gruppi d’interesse: pensionati, studenti, e liberi professionisti che cercano fortuna in un Paese fratello”. Il numero degli italiani d’Albania, in realtà, resta un piccolo mistero. Il governo guidato da Edi Rama tende a gonfiarlo fino ad arrivare all’inverosimile vetta di 19.000 unità. L’esecutivo socialista, d’altronde, ha tutto l’interesse a consolidare il rapporto con il partner adriatico in una fase cruciale nel suo processo d’integrazione europea. L’Albania ha ottenuto lo status di candidato Ue otto anni fa. E nel luglio scorso c’è stata la prima conferenza intergovernativa. Le cifre fornite dall’Aire, l’anagrafe degli italiani all’estero, sono molto più caute: prima della pandemia si parlava di circa 1.700 cittadini registrati. La verità, probabilmente, sta da qualche parte nel mezzo.
L’idea stessa di migrazione per come ci è stata raccontata va messa in discussione, allungando l’ombra di più di qualche dubbio sul concetto stesso di “rotta”.
Ma, al netto degli interessi di parte, di sicuro l’immigrazione italiana è vissuta da tutti come una novità degna di nota, e la nostra imprenditoria frequenta ormai assiduamente il Paese. Anche Iris Xhanaj pensa che sia un’occasione da non perdere. Lei ha fatto un percorso simile a quello di Abele. È nata in Albania, ha studiato in Italia, dove si è laureata alla Sapienza di Roma con una tesi sull’immigrazione clandestina, oggi dirige il Dipartimento per la Diaspora del Ministero degli esteri. Anche lei ha a cuore “il forte legame che esiste tra i due paesi, da un punto di vista geografico, culturale, storico ed economico”. Dalle sue parole, pronunciate in un italiano solo un po’ sporcato dalla erre che scivola, traspare la volontà delle istituzioni locali di stringere ancor più i rapporti con l’Italia, perché “rappresenta un partner strategico in termini di investimenti diretti e per i fenomeni sociali e culturali in corso”. “Ci sono due diverse diaspore – ripete -, la nuova emigrazione albanese è fatta di studenti e imprenditori. Non è più solo forza lavoro ma, come hanno sottolineato diverse direttive europee, l’immigrazione è riconosciuta in termini di valore. È uno scambio continuo, un ponte tra i due paesi. Un ponte che viene attraversato in entrambe le direzioni da migliaia di persone”.
La diaspora albanese verso l’Italia insomma, vista da qui, non appare più come una linea retta. È diventata un percorso tortuoso, spesso interrotto. Fatto di partenze, ritorni, soggiorni più o meno lunghi, e poi di nuovi viaggi. E tende a rendere sempre più sfocate le immagini della Vlora traboccante di donne e uomini disperati su una banchina del porto di Bari. Quello stesso porto da cui fa la spola Arjeta Veshi, sociologa, docente all’Università Mediterranea di Tirana e autrice di un recente e voluminoso saggio: 30 years of Albanian history: migration & integration. Experience in land of Bari. “Gli albanesi oggi sanno dove vanno, sono preparati, sono consapevoli – spiega, pure lei in un ottimo italiano -. Si spostano con regolari visti, tramite consolati e ambasciate. Sono cittadini legalizzati, insomma. Non ci sono più gli emigranti che partono sui gommoni senza una destinazione precisa, ma cittadini con un passaporto, che vanno, vengono e poi ritornano. È un’immigrazione con più dignità, che permette a chi fa ritorno di portare qui ciò che ha imparato nel Paese di destinazione”.
Questo concetto di circolarità, in effetti, è da tempo oggetto di studio da parte di sociologi e storici delle migrazioni. Ed è anche presente nel dibattito interno alle istituzioni europee sul tema. Il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, il documento firmato il 23 settembre 2020 con il quale la Commissione Ue traccia le proprie linee guida, punta ad esempio sulle “migrazioni sostenibili”. L’Unione europea propone di impegnarsi con i paesi terzi sulla base di “una nuova partnership”, cercando di trovare “soluzioni migratorie reciprocamente vantaggiose”. Italia e Albania hanno firmato un accordo di questo genere già nel 2011, ma un’intesa bilaterale c’era stata addirittura nel lontano 2008. La circolarità dei flussi assume quindi un ruolo centrale, sopratutto grazie al finanziamento di diversi progetti di rientro in patria per i migranti. Intanto si moltiplicano in tutta Europa schiere di enfatizzatori a vario titolo, che puntano a farla passare come la panacea di tutti i mali. Sono spesso gli stessi che hanno già inflazionato lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, e che in molti casi alimentano ancora le aspettative di chi vorrebbe per sé braccia al lavoro ma non persone nelle piazze e per le strade. Ad ogni modo, questa lunga elaborazione teorica mette evidentemente in crisi l’idea stessa di migrazione per come ci è stata raccontata negli ultimi 30 anni, e allunga anche l’ombra di più di qualche dubbio sul concetto stesso di “rotta”.
Tunisia, la doppia frontiera
A Tunisi è venerdì di preghiera. Ed è in corso lo sciopero dei mezzi pubblici. Le strade sono nel caos più totale. Le auto sono impantanate ovunque, sulle arterie principali così come nei vicoli laterali. Gli incroci sono terra di nessuno. Ogni tanto, proprio in mezzo a un crocevia, gli automobilisti scendono per accapigliarsi. Donne e bambini li guardano senza troppo interesse e attraversano senza fretta, con assoluto sprezzo del pericolo. Si formano capannelli agli angoli delle strade, tutti si sbracciano al passaggio di ogni taxi rosso e scalcagnato, che non si ferma mai. Arrivare a Piazza del Governo, dalle parti della Medina, è una vera e propria impresa. Tutti i palazzi istituzionali sono difesi da barriere di cemento e filo spinato, che stanno qui dagli attentati del 2015 e 2017. Ma servono ancora. La tensione c’è, si sente nell’aria. E cresce, alimentata da una crisi economica sempre più minacciosa.
D’altronde, qui l’inflazione è alle stelle, così come la disoccupazione. Migliaia di persone sono scese più volte in piazza per protestare contro il governo, con una serie di cortei organizzati dall’opposizione e dai sindacati. “Molti tunisini – ha recentemente scritto il magazine Jeune Afrique – vedono il presidente della Repubblica Kais Saied come colui che sta dividendo il Paese condannandolo all’accattonaggio”. Da queste parti, in effetti, l’instabilità politica è ormai diventata la norma. E Saied stringe forte il cappio sulla società civile tunisina, con una vasta campagna di arresti di esponenti politici, imprenditori, giudici, sindacalisti e giornalisti, accusati di “cospirare contro la sicurezza dello Stato”. Il presidente è arrivato addirittura a espellere la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (Ces) Esther Lynch, accusata di aver partecipato a una protesta antigovernativa. Il 18 febbraio scorso l’ha definita “persona non grata”, ingiungendole di abbandonare la Tunisia entro 24 ore. Oggi, tra le centinaia di persone costrette a piedi dallo sciopero si notano anche molti africani subsahariani. Non sono qui per protestare, ma sgusciano veloci tra la folla. Sono perlopiù giovani uomini in piccoli gruppi. Ma c’è più di qualche famiglia con i figli piccoli. Ogni tanto un volto nero fa capolino dalle porte dei negozietti delle vie laterali, o dal gabbiotto di un benzinaio spaventato dalle urla e dai clacson.
Per arrivare alla sede della Ote (Ufficio per i tunisini all’estero) bisogna attraversare un grande parco spelacchiato. Il laghetto piazzato al centro è completamente asciutto. Dietro un banchetto di legno un uomo coi grandi baffi a manubrio vende caramelle e datteri, sui tavolini del bar uomini soli bevono del tè. Anche qui, alcune famiglie di africani vagano in cerca di un po’ di tranquillità. Decine e decine di bambini giocano a pallone tra le radici degli alberi, s’inseguono, strillano, altri saltano sui gonfiabili al ritmo di musica dance trasmessa a tutto volume. A un certo punto, parte un remix di Bella Ciao da 130 battiti per minuto. Col parco e la musica ormai alle spalle, il grande palazzo dell’Ote spunta bianco oltre uno stradone ingolfato.
La circolarità dei flussi assume un ruolo centrale grazie al finanziamento di diversi progetti di rientro in patria per i migranti. Intanto si moltiplicano in tutta Europa schiere di enfatizzatori che puntano a farla passare come la panacea di tutti i mali.
Nel suo grande ufficio, su un divano di pelle scura, il direttore generale Mohamed Mansouri parla con un filo di voce. Completo scuro, cravatta celeste, baffi solo accennati e piccole lenti su occhi sottili: “La crescita economica presenta delle difficoltà, è vero. Non vengono creati posti di lavoro, il sistema scolastico non funziona, e la mancanza ormai decennale di stabilità spinge molti giovani verso la migrazione. C’è anche un problema di indebitamento con l’estero”. Mansouri si sistema sul divano, aggiusta gli occhiali sul naso, e continua senza mai alzare il tono della voce: “Tutto questo non si risolve con la bacchetta magica, bisogna creare sviluppo economico e sociale. Purtroppo i problemi che si sono susseguiti nel corso degli anni non hanno aiutato. Prima la pandemia, poi la crisi energetica, dopo ancora l’inflazione. Tutto ha contribuito a questa situazione”. Pure lui è convinto che l’unica strada da percorrere sia quella delle migrazioni sostenibili: “Non si tratta solamente di respingere gli immigrati, perché comunque continueranno a tentare al via del mare. Si tratta di fornire all’Italia e all’Europa la manodopera specializzata e formata di cui hanno bisogno. Si potrebbe cooperare nell’ambito della formazione professionale per facilitare l’integrazione”.
Qualche isolato più in là, in direzione della Medina, un ragazzo nero, alto e dinoccolato esce dalla sede dell’Ugtt, un palazzo bianco sporco solo un poco ravvivato dalle persiane celesti e dalle bandiere rosse. Lì dentro si riunisce il maggior sindacato del Paese, un attore istituzionale di tutto rispetto, che nel 2015 ha addirittura ricevuto il premio Nobel per il suo contributo alla transizione democratica della Tunisia. E che ha dichiarato guerra al governo Saied. Syed Sboui, il segretario dell’Ugtt della città di Kairwan, non gliele manda certo a dire. “Abbiamo un gran numero di disoccupati, il tasso di povertà è altissimo, e questo provoca la fuga dei giovani”. Lui, a differenza del direttore dell’Ote, grida forte: “La scorsa settimana un’intera famiglia che veniva da un piccolo villaggio nella zona di Chrarda é scomparsa in mare. In molti partono anche se sanno bene che rischiano la vita. Ma lo fanno lo stesso perché nella nostra regione, così come in tutto il Paese, non ci sono fabbriche, non c’è un’economia, non ci sono interventi da parte dello Stato. C’è solo disperazione e povertà”. Oltre alla feroce crisi economica che attanaglia il Paese, e che spinge migliaia di persone a tentare la sorte nel Mediterraneo, però, i sindacati locali devono farsi carico anche di un’altra questione.
La Tunisia, infatti, per i migranti subsahariani non è più solo un passaggio obbligato lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Secondo il sindacato, oggi nel Paese risiedono circa 750.000 cittadini stranieri. “Non siamo più solo un Paese di transito – spiega convinto tra una sigaretta e l’altra Abdallah El Euchi, segretario aggiunto dell’Ugtt -. Tantissimi migranti per diverso tempo hanno deciso di non partire, ma di rimanere qui, e hanno cominciano a lavorare o hanno aperto piccole attività. In ogni caso, sono restati. Quindi, mentre i nostri ragazzi emigrano, altri vengono da noi. È un fenomeno nuovo, che dobbiamo studiare e affrontare”. Un fenomeno che genera sfruttamento e razzismo. Come in Europa, in Tunisia gli immigrati hanno iniziato a sostituire i locali in alcune professioni usuranti: operai edili, braccianti agricoli, camerieri, colf. Ma per questi lavoratori regolarizzare la propria posizione resta estremamente difficile. Malgrado la Tunisia sia stata nel 2018 la prima nazione araba a dotarsi di una legge contro la discriminazione, i fenomeni di razzismo sono all’ordine del giorno. Alimentati dal solito Saied. Il 21 febbraio il presidente s’è lanciato in un discorso xenofobo in cui ha parlato di “orde di migranti irregolari” arrivati in Tunisia, portando “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. L’ha definita una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e per creare “un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. E ha consegnato così alla rabbia popolare gli immigrati. Scene di caccia all’uomo si sono verificate in diverse città, e molti migranti ora si nascondono per la paura. L’Unione africana ha definito “sconvolgenti” le dichiarazioni di Saied. Il clima è “sempre più ansiogeno”, come ha dichiarato l’Associazione degli studenti e tirocinanti africani in Tunisia (Aesat), e spinge molti migranti a chiedere il rimpatrio volontario. Diversi Paesi dell’Africa occidentale hanno organizzato voli di rimpatrio per i cittadini timorosi, e in moltissimi si sono ritrovati senza lavoro e senza casa. L’effetto paradossale è però che a rimpatriare volontariamente sono coloro che si trovavano in maniera regolare in Tunisia, mentre quelli che non hanno un permesso di soggiorno sono costretti a ricorrere ai canali illegali per arrivare in Europa. Per molti analisti la Tunisia potrebbe essere una “nuova Libia”, e non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.
Per molti analisti la Tunisia potrebbe essere una “nuova Libia”, e non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.
“L’Ugtt sta intervenendo – afferma Abdallah El Euchi, e l’anziano sindacalista ora s’infervora -, lavoriamo per tutelare la salute e il lavoro degli immigrati, per evitare lo sfruttamento, per aiutare le famiglie, le donne. E per combattere il razzismo. Ci dobbiamo occupare di tutto ciò che riguarda la loro vita. Per questo abbiamo dato agli stranieri la possibilità di aderire al sindacato. E abbiamo anche aperto dei punti d’ascolto per queste persone in varie città: qui a Tunisi, a Biserta, a Susa, a Medenina, Sfax e Jendouba. Facciamo mediazione culturale, gli immigrati possono venire nelle nostre sedi e spiegarci i loro problemi, e noi cercheremo di risolverli. Siamo i primi in tutto il Nord Africa a farlo”. Abdallah s’accende l’ennesima sigaretta, abbozza un sorriso tirato, mettendo in mostra una sfilza di denti gialli di nicotina: “Siamo diventati come l’Italia – tossisce -. Gli italiani partono per andare a lavorare in Germania o in Svizzera, noi andiamo in Italia, mentre gli africani vengono qui da noi. È una cosa che riguarda tutti.”
Marocco, il viaggio delle donne
“In effetti, oggi parlare di rotta è un po’ riduttivo. Ha sicuramente molto più senso ragionare sulla circolarità nelle migrazioni. Un progetto migratorio può durare anni, interrompersi, cambiare a seconda delle condizioni in cui si vengono di volta in volta a trovare i paesi di partenza, di transito o di approdo”. Marco Calvetto se ne sta su una seggiola nella sede del Patronato Acli di Casablanca, al primo piano di un piccolo appartamento un po’ buio al numero 12 di Avenue Hassan Souktani, poco lontano dal centro. Lungo la strada c’è il Consolato italiano, la scuola Enrico Mattei, alcune associazioni italo-marocchine e diversi uffici di traduzione dall’italiano, con tanto di grandi targhe tricolori e nomi improbabili. La nuova moschea di Hassan II, una delle più grandi al mondo, è poco lontana. I suoi marmi bianchissimi riflettono la luce di un sole ormai basso sul lungomare ristrutturato di recente. Qui c’è chi fa jogging, chi passeggia tranquillo, alcuni pescano oltre la balaustra. Diverse donne sole scrutano le onde da sotto il hijab. Sono a un tiro di schioppo dal patronato anche due alte torri di cemento e vetro scintillante, il Twin center, che ospita un albergo a 5 stelle e un centro commerciale, e che rappresenta il nuovo, modernissimo volto che re Mohammed VI vuole dare alla capitale economica del suo Paese. Le strade sono molto trafficate, le vetrine dei negozi allestite con cura, i marciapiedi percorsi da gruppi di ragazze vestite all’occidentale. I grandi slum di lamiera che circondano Casablanca sono lontani. Sopratutto il famigerato Sidi Moumen, a nord-est, una baraccopoli sterminata che ospita quasi 300 mila persone.
Calvetto è a capo dell’Area lavoro e immigrazione del Patronato Acli, e parla fitto fitto con Latifa e Aziz, marito e moglie, al lavoro su alcune pratiche di ricongiungimento familiare. “I cambiamenti economici in corso mutano le prospettive di chi vuole partire – spiega -. Ad esempio, per i marocchini il nostro Paese è stato in passato una grande opportunità. Ma oggi, anche se rappresentano ancora la seconda comunità straniera in Italia, questo discorso vale molto meno. Il numero degli uomini è in calo costante da alcuni anni, mentre il flusso di donne e bambini è in crescita grazie ai ricongiungimenti”. Nel 2020 l’85% dei permessi di soggiorno per chi veniva dal Marocco è stato rilasciato per motivi familiari.
“La nostra emigrazione negli ultimi anni è cambiata molto – conferma Latifa, lenti fumè a coprire occhi grandi e mobilissimi -, oggi si presentano figure diverse al nostro sportello. C’è il giovane che vuole partire in Italia con un contratto di lavoro o che sta cercando di ottenerlo. Poi c’è il marocchino che ha vissuto in Italia, che è partito giovane e ora vuole tornare, ma deve capire se riuscirà davvero a reintegrarsi. Ci sono anche diversi italiani che hanno scelto di vivere in Marocco e che vogliono portare qui la loro pensione. E poi ci sono moltissime donne con bambini che vogliono riunire la famiglia”. Latifa ha notato che negli ultimi dieci anni “le persone cercano di più l’unità familiare, anche nel Paese di approdo”. La nuova generazione non aspetta più l’ottenimento della cittadinanza, “ma avvia le pratiche con il solo permesso di soggiorno. Anche le donne vogliono emigrare. Poi magari torneranno nel paese d’origine, ma lo faranno tutti insieme”.
Mustapha Azaitraoui è docente di Geografia umana all’Università Sultan Moulay Slimane di Beni Mellal, ai piedi dell’Alto Atlante. Si occupa della diaspora marocchina da molti anni. “L’emigrazione verso l’estero è iniziata negli anni Sessanta – spiega in un italiano più che fluente -. All’epoca era una migrazione prettamente maschile, soprattutto verso la Francia, la Germania e l’Olanda. Poi, negli anni Ottanta, sono iniziate le partenze verso l’Italia, mentre i ricongiungimenti sono arrivati più tardi, quando s’è cominciata a osservare la prima migrazione femminile”. Questa prima ondata migratoria ha aiutato non poco il Marocco, è da lì che provengono gli oltre 90 miliardi di Dirham (circa 9 miliardi di euro, dato 2021 ndr) di rimesse, che contribuiscono per il 6,5% circa al Pil del Paese, grossomodo quanto l’industria del turismo. Sono molti poi quelli che, dopo anni di sacrifici, hanno deciso di ritornare per investire nella propria città di origine. Così si spiegano i tanti “Caffè Venezia” o “Ristorante Milano” che campeggiano sulle insegne di molte attività. Riconoscenza, nostalgia, e un pizzico di orgoglio per rivendicare i sacrifici d’oltremare. “I profili della migrazione cambiano in fretta – continua il professor Azaitraoui -. Adesso ci sono molte persone qualificate che cercano di migrare, e ci sono anche programmi finalizzati a facilitare i ritorni”. Ecco che di nuovo fa capolino la migrazione circolare, che “non è un concetto nuovo, se ne discute dagli anni Novanta”, ma “oggi determina cambiamenti decisivi nella società marocchina”.
Il viaggio verso un nuovo mondo però, anche se per ricongiungersi con un famigliare, e magari in vista di un possibile ritorno, può essere ancora un passaggio molto traumatico. Elena Manotti, reggiana, vive da anni a Casablanca, dove insegna italiano a chi ha i documenti in regola e ha deciso di partire. “Sono per la maggior parte donne e minori – racconta -. Alcune s’impegnano molto, vogliono sapere tutto, vogliono imparare. Altre sono molto meno interessate, perché pensano che i parenti che già sono in Italia le aiuteranno per ogni cosa. Tra l’altro per molte donne sposate spesso l’obiettivo della migrazione è soltanto quello di ottenere un’educazione di qualità per i figli e la sanità gratuita per tutta la famiglia. Per loro, arrivare in Italia significa sistemare tutti. Non hanno un interesse particolare a formarsi, per poi magari cercarsi un lavoro, per provare a crescere come individuo. Questo progetto ce l’hanno solo le donne già in possesso di una formazione avanzata, e che magari già stanno cercando di lavorare qui. Spesso il processo migratorio riproduce esattamente la situazione culturale e sociale in cui le persone vivono nel Paese di origine. Chi resta a casa a Casablanca, lo farà anche in Italia”.
Proprio di questi casi si occupa l’associazione “Donne dei quartieri di Casablanca”. E anche di progetti migratori tentati ma miseramente falliti. La presidentessa Amira Zaire, è un’avvocatessa, difende le donne marocchine nei processi di divorzio. “La nostra associazione si occupa soprattutto di quelle che vivono nei quartieri più poveri della città – racconta in arabo -. Donne che spesso affrontano il viaggio verso l’Italia con poca o nessuna consapevolezza di cosa troveranno una volta arrivate. Quindi l’aumento drastico dei ricongiungimenti familiari che abbiamo registrato negli ultimi 10 anni determina diversi problemi”. Questo vale “sopratutto per chi fa parte degli strati più bassi della società, e non ha una formazione adeguata”. Per molte ragazze giovani “quello verso il vostro Paese è il primo passo fuori dal proprio quartiere. Non sono pronte a integrarsi, a imparare una nuova cultura, a inserirsi nel mondo del lavoro. Ecco perché una volta arrivate il più delle volte si isolano”. Il passaggio successivo è un ritorno non certo piacevole: “Molte vivono il rientro come una colpa, e si portano addosso lo stigma del fallimento, che le isola nuovamente. E stavolta nel contesto sociale di partenza. Si sentono sbagliate, rifiutate, giudicate. Questo fenomeno ha ricadute psicologiche devastanti”. Negli slum di Casablanca, secondo Amira, l’immagine stessa della migrazione si sta guastando: “Molte giovani, dopo i racconti di chi non ce l’ha fatta, rinunciano addirittura al matrimonio, e all’intero progetto migratorio. Decidono di non partire e restano a casa. È un problema grave che le istituzioni dovrebbero affrontare, ma che viene troppo spesso sottovalutato.”
Un difficile ritorno
Zaira, almeno in parte, ha ragione. Negli ultimi anni il tema del ritorno è stato molto discusso dagli studiosi dei fenomeni migratori, e sono aumentati esponenzialmente eventi e programmi nazionali e internazionali che incoraggiano l’idea del migrante come promotore di sviluppo nel proprio Paese d’origine. I progetti promossi e finanziati dai paesi dell’Unione europea per incentivare i migranti a tornare, e investire le conoscenze acquisite “a casa loro”, si moltiplicano anno dopo anno. Al contrario, sono davvero molto pochi gli sforzi profusi per assistere chi rientra dal punto di vista sociale o psicologico. E questo vale tanto per le per esperienze migratorie fallite, quanto per quelle riuscite. In realtà, in tempi non sospetti, uno studioso italiano aveva già affrontato il tema del ritorno, con sguardo critico. Franco Merico è stato ricercatore e docente di sociologia all’Università del Salento, e nel 1978 ha pubblicato in “Studi Emigrazione” un saggio dal titolo “Il difficile ritorno”. L’oggetto del suo studio erano i migranti italiani rientrati in Salento, Irpinia e Molise. Oltre 30 anni dopo, Merico ha fatto il percorso inverso, indagando sugli effetti del ritorno di chi era emigrato in Italia da Marocco, Romania e Albania. “Anche a distanza di tanti anni, le differenze tra i nostri emigranti e gli emigrati in Italia non sono molte – ci racconta -. Perché quando qualcuno parte per lavoro, la speranza di un rientro c’è quasi sempre. Magari è un’idea lontana, non ancora definita, non organizzata, ma c’è, esiste”.
Rientrare, però, è spesso traumatico tanto quanto partire.
Rientrare, però, è spesso traumatico tanto quanto partire: “Il processo di reintegrazione sociale è molto conflittuale, sia con le istituzioni locali sia con l’intera collettività. Si creano spesso rapporti caratterizzati da reciproche diffidenze. Innanzitutto perché gli emigranti rientrati sono profondamente cambiati nella mentalità e nel modo di agire. D’altra parte, anche le comunità di partenza si sono trasformate, magari proprio in conseguenza dell’emigrazione stessa”. In sostanza, si è creato uno “scarto culturale che determina incomprensioni”. Chi è stato fuori, quindi, diventa spesso “un mezzo estraneo”, e se torna dopo la pensione è “un estraneo completo”. Il ritorno dei migranti, però, secondo lo studioso potrebbe “aiutare a creare legami culturali permanenti tra il Paese di accoglienza e quello di origine”. “Se si lavorasse davvero per l’integrazione, l’emigrazione di ritorno potrebbe diventare un ponte tra le due realtà – conclude Merico -. Perché il ritorno è sempre l’altra faccia di ogni migrazione. È la seconda metà del viaggio.” E non è detto che sia la più semplice.